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Marco Bava è un economista, consulente finanziario e spesso attivo nel panorama italiano come esperto di economia e finanza. È noto per le sue opinioni critiche su temi come la gestione della finanza pubblica italiana, le banche e la situazione economica generale del Paese. Inoltre, in passato è stato coinvolto in varie iniziative politiche e civiche, dove ha cercato di sensibilizzare l'opinione pubblica su questioni legate alla trasparenza economica e alla gestione del debito pubblico.

 

Dal Vangelo secondo Luca Lc 21,5-19
“In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». 
Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». 
Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.
Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. 
Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».”

 

La gangster
che si fece
suora

pierangelo sapegno
Le due vite di Angela Corradi sono finite adesso. Quella della donna gangster con la svastica tatuata sulla schiena e della suora laica che ha dedicato la sua vita ai disperati e agli sconfitti. La notizia l'ha data su Facebook Tino Stefanini, uno degli ultimi superstiti della famigerata mala della Comasina: «Resterai per sempre nei nostri cuori». Ma di Angela Corradi, morta a 73 anni, resta qualcosa di più anche per tutti noi, il mistero della vita e dei suoi peccati, la sottile linea di demarcazione che può dividere il bene dal male sulle strade del dolore. Tutto quello che non possiamo vedere e facciamo fatica a capire. Una volta le chiesero come aveva fatto a scoprire Dio. «Perché ho sentito la sua voce», aveva risposto. «Mi disse "Io ci sono". Mi disse solo questo». Era una sera che Angela Corradi aveva un mitra in mano e una pistola infilata nei calzoni e stava uscendo dalla sua casa di via Osculati ad Affori per andare a uccidere qualcuno. Ma qualche anno dopo, aveva il velo e degli occhiali a goccia che nascondevano uno sguardo che levigava il tempo e anche le sue ferite, perché non si vive la sua vita senza perdere pezzi e portarne le cicatrici. Allora le chiesero come faceva a essere così sicura che fosse la voce di Dio. «Lo so e basta», disse con tono di nuovo duro. Il fatto è che pure quando sposò Dio e si fece terziaria francescana non perse mai la forza del suo carattere. Era scritta nei suoi occhi, quella forza. Era la pupa del gangster, la «pupa della banda Vallanzasca», come titolavano i giornali, la compagna inseparabile di Vito Pesce, il braccio destro del bel René, che la chiamava «la sorellina» e di lei diceva che non era solo bella e coraggiosa: «Angelina è stata la donna che in quanto a palle dava dei punti e tanti maschietti cazzuti. Una forza della natura. Fondamentalmente, era una femmina da sballo. Bella, intelligente, simpatica, capace di essere dolcissima. Ma quando c'era da dimostrare il suo carattere, persino il suo uomo faceva bene a non contraddirla».
Era un giorno di luglio del 1978 quando venne folgorata da Cristo, mentre doveva andare a vendicare «uno sgarro fatto ai miei compagni in carcere». Lo raccontò cinque anni dopo esatti, al meeting di Cl a Rimini: «Io posso solo tentare di farvi vedere una scena. Sono in casa, sono armata fino ai denti e quando varcherò quella porta so che l'unica cosa che devo fare è uccidere qualcuno. E sono molto determinata a farlo. È in quel momento che mi si è presentato il Signore. Non Lui, io mento se dico Lui. Ma la sua voce. E l'ho sentita benissimo. Ha solo detto "ci sono". Non ha detto altro. E io mi sono terrorizzata. Non avevo mai avuto paura di niente. Ma quella volta sì». Prima di cambiare la sua vita, Angela era stata tutto quello che poteva essere una nata come lei nella nebbia dell'anonimato ai margini della metropoli. Era stata commessa, e poi modella prima di approdare nella banda di Vallanzasca per un «atto di ribellione». Si era tatuata sulla schiena una svastica e su un dito la «N» di nazista con una croce sovrapposta. Diventò una protagonista di quegli anni di violenza e finì anche in carcere, cinque anni a San Vittore. Era una donna bellissima, hanno sempre ripetuto quelli che l'avevano conosciuta. I suoi lavoravano nel circo. Il padre faceva il giro della morte in motocicletta. Poi un gravissimo incidente l'aveva paralizzato e da allora anche la madre, Bruna, acrobata, lasciò il tendone. I suoi cercarono di avviarla agli studi, ma non ci fu verso. Angela voleva scappare, andare via da quella prigione di case grigie e uguali, dalle pene della sua famiglia. A sedici anni fuggì di casa e dopo poco tempo si legò ai ragazzi della mala che in quegli anni stavano scalando le gerarchie di Milano a mitra spianati, lasciando una scia di morte dietro di loro. Diventò la compagna di Vito pesce, uno degli uomini più spietati della banda Vallanzasca. I giornali, raccontando i corpi senza vita sparsi sulle strade, tutte quelle esplosioni di violenza e le sparatorie, li chiamavano «i killer drogati. La più feroce gang del Dopoguerra». In quegli anni morì suo padre, mentre lei veniva arrestata. Di San Vittore ricordò la vita vuota e arida dietro a quelle sbarre.
La conversione avvenne all'improvviso, quando era già una suora laica, la sua auto, una A112, venne crivellata di colpi in piena notte e lei rimase quasi in fin vita con ferite sul volto. «Gesù, Gesù aiutami...», ripeteva ai medici del Niguarda. Sua madre Bruna raccontò che «era uscita per andare a portare aiuto ai bisognosi». In realtà, quell'episodio rimase un mistero senza risposta.
Un po' come il suo viso, conservato negli archivi della cronaca nera e nelle foto che la immortalarono col velo. Non aveva più i capelli tinti di biondo e lo sguardo sprezzante. Ma gli occhi sono lo specchio dell'anima. E non sono cambiati. Erano troppo duri, quand'era ragazzina, ma anche adesso erano gli occhi di una che aveva sempre dovuto combattere nella sua vita, farsi largo tra le infinite e irrisolte violenze delle periferie, fra quegli edifici nudi che nascondevano tutti le stesse miserie e le stesse rabbie, in quelle ripetizioni di facciate sempre uguali e in quel piatto e uniforme plurale di una sconfitta comune, dove ogni finestra apparteneva solo alle nebbie della disperazione, un disegno senza altri colori che non fossero quelli dei sogni di chi vuole scappare. Alla fine però Angela Corradi è tornata qui e ci è rimasta fino alla sua morte, a 73 anni, per dedicarsi alle anime perse dei drogati, dei detenuti, dei più deboli, di tutti quelli rimasti senza speranze nella battaglia della vita. È ritornata da dov'era partita, nella terra di mezzo, nei luoghi di tutti quelli che continuano a perdere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TO.11.07.24

 

Intervento fatto al Collegio Carlo Alberto di Torino sulla censura assembleare dell’art.11 del Decreto Capitali

  • E’ sempre positiva una analisi storica democratica.
  • Qui in p.za Arbarello a TORINO c'era la Facolta' di Economia ed ho imparato l’ economia industriale  dal prof Goss Pietro.
  • Che dai 25 anni ho potuto applicare concretamente direttamente con Gianni Agnelli.
  • L’invidia dei docenti di Economia di TORINO per questa mia esperienza  formativa , mi e’ costata 16 anni di blocco per la laurea in Economia a Torino , ottenuta poi in 16 mesi a Novara, a cui e’ seguita una 2^ laurea in giurisprudenza a Torino per riabilitarmi con il prof.Dezzani di Economia e Commercio a Torino. Altri 20 anni mi blocca Economia e Commercio di Torino per l'esame da dottore Commercialista  che poi supero a Roma.
  • A 30 anni proposi a Gianni Agnelli  superFIAT, LA FUSIONE IFI FIAT , che mi chiese di portare a Cuccia, e che Gabetti e Galateri , con cui collaboravo, ed a cui chiesi un aiuto, mi bloccarono.
  • Umberto Agnelli attraverso Boschetti mi propose di rifare la Stilo, ma Morchio si oppose .
  • Muoiono Edoardo Agnelli  Gianni Agnelli  e Umberto Agnelli ,  Gabetti ,attraverso donna Marella e Yaky sceglie Marchionne  che privo di conoscenze automobilistiche, ha lasciato a  Yaky la sola scelta di VENDERE la Fiat che sta progressivamente riducendo la produzione negli stabilimenti italiani.
  • A cui Cirio Urso e Pichetto rispondono rifiutando l’esame del mio PROGETTO H2 PER AUTOTRAZIONE. Lo trovate sul mio sito www.marcobava.it. Mentre DENORA ne REALIZZA uno suo IN LOMBARDIA programmando il più importante stabilimento europeo di elettrolizzatori per produrre H2 , affiancata da  SNAM dopo che se ne parlato nell’assemblea aperta di Snam 1 mese fa, in cui viene convita del futuro della produzione dell’H2 con elettrolizzatori che fara’ appunto con Denora in Lombardia. Ed io prevedo che seguira’ la produzione  delle auto ad H2 in Lombadia invece che in Piemonte , che forse saranno finanziate da Unicredito e S.PAOLO. Queste sono visioni strategiche.
  • Tutto cio’ mentre a Torino ed in Italia il presidente del S.PAOLO ispirando l’art.11 fascista del Decreto capitali, censura, in Italia, unica nel mondo, la democrazia nelle assemblee, pero’ non applicata da Snam che forse non e’ un importante cliente di S.PAOLO.
  • Prof Goss Pietro E’ COSCIENTE dei danni che questa sua censura democratica sta provocando e provocherà rispetto alla storia del paese che avete illustrato ?
  • Perche’ lo sta facendo viste le conseguenze di impoverimento regionale e nazionale ?
  • Qual’e’ il fine ?  il POTERE FINE A SE STESSO come mi risposte anni fa Grande Stevens ?
  • La stessa decadenza si manifesta anche attraverso le assemblee Juventus in cui, anche se non sono state mai chiuse ,  sono stato aggredito 2 volte dallo staff. Tutto cio’ non puo’ che portare alla vendita della Juve come e’ successo per Fiat portando sempre piu’ il Piemonte verso la deriva democratica ed economica.
  • Senza democrazia in economia non ci può essere sviluppo. Siete d’accordo ?                                       Mb

Per confermare quale fosse il grado di conoscenza che avevo con GA che mi ha insegnato dare il 5 posso aggiungere che :

  1. soffriva di insonnia per cui leggeva ed alle 12 aveva sonnolenza
  2. amava la boxe
  3. quando aveva una influenza si curava con la penicellina

Sul prof.GP posso invece ricordare:

  1. che ho concordato l'appoggio alla sua prima nomina a presidente di Intesa S.PAOLO con il prof.Bazoli in cambio di una sua presidenza onoraria con partecipazione alle decisioni strategiche;
  2. che gli ho proposto una fusione di Unicredito in Intesa S.Paolo

 

 

 

TO.03.02.23

 

Ill.mo Signor Presidente della Corte Costituzionale Augusto Barbera

Ill.mo Capo dello Stato Sergio Mattarella

Ill.mo Presidente del Senato

Ill.mo Presidente della Camera

Ill.ma Presidente del Consiglio

 

In questi giorni e’ in approvazione l’atto della Camera: n.1515 , Senato n.674. - "Interventi a sostegno della competitività dei capitali e delega al Governo per la riforma organica delle disposizioni in materia di mercati dei capitali recate dal testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e delle disposizioni in materia di società di capitali contenute nel codice civile applicabili anche agli emittenti" (approvato dal Senato) (1515) .

L’articolo 11 (Svolgimento delle assemblee delle società per azioni quotate) modificato al Senato, consente, ove sia contemplato nello statuto, che le assemblee delle società quotate si svolgano esclusivamente tramite il rappresentante designato dalla società. In tale ipotesi, non è consentita la presentazione di proposte di deliberazione in assemblea e il diritto di porre domande è esercitato unicamente prima dell’assemblea. Per effetto delle modifiche apportate al Senato, la predetta facoltà statutaria si applica anche alle società ammesse alla negoziazione su un sistema multilaterale di negoziazione; inoltre, sempre per effetto delle predette modifiche, sono prorogate al 31 dicembre 2024 le misure previste per lo svolgimento delle assemblee societarie disposte con riferimento all’emergenza Covid-19 dal decreto-legge n. 18 del 2020, in particolare per quanto attiene l’uso di mezzi telematici. L’articolo 11 introduce un nuovo articolo 135-undecies.1 nel TUF – Testo Unico Finanziario (D. Lgs. n. 58 del 1998) il quale consente, ove sia contemplato nello statuto, che le assemblee delle società quotate si svolgano esclusivamente tramite il rappresentante pagato e designato dalla società. Le disposizioni in commento rendono permanente, nelle sue linee essenziali, e a condizione che lo statuto preveda tale possibilità, quanto previsto dall’articolo 106, commi 4 e 5 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, che ha introdotto specifiche disposizioni sullo svolgimento delle assemblee societarie ordinarie e straordinarie, allo scopo di contemperare il diritto degli azionisti alla partecipazione e al voto in assemblea con le misure di sicurezza imposte in relazione all’epidemia da COVID-19. Il Governo, nella Relazione illustrativa, fa presente che la possibilità di continuare a svolgere l’assemblea esclusivamente tramite il rappresentante designato tiene conto dell’evoluzione, da tempo in corso, del modello decisionale dei soci, che si articola, sostanzialmente, in tre momenti: la presentazione da parte del consiglio di amministrazione delle proposte di delibera dell’assemblea; la messa a disposizione del pubblico delle relazioni e della documentazione pertinente; l’espressione del voto del socio sulle proposte del consiglio di amministrazione. In questo contesto, viene fatta una affermazione falsa e priva di ogni fondamento giuridico: che  l’assemblea ha perso la sua funzione informativa, di dibattito e di confronto essenziale al fine della definizione della decisione di voto da esprimere. Per cui non e’ vero che la partecipazione all’assemblea si riduca, in particolar modo, per gli investitori istituzionali e i gestori di attività, nell’esercizio del diritto di voto in una direzione definita ben prima dell’evento assembleare, all’esito delle procedure adottate in attuazione della funzione di stewardship e tenendo conto delle occasioni di incontro diretto, chiuse ai risparmiatori,  con il management della società in applicazione delle politiche di engagement.

Per cui in questo contesto, si verrebbe ad applicare una norma di esclusione dal diritto di partecipazione alle assemblee degli azionisti da parte di chi viene tutelato, anche attraverso il diritto  alla partecipazione alle assemblee dall’art.47 della Costituzione oltre che dall’art.3 della stessa per una oggettiva differenza di diritti fra cittadini azionisti privati investitori che non possso piu’ partecipare alle assemblee e ed azionisti istituzionali che invece godono di incontri diretti privati e riservati con il management della società in applicazione delle politiche di engagement.

Il che crea una palese ed illegittima asimmetria informativa legalizzata in Italia rispetto al contesto internazionale in cui questo divieto di partecipazione non sussiste. Anzi gli orientamenti europei vanno da anni nella direzione opposta che la 6 commissione presieduta dal sen.Gravaglia volutamente dimostra di voler ignorare.

Viene da chiedersi perche’ la maggioranza ed il Pd abbiano approvato questo restringimento dei diritti costituzionali ?

Tutto cio’ mentre Elon Musk ha subito una delle più grandi perdite legali nella storia degli Stati Uniti questa settimana, quando l'amministratore delegato di Tesla è stato privato del suo pacchetto retributivo di 56 miliardi di dollari in una causa intentata da Richard Tornetta che ha fatto causa a Musk nel 2018, quando il residente della Pennsylvania possedeva solo nove azioni di Tesla. Il caso è arrivato al processo alla fine del 2022 e martedì un giudice si è schierato con Tornetta, annullando l'enorme accordo retributivo perché ingiusto nei suoi confronti e nei confronti di tutti i suoi colleghi azionisti di Tesla.

La giurisprudenza societaria del Delaware è piena di casi che portano i nomi di singoli investitori con partecipazioni minuscole che hanno finito per plasmare il diritto societario americano.

Molti studi legali che rappresentano gli azionisti hanno una scuderia di investitori con cui possono lavorare per intentare cause, afferma Eric Talley, che insegna diritto societario alla Columbia Law School. Potrebbe trattarsi di fondi pensione con un'ampia gamma di partecipazioni azionarie, ma spesso si tratta anche di individui come Tornetta.

Il querelante firma i documenti per intentare la causa e poi generalmente si toglie di mezzo, dice Talley. Gli investitori non pagano lo studio legale, che accetta il caso su base contingente, come hanno fatto gli avvocati nel caso Musk.

Tornetta beneficia della vittoria della causa nello stesso modo in cui ne beneficiano gli altri azionisti di Tesla: risparmiando all'azienda i miliardi di dollari che un consiglio di amministrazione asservito pagava a Musk.

Gli esperti hanno detto che persone come Tornetta sono fondamentali per controllare i consigli di amministrazione. I legislatori e i giudici desiderano da tempo che siano le grandi società di investimento a condurre queste controversie aziendali, poiché sono meglio attrezzate per tenere d'occhio le tattiche dei loro avvocati. Ma gli esperti hanno detto che i gestori di fondi non vogliono mettere a repentaglio i rapporti con Wall Street.

Quindi è toccato a Tornetta affrontare Musk.

"Il suo nome è ora impresso negli annali del diritto societario", ha detto Talley. "I miei studenti leggeranno Tornetta contro Musk per i prossimi 10 anni". Questa e’ democrazia e trasparenza vera non quella votata da maggioranza e Pd.

Infatti da 1 anno avevo chiesto di essere udito dal Senato che mi ignorato nella totale indifferenza della 6 commissione . Mentre lo sono stati sia il recordman professionale dei rappresentanti pagati degli azionisti , l’avv.Trevisan , sia altri ispiratori e sostenitori della modifica normativa proposta. Per cui mi e’ stata preclusa ogni osservazione non in linea con la proposta della 6 commissione del Senato che ha esaminato ed emendato il provvedimento e questo viola i principi di indipendenza e trasparenza delle camera e senato: dov’e’ interesse pubblico a vietare le assemblee agli azionisti per ragioni pandemiche nel 2024 ?

La prova più consistente che tale articolo non ha alcuna ragione palese per essere presentato e’ che sono state di fatto rese permanenti le misure introdotte in via temporanea per l’emergenza Covid-19 In sintesi, il menzionato articolo 106, commi 4 e 5 - la cui efficacia è stata prorogata nel tempo e, da ultimo, fino al 31 luglio 2023 dall’articolo 3, comma 1, del decreto-legge 30 dicembre 2021, n. 228 - prevede che le società quotate possano designare per le assemblee ordinarie o straordinarie il rappresentante designato, previsto dall'articolo 135-undecies TUF, anche ove lo statuto preveda diversamente; inoltre, la medesima disposizione consente alle società di prevedere nell’avviso di convocazione che l’intervento in assemblea si svolga esclusivamente tramite il rappresentante designato, al quale potevano essere conferite deleghe o sub-deleghe ai sensi dell’articolo 135-novies del TUF. L'articolo 135-undecies del TUF dispone che, salvo diversa previsione statutaria, le società con azioni quotate in mercati regolamentati designano per ciascuna assemblea un soggetto al quale i soci possono conferire, entro la fine del secondo giorno di mercato aperto precedente la data fissata per l'assemblea, anche in convocazione successiva alla prima, una delega con istruzioni di voto su tutte o alcune delle proposte all'ordine del giorno. La delega ha effetto per le sole proposte in relazione alle quali siano conferite istruzioni di voto, è sempre revocabile (così come le istruzioni di voto) ed è conferita, senza spese per il socio, mediante la sottoscrizione di un modulo il cui contenuto è disciplinato dalla Consob con regolamento. Il conferimento della delega non comporta spese per il socio. Le azioni per le quali è stata conferita la delega, anche parziale, sono computate ai fini della regolare costituzione dell'assemblea mentre con specifico riferimento alle proposte per le quali non siano state conferite istruzioni di voto, le azioni non sono computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l'approvazione delle delibere. Il soggetto designato e pagato come rappresentante è tenuto a comunicare eventuali interessi che, per conto proprio o di terzi, abbia rispetto alle proposte di delibera all’ordine del giorno. Mantiene altresì la riservatezza sul contenuto delle istruzioni di voto ricevute fino all'inizio dello scrutinio, salva la possibilità di comunicare tali informazioni ai propri dipendenti e ausiliari, i quali sono soggetti al medesimo dovere di riservatezza. In forza della delega contenuta nei commi 2 e 5 dell'articolo 135-undecies del TUF la Consob ha disciplinato con regolamento alcuni elementi attuativi della disciplina appena descritta. In particolare, l'articolo 134 del regolamento Consob n. 11971/1999 ("regolamento emittenti") stabilisce le informazioni minime da indicare nel modulo e consente al rappresentante che non si trovi in alcuna delle condizioni di conflitto di interessi previste nell'articolo 135-decies del TUF, ove espressamente autorizzato dal delegante, di esprimere un voto difforme da quello indicato nelle istruzioni nel caso si verifichino circostanze di rilievo, ignote all'atto del rilascio della delega e che non possono essere comunicate al delegante, tali da ARTICOLO 11 42 far ragionevolmente ritenere che questi, se le avesse conosciute, avrebbe dato la sua approvazione, ovvero in caso di modifiche o integrazioni delle proposte di deliberazione sottoposte all'assemblea. Più in dettaglio, per effetto del comma 4 dell'articolo 106, le società con azioni quotate in mercati regolamentati possono designare per le assemblee ordinarie o straordinarie il rappresentante al quale i soci possono conferire deleghe con istruzioni di voto su tutte o alcune delle proposte all'ordine del giorno, anche ove lo statuto disponga diversamente. Le medesime società possono altresì prevedere, nell’avviso di convocazione, che l’intervento in assemblea si svolga esclusivamente tramite il rappresentante designato, al quale possono essere conferite anche deleghe o sub-deleghe ai sensi dell’articolo 135-novies del TUF, che detta le regole generali (e meno stringenti) applicabili alla rappresentanza in assemblea, in deroga all’articolo 135-undecies, comma 4, del TUF che, invece, in ragione della specifica condizione del rappresentante designato dalla società, esclude la possibilità di potergli conferire deleghe se non nel rispetto della più rigorosa disciplina prevista dall'articolo 135-undecies stesso. Per effetto del comma 5, le disposizioni di cui al comma 4 sono applicabili anche alle società ammesse alla negoziazione su un sistema multilaterale di negoziazione e alle società con azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante. Le disposizioni in materia di assemblea introdotte dalle norme in esame non sono state approvate dal M5S il cui presidente , avv.Conte, aveva introdotto tali norme esclusivamente per il periodo Covid. Per cui l’articolo 11 in esame, come anticipato, introduce un nuovo articolo 135- undecies.1 nel Testo Unico Finanziario, ai sensi del quale (comma 1) lo statuto di una società quotata può prevedere che l’intervento in assemblea e l’esercizio del diritto di voto avvengano esclusivamente tramite il rappresentante designato dalla società, ai sensi del già illustrato supra articolo 135-undecies. A tale rappresentante possono essere conferite anche deleghe o sub-deleghe ai sensi dell'articolo 135-novies, in deroga all'articolo 135-undecies, comma 4. La relativa vigilanza è esercitata, secondo le competenze, dalla Consob (articolo 62, comma 3 TUF e regolamenti attuativi) o dall’Autorità europea dei mercati finanziari – ESMA.

L’ESMA non e’ stata mai sentita dal sen.Gravaglia su questo articolo mentre la Consob ha espresso parere contrario che sempre lo stesso ha ignorato. Ma i soprusi non finiscono qui : il comma 3 del nuovo articolo 135-undecies.1 chiarisce che, nel caso previsto dalle norme in esame. il diritto di porre domande (di cui all’articolo 127-ter del TUF) è esercitato unicamente prima dell’assemblea. La società fornisce almeno tre giorni prima dell’assemblea le risposte alle domande pervenute. In sintesi, ai sensi dell’articolo 127-ter, coloro ai quali spetta il diritto di voto possono porre domande sulle materie all'ordine del giorno anche prima dell'assemblea. Alle domande pervenute prima dell'assemblea è data risposta al più tardi durante la stessa. La società può fornire una risposta unitaria alle domande aventi lo stesso contenuto. L’avviso di convocazione indica il termine entro il quale le domande poste prima dell'assemblea devono pervenire alla società. Non è dovuta una risposta, neppure in assemblea, alle domande poste prima della stessa, quando le informazioni richieste s

 

iano già disponibili in formato "domanda e risposta" nella sezione del sito Internet della società ovvero quando la risposta sia stata pubblicatma 7, del TUF relativo allo svolgimento delle assemblee di società ed enti. Per effetto delle norme introdotte, al di là delle disposizioni contenute nell’articolo in esame che vengono rese permanenti (v. supra), sono prorogate al 31 dicembre 2024 tutte le altre misure in materia di svolgimento delle assemblee societarie – dunque non solo quelle relative alle società quotate – previste nel corso dell’emergenza Covid-19. Questo che e’ un capolavoro di capziosità di un emendamento della sen.Cristina Tajani PD , ricercatrice e docente universitaria, di indifferenziazione parlamentare negli obiettivi : dal momento che le misure previste dall’art.11 in oggetto prevedono per essere applicabili il loro recepimento statutario, lo stesso viene ottenuto nel 2024 per ragioni di Covid,  con il rappresentante pagato , che ovviamente non porrà alcuna opposizione neppure verbale.

Illustri Presidenti se questa non e’ una negazione degli art.47 e 3 della Costituzione,  contro la democrazia e trasparenza societaria , cos’e ?

Al termine di questa mia riflessione vorrei capire se in questo nostro paese esiste ancora uno spazio di rispettosa discussione democratica o di tutela giuridica nei confronti di una decisione arbitraria di una classe dirigente qui’ palesemente opaca.

Confido in una vs risposta costruttiva di rispetto della libertà progressista di un paese evoluto ma stabile e garante nei diritti delle minoranze . Anche perché quello che ho anticipato con Edoardo Agnelli sul futuro della Fiat dal 1998 in poi si e’ tristemente avverato, e solo oggi, forse,  e’ diventato di coscienza comune ,  anche se a me e’ costato pesanti ritorsioni personali da parte degli organi di polizia e giustizia torinese e della Facolta’ di Economia Commercio di Torino . Ed ad Edoardo Agnelli la morte. Non e’ impedendomi di partecipare alle assemblee che Fiat & C ritorneranno in Italia, perché nel frattempo non esistono più a causa anche di chi a Torino e Roma gli ha concesso di fare tutto quello che di insensato hanno fatto dal 1998 in poi anche contro se stessi oltre che i suoi lavoratori ed azionisti, calpestando brutalmente chi osava denunciarlo pubblicamente nel tentativo, silenziato, di fermare la distruzione di un orgoglio e una risorsa nazionale. Giugiaro racconta che quando la Volkswagen gli chiese di fare la Golf gli presento’ la Fiat 128 come esempio inarrivabile. Oggi Tavares si presenta in Italia come il nuovo Napoleone , legittimato da Yaky e scortato dalla DIGOS per difenderlo da Marco BAVA che vorrebbe solo documentargli che l’industria automobilistica italiana ha una storia che gli errori di 3 persone non debbono poter cancellare. Anche se la storia finora ha premiato chi ha consentito il restringimento dei diritti in questo paese la frana del futuro travolgerà tutti.

Basta chiederlo a Montezemolo che tutto questo lo sa e lo ha vissuto direttamente.

 

UNA ATTUALIZZAZIONE DEL:

DISCORSO DEL 30.05.1924
Giacomo Matteotti
Matteotti: «Onorevoli colleghi, se voi volete contrapporci altre elezioni, ebbene io domando la testimonianza di un uomo che siede al banco del Governo, se nessuno possa dichiarare che ci sia stato un solo avversario che non abbia potuto parlare in contraddittorio con me nel 1919».
Voci: «Non è vero! Non è vero! » .
Finzi, sottosegretario di Stato per l'interno: «Michele Bianchi! Proprio lei ha impedito di parlare a Michele Bianchi! » .
Matteotti: «Lei dice il falso! (Interruzioni, rumori) Il fatto è semplicemente questo, che l'onorevole Michele Bianchi con altri teneva un comizio a Badia Polesine. Alla fine del comizio che essi tennero, sono arrivato io e ho domandato la parola in contraddittorio. Essi rifiutarono e se ne andarono e io rimasi a parlare. (Rumori, interruzioni)».
Finzi: «Non è così! » .
Matteotti: «Porterò i giornali vostri che lo attestano».
Finzi: «Lo domandi all'onorevole Merlin che è più vicino a lei! L'onorevole Merlin cristianamente deporrà».
Matteotti: «L'on. Merlin ha avuto numerosi contraddittori con me, e nessuno fu impedito e stroncato. Ma lasciamo stare il passato. Non dovevate voi essere i rinnovatori del costume italiano? Non dovevate voi essere coloro che avrebbero portato un nuovo costume morale nelle elezioni? (Rumori) e, signori che mi interrompete, anche qui nell'assemblea? (Rumori a destra)».
Teruzzi: «È ora di finirla con queste falsità».
Matteotti: «L'inizio della campagna elettorale del 1924 avvenne dunque a Genova, con una conferenza privata e per inviti da parte dell'onorevole Gonzales. Orbene, prima ancora che si iniziasse la conferenza, i fascisti invasero la sala e a furia di bastonate impedirono all'oratore di aprire nemmeno la bocca. (Rumori, interruzioni, apostrofi)».
Una voce "Non è vero, non fu impedito niente (Rumori)".
Matteotti: «Allora rettifico! Se l'onorevole Gonzales dovette passare 8 giorni a letto, vuol dire che si è ferito da solo, non fu bastonato. (Rumori, interruzioni) L'onorevole Gonzales, che è uno studioso di San Francesco, si è forse autoflagellato! (Si ride. Interruzioni) A Napoli doveva parlare... (Rumori vivissimi, scambio di apostrofi fra alcuni deputati che siedono all'estrema sinistra)».
Presidente: «Onorevoli colleghi, io deploro quello che accade. Prendano posto e non turbino la discussione! Onorevole Matteotti, prosegua, sia breve, e concluda».
Matteotti: «L'Assemblea deve tenere conto che io debbo parlare per improvvisazione, e che mi limito...».
Voci: «Si vede che improvvisa! E dice che porta dei fatti! » .
Gonzales: «I fatti non sono improvvisati! » .
Matteotti: «Mi limito, dico, alla nuda e cruda esposizione di alcuni fatti. Ma se per tale forma di esposizione domando il compatimento dell'Assemblea... (Rumori) non comprendo come i fatti senza aggettivi e senza ingiurie possano sollevare urla e rumori. Dicevo dunque che ai candidati non fu lasciata nessuna libertà di esporre liberamente il loro pensiero in contraddittorio con quello del Governo fascista e accennavo al fatto dell'onorevole Gonzales, accennavo al fatto dell'onorevole Bentini a Napoli, alla conferenza che doveva tenere il capo dell'opposizione costituzionale, l'onorevole Amendola, e che fu impedita... (Oh, oh! – Rumori)».
Voci da destra: «Ma che costituzionale! Sovversivo come voi! Siete d'accordo tutti! » .
Matteotti: «Vuol dire dunque che il termine "sovversivo" ha molta elasticità! » .
Greco: «Chiedo di parlare sulle affermazioni dell'onorevole Matteotti».
Matteotti: «L'onorevole Amendola fu impedito di tenere la sua conferenza, per la mobilitazione, documentata, da parte di comandanti di corpi armati, i quali intervennero in città.. .».
Presutti: «Dica bande armate, non corpi armati! » .
Matteotti: «Bande armate, le quali impedirono la pubblica e libera conferenza. (Rumori) Del resto, noi ci siamo trovati in queste condizioni: su 100 dei nostri candidati, circa 60 non potevano circolare liberamente nella loro circoscrizione!» .
Voci di destra: «Per paura! Per paura! (Rumori – Commenti)».
Farinacci: «Vi abbiamo invitati telegraficamente! » .
Matteotti: «Non credevamo che le elezioni dovessero svolgersi proprio come un saggio di resistenza inerme alle violenze fisiche dell'avversario, che è al Governo e dispone di tutte le forze armate! (Rumori) Che non fosse paura, poi, lo dimostra il fatto che, per un contraddittorio, noi chiedemmo che ad esso solo gli avversari fossero presenti, e nessuno dei nostri; perché, altrimenti, voi sapete come è vostro costume dire che "qualcuno di noi ha provocato" e come "in seguito a provocazioni" i fascisti "dovettero" legittimamente ritorcere l'offesa, picchiando su tutta la linea! (Interruzioni)».
Voci da destra: «L'avete studiato bene! » .
Pedrazzi: «Come siete pratici di queste cose, voi! » .
Presidente: «Onorevole Pedrazzi! » .
Matteotti: «Comunque, ripeto, i candidati erano nella impossibilità di circolare nelle loro circoscrizioni! » .
Voci a destra: «Avevano paura! » .
Turati Filippo: «Paura! Sì, paura! Come nella Sila, quando c'erano i briganti, avevano paura (Vivi rumori a destra, approvazioni a sinistra)».
Una voce: «Lei ha tenuto il contraddittorio con me ed è stato rispettato».
Turati Filippo: «Ho avuto la vostra protezione a mia vergogna! (Applausi a sinistra, rumori a destra)».
Presidente: «Concluda, onorevole Matteotti. Non provochi incidenti! » .
Matteotti: «Io protesto! Se ella crede che non gli altri mi impediscano di parlare, ma che sia io a provocare incidenti, mi seggo e non parlo! » (Approvazioni a sinistra – Rumori prolungati)
Presidente: «Ha finito? Allora ha facoltà di parlare l'onorevole Rossi...».
Matteotti: «Ma che maniera è questa! Lei deve tutelare il mio diritto di parlare! lo non ho offeso nessuno! Riferisco soltanto dei fatti. Ho diritto di essere rispettato! (Rumori prolungati, Conversazioni)».
Casertano, presidente della Giunta delle elezioni: «Chiedo di parlare».
Presidente: «Ha facoltà di parlare l'onorevole presidente della Giunta delle elezioni. C'è una proposta di rinvio degli atti alla Giunta».
Matteotti: «Onorevole Presidente! . ..».
Presidente: «Onorevole Matteotti, se ella vuoi parlare, ha facoltà di continuare, ma prudentemente».
Matteotti: «Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente! » .
Presidente: «Parli, parli».
Matteotti: «I candidati non avevano libera circolazione... (Rumori. Interruzioni)».
Presidente: «Facciano silenzio! Lascino parlare! » .
Matteotti: «Non solo non potevano circolare, ma molti di essi non potevano neppure risiedere nelle loro stesse abitazioni, nelle loro stesse città. Alcuno, che rimase al suo posto, ne vide poco dopo le conseguenze. Molti non accettarono la candidatura, perché sapevano che accettare la candidatura voleva dire non aver più lavoro l'indomani o dover abbandonare il proprio paese ed emigrare all'estero (Commenti)».
Una voce "Erano disoccupati! ".
Matteotti: «No, lavorano tutti, e solo non lavorano, quando voi li boicottate».
Voci da destra: «E quando li boicottate voi? » .
Farinacci: «Lasciatelo parlare! Fate il loro giuoco! » .
Matteotti: «Uno dei candidati, l'onorevole Piccinini, al quale mando a nome del mio gruppo un saluto... (Rumori)».
Voci: «E Berta? Berta!».
Matteotti: «Conobbe cosa voleva dire obbedire alla consegna del proprio partito. Fu assassinato nella sua casa, per avere accettata la candidatura nonostante prevedesse quale sarebbe – stato per essere il destino suo all'indomani. (Rumori) Ma i candidati – voi avete ragione di urlarmi, onorevoli colleghi – i candidati devono sopportare la sorte della battaglia e devono prendere tutto quello che è nella lotta che oggi imperversa. lo accenno soltanto, non per domandare nulla, ma perché anche questo è un fatto concorrente a dimostrare come si sono svolte le elezioni. (Approvazioni all'estrema sinistra) Un'altra delle garanzie più importanti per lo svolgimento di una libera elezione era quella della presenza e del controllo dei rappresentanti di ciascuna lista, in ciascun seggio. Voi sapete che, nella massima parte dei casi, sia per disposizione di legge, sia per interferenze di autorità, i seggi – anche in seguito a tutti gli scioglimenti di Consigli comunali imposti dal Governo e dal partito dominante – risultarono composti quasi totalmente di aderenti al partito dominante. Quindi l'unica garanzia possibile, l'ultima garanzia esistente per le minoranze, era quella della presenza del rappresentante di lista al seggio. Orbene, essa venne a mancare. Infatti, nel 90 per cento, e credo in qualche regione fino al 100 per cento dei casi, tutto il seggio era fascista e il rappresentante della lista di minoranza non poté presenziare le operazioni. Dove andò, meno in poche grandi città e in qualche rara provincia, esso subì le violenze che erano minacciate a chiunque avesse osato controllare dentro il seggio la maniera come si votava, la maniera come erano letti e constatati i risultati. Per constatare il fatto, non occorre nuovo reclamo e documento. Basta che la Giunta delle elezioni esamini i verbali di tutte le circoscrizioni, e controlli i registri. Quasi dappertutto le operazioni si sono svolte fuori della presenza di alcun rappresentante di lista. Veniva così a mancare l'unico controllo, l'unica garanzia, sopra la quale si può dire se le elezioni si sono svolte nelle dovute forme e colla dovuta legalità. Noi possiamo riconoscere che, in alcuni luoghi, in alcune poche città e in qualche provincia, il giorno delle elezioni vi è stata una certa libertà. Ma questa concessione limitata della libertà nello spazio e nel tempo – e l'onorevole Farinacci, che è molto aperto, me lo potrebbe ammettere – fu data ad uno scopo evidente: dimostrare, nei centri più controllati dall'opinione pubblica e in quei luoghi nei quali una più densa popolazione avrebbe reagito alla violenza con una evidente astensione controllabile da parte di tutti, che una certa libertà c'è stata. Ma, strana coincidenza, proprio in quei luoghi dove fu concessa a scopo dimostrativo quella libertà, le minoranze raccolsero una tale abbondanza di suffragi, da superare la maggioranza – con questa conseguenza però, che la violenza, che non si era avuta prima delle elezioni, si ebbe dopo le elezioni. E noi ricordiamo quello che è avvenuto specialmente nel Milanese e nel Genovesato ed in parecchi altri luoghi, dove le elezioni diedero risultati soddisfacenti in confronto alla lista fascista. Si ebbero distruzioni di giornali, devastazioni di locali, bastonature alle persone. Distruzioni che hanno portato milioni di danni».
Una voce a destra: «Ricordatevi delle devastazioni dei comunisti! » .
Matteotti: «Onorevoli colleghi, ad un comunista potrebbe essere lecito, secondo voi, di distruggere la ricchezza nazionale, ma non ai nazionalisti, né ai fascisti come vi vantate voi! Si sono avuti, dicevo, danni per parecchi milioni, tanto che persino un alto personaggio, che ha residenza in Roma, ha dovuto accorgersene, mandando la sua adeguata protesta e il soccorso economico. In che modo si votava? La votazione avvenne in tre maniere: l'Italia è una, ma ha ancora diversi costumi. Nella valle del Po, in Toscana e in altre regioni che furono citate all'ordine del giorno dal presidente del Consiglio per l'atto di fedeltà che diedero al Governo fascista, e nelle quali i contadini erano stati prima organizzati dal partito socialista, o dal partito popolare, gli elettori votavano sotto controllo del partito fascista con la "regola del tre". Ciò fu dichiarato e apertamente insegnato persino da un prefetto, dal prefetto di Bologna: i fascisti consegnavano agli elettori un bollettino contenente tre numeri o tre nomi, secondo i luoghi (Interruzioni), variamente alternati in maniera che tutte le combinazioni, cioè tutti gli elettori di ciascuna sezione, uno per uno, potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto. In moltissime provincie, a cominciare dalla mia, dalla provincia di Rovigo, questo metodo risultò eccellente».
Finzi: «Evidentemente lei non c'era! Questo metodo non fu usato! » .
Matteotti: «Onorevole Finzi, sono lieto che, con la sua negazione, ella venga implicitamente a deplorare il metodo che è stato usato».
Finzi: «Lo provi».
Matteotti: «In queste regioni tutti gli elettori».
Ciarlantini: «Lei ha un trattato, perché non lo pubblica? » .
Matteotti: «Lo pubblicherò, quando mi si assicurerà che le tipografie del Regno sono indipendenti e sicure (Vivissimi rumori al centro e a destra); perché, come tutti sanno, anche durante le elezioni, i nostri opuscoli furono sequestrati, i giornali invasi, le tipografie devastate o diffidate di pubblicare le nostre cose. Nella massima parte dei casi però non vi fu bisogno delle sanzioni, perché i poveri contadini sapevano inutile ogni resistenza e dovevano subire la legge del più forte, la legge del padrone, votando, per tranquillità della famiglia, la terna assegnata a ciascuno dal dirigente locale del Sindacato fascista o dal fascio (Vivi rumori interruzioni)».
Suardo: «L'onorevole Matteotti non insulta me rappresentante: insulta il popolo italiano ed io, per la mia dignità, esco dall'Aula. (Rumori – Commenti) La mia città in ginocchio ha inneggiato al Duce Mussolini, sfido l'onorevole Matteotti a provare le sue affermazioni. Per la mia dignità di soldato, abbandono quest'Aula. (Applausi, commenti)».
Teruzzi: «L'onorevole Suardo è medaglia d'oro! Si vergogni, on. Matteotti». (Rumori all'estrema sinistra).
Presidente: «Facciano silenzio! Onorevole Matteotti, concluda! » .
Matteotti: «lo posso documentare e far nomi. In altri luoghi invece furono incettati i certificati elettorali, metodo che in realtà era stato usato in qualche piccola circoscrizione anche nell'Italia prefascista, ma che dall'Italia fascista ha avuto l'onore di essere esteso a larghissime zone del meridionale; incetta di certificati, per la quale, essendosi determinata una larga astensione degli elettori che non si ritenevano liberi di esprimere il loro pensiero, i certificati furono raccolti e affidati a gruppi di individui, i quali si recavano alle sezioni elettorali per votare con diverso nome, fino al punto che certuni votarono dieci o venti volte e che giovani di venti anni si presentarono ai seggi e votarono a nome di qualcheduno che aveva compiuto i 60 anni. (Commenti) Si trovarono solo in qualche seggio pochi, ma autorevoli magistrati, che, avendo rilevato il fatto, riuscirono ad impedirlo».
Torre Edoardo: «Basta, la finisca! (Rumori, commenti). Che cosa stiamo a fare qui? Dobbiamo tollerare che ci insulti? (Rumori – Alcuni deputati scendono nell'emiciclo). Per voi ci vuole il domicilio coatto e non il Parlamento! (Commenti – Rumori)».
Voci: «Vada in Russia! »
Presidente: «Facciano silenzio! E lei, onorevole Matteotti, concluda! » .
Matteotti: «Coloro che ebbero la ventura di votare e di raggiungere le cabine, ebbero, dentro le cabine, in moltissimi Comuni, specialmente della campagna, la visita di coloro che erano incaricati di controllare i loro voti. Se la Giunta delle elezioni volesse aprire i plichi e verificare i cumuli di schede che sono state votate, potrebbe trovare che molti voti di preferenza sono stati scritti sulle schede tutti dalla stessa mano, così come altri voti di lista furono cancellati, o addirittura letti al contrario. Non voglio dilungarmi a descrivere i molti altri sistemi impiegati per impedire la libera espressione della volontà popolare. Il fatto è che solo una piccola minoranza di cittadini ha potuto esprimere liberamente il suo voto: il più delle volte, quasi esclusivamente coloro che non potevano essere sospettati di essere socialisti. I nostri furono impediti dalla violenza; mentre riuscirono più facilmente a votare per noi persone nuove e indipendenti, le quali, non essendo credute socialiste, si sono sottratte al controllo e hanno esercitato il loro diritto liberamente. A queste nuove forze che manifestano la reazione della nuova Italia contro l'oppressione del nuovo regime, noi mandiamo il nostro ringraziamento. (Applausi all'estrema sinistra. Rumori dalle altre parti della Camera). Per tutte queste ragioni, e per le altre che di fronte alle vostre rumorose sollecitazioni rinunzio a svolgere, ma che voi ben conoscete perché ciascuno di voi ne è stato testimonio per lo meno (Rumori)... per queste ragioni noi domandiamo l'annullamento in blocco della elezione di maggioranza. Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l'autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l'intima essenza, la ragione morale della Nazione. Non continuate più oltre a tenere la Nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. (Interruzioni a destra) Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l'opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni».
Terminato così il suo intervento, Matteotti dice ai suoi compagni di partito: «Io, il mio discorso l'ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me». —

 

 

 

LO SFASCIO DI JAKY-MARCHIONNE:

 

https://www.la7.it/100minuti/rivedila7/100-minuti-autostop-30-04-2024-539867

 

Cara Giovanna Boursier

Ho visto il suo ottimo servizio ben documentato e non di parte .

La storia della targa della Ferrari Testarossa  grigia cabrio di GA che stava nel garage di Frescot entrando sulla destra e' che io come azionista Ifi l'avevo trovata nelle immobilizzazioni, chiesi a GA che ci stava a fare e lui la fece reimatricolare a suo nome con quella targa. Non la usava perche' mi disse che la trovava scomoda e preferiva le Fiat. L'uso' Giovanni Alberto Agnelli che ebbe un'incidente sulla Torino-Milano. Così mi disse Edoardo a cui il padre non la fece mai guidare. Edoardo aveva le Ferrari  in uso direttamente da Enzo Ferrari.

Chi sta chiudendo la Marelli e'  KKR che vorrebbe comprare la rete Tim pagandola 6 volte il suo valore come Enimont quando fu venduta da Gardini ad Eni.

A Carlo De Benedetti avevo proposto di acquisire la Fiat prima che arrivasse Marchionne, mi ha riso al TELEFONO.

Bianca Carretto forse dimentica che prima della Peugeot la Fiat fu offerta da Jaky a Renault a cui l'ho fatta saltare grazie a Nissan. Infatti poi i rapporti fra Nissan e Renault sono cambiati.

Poi Peugeot ha pagato la Fiat 2,9 miliardi rispetto ai 5 richiesti perché non c'era nessuno che volesse comprare FIAT.

Non e' vero che Marchionne ha saputo gestire la Fiat. Non capiva nulla di auto. Infatti non ha investito su LANCIA , come invece sta facendo Tavares. Maserati in 5 anni non poteva fare concorrenza a Porsche  che investe da 50 anni ! 

Marchionne non ha mai saputo scegliere un 'auto nelle presentazioni, chiedeva di farlo a chi lo avrebbe dovuto assistere !

La chimera del progetto fabbrica italiana ve la siete dimenticata tutti ?

Come le condanne per atteggiamento antisindacale a cui è stato condannato piu' volte Marchionne ?

Come De Benedetti non ne capisce nulla di computer visto che aveva il padre del Surface con Quaderno e ne' lui ne' Passera lo hanno capito.

Infatti il progetto della 500 elettrica e' sbagliato e voluto da Marchionne e realizzato da Jaky  investendo tanti soldi .

Proposte d'investimento agli Agnelli e De Benedetti vengono fatte da sempre da chi guadagna le commissioni, per cui quello che fa Jaky lo facevano anche Gabetti ed altri a NY con IFINT.

Inoltre i rapporti diretti internazionali sono tantissimo. Io in un we a Garavicchio a casa di Carlo Caracciolo mi sono trovato in piscina ed a tavola con il marito di Margherita, Giovanni Alberto, Edoardo e Carlo Caracciolo che mi ha chiesto come poteva difendersi da Carlo De Bebedetti. Io gli suggerii di entrare in Cofide e lui lo fece. 3 mesi dopo GA, dandomi il 5,  mi soprannominò in pubblico Mark Spitz,  per comunicarmi che sapeva tutto .

Il patrimonio di Gianni Agnelli io lo stimo in 100 miliardi , con dei parametri approvati da Grande Stevens, per cui a MARGHERITA hanno dato l'1%.

Il patrimonio di G.A lo gestivano Gabetti e Bormida.

Margherita e' come sua madre , prende tempo per allargarsi . Edoardo no infatti e' stato ucciso perche' non voleva rinunciare ai suoi diritto ereditari sulla Dicembre, a cui il Pm di Mondovi, Bausone non credeva , quando glielo dissi 2 giorni dopo l'omicidio di Edoardo.

L'ex Bertone finirà come Termoli.

IL RESTO glielo allego come anticipazione di un libro che forse uscira'.

La proposta del Marocco e' stata fatta ai fornitori gia' a Torino all'Hotel Ambasciatori nelle stesse ore in cui a 200 metri all'Hotel Concorde c'era il ministro Pichetto, a cui l'ho detto senza ricevere alcuna risposta, come per la mia proposta del progetto dell'H2 per autotrazione che rilancerebbe l'intera economia nazionale, produzione auto compresa che allego.

Tenete conto che dietro ogni persona c'e' un uomo nero, quello di Jaky per me e' a voi noto :Griva.

Resto a Sua disposizione per ogni chiarimento e documentazione,

Buon lavoro.

Marco BAVA

 

"L'Avvocato voleva adottare John Il controllo della Dicembre non cambia"
Jennifer Clark
"

Il libro
Così su La Stampa
Un rapporto difficile, quello dei tre fratelli Elkann con la madre Margherita, un problema «nato ben prima che lo scontro arrivasse nelle aule dei tribunali». Jennifer Clark, giornalista, già caporedattrice per l'Italia di Dow Jones dopo le esperienze a Bloomberg e Reuters, ha seguito per anni le vicende degli Agnelli. Recentemente ha pubblicato per Solferino "L'ultima dinastia" sulla loro saga famigliare.
Clark, in una intervista ad Avvenire John Elkann parla per la prima volta di "un clima di violenza fisica e psicologica" subìto da lui e dagli altri due fratelli Elkann da parte della madre. Da dove nasce, secondo lei, quella tensione?
«Per scrivere il libro ho parlato a lungo con gli esponenti della famiglia, a partire da John. Il problema dei figli Elkann con la madre viene da lontano perché, in un certo senso, è la conseguenza dei problemi di Margherita ed Edoardo con i genitori, in particolare con il padre, l'Avvocato».
Lei scrive che Gianni Agnelli era un padre poco affettuoso. Che rapporto c'è tra questo e lo scontro di Margherita con i tre figli Elkann?
«Lo squilibrio diviene palese quando Margherita divorzia da Alain Elkann e si risposa con Serge de Phalen. Due mondi quasi opposti: dallo scrittore parigino bohemien al nobile russo che sogna il ritorno della grande Russia dei Romanov. Margherita si converte alla religione ortodossa. Inizia a dipingere icone. E vorrebbe che diventassero ortodossi anche John, Lapo e Ginevra. Li costringe a dire le preghiere e a partecipare ai campi estivi dei nostalgici zaristi in Francia che ogni mattina li fanno assistere all'alza bandiera con lo stendardo imperiale dell'aquila a due teste. I figli del secondo matrimonio sono russi a tutti gli effetti e vivono a loro agio in quel mondo. I figli Elkann no. A questo punto intervengono i nonni».
In che modo?
«Chiamando sempre più spesso i tre nipoti a trascorrere lunghi periodi con loro. Per sottrarli a quel mondo estraneo. Per questo John dice oggi che è stata decisiva per lui e i fratelli la protezione dei nonni. Ma questo ha finito per rendere i rapporti tra Margherita e i suoi genitori ancora più difficili».
Il nonno aveva dato ai nipoti l'affetto che era mancato alla figlia come se l'affettività avesse saltato una generazione?
«Esattamente. Il rapporto tra i nipoti e il nonno è diventato sempre più stretto al punto che un giorno l'Avvocato accarezzò l'idea di adottare John. Come si sa poi non se ne fece nulla».
Se i rapporti erano tanto tesi perché allora, alla morte dell'Avvocato, Margherita accettò di rinunciare alle quote della Dicembre in cambio di denaro?
«Lei ha sempre sostenuto di averlo fatto nel tentativo di riportare la pace in famiglia. È anche vero che conosceva l'atto notarile con cui l'Avvocato, fin dal 1999, consegnava a John la gestione della Dicembre e quindi deve avere pensato che, persa la partita per il potere, tanto valeva giocarsi quella del denaro. Del resto, quell'atto del '99 era stato firmato da tutti i familiari, anche da lei».

NON E' VERO : EDOARDO NON LO HA MAI FIRMATO. PER QUESTO LO HANNO UCCISO. Mb
Lei ha poi tentato, e lo sta facendo ancora oggi, di rimettere in discussione quella scelta…
«Certo e questo è uno dei nodi delle cause legali. Ma la scelta di non partecipare alla Dicembre ha finito per isolare ancora di più Margherita. Si diceva che avesse confidato a Lupo Rattazzi le sue perplessità su futuro della Fiat: "Rischia di fare la fine della Parmalat". Erano gli anni in cui il fallimento della Parmalat aveva fatto molto rumore. Come se lei avesse scelto di scendere dalla nave nel momento di massima difficoltà dell'azienda. Già nel 2004, al matrimonio di John e Lavinia, la presenza di Margherita era stata incerta fino all'ultimo».
Da allora in poi la frattura si è andata allargando. Le battaglie in tribunale contro la madre Marella e ora contro i figli Elkann hanno aggravato la situazione. Quali conseguenze potranno avere secondo lei?
«Dal punto di vista della governance della Dicembre, la società che controlla la Giovanni Agnelli e, per il tramite di questa, Exor non credo che ci potranno essere conseguenze. L'atto notarile del 1999 non lascia scampo. Diverso è il discorso se passiamo dalla governance alle quote. È in teoria possibile che, se venisse accolta la tesi dei legali di Margherita, si riconosca il diritto della figlia di Gianni Agnelli ad avere la sua quota di legittima e dunque un pacchetto di azioni della Dicembre. Ma non credo proprio che questo impedirebbe a John di governare come fa oggi».

Si perché perderebbe il controllo in quanto il 75% passerebbe a Margherita ed il 25% Jaky 20% . Mb

 

 

 

 

 

TAVARES E  JAKY NEL 23

 

Un compenso da 36,5 milioni è adeguato per il ceo di una società capace di generare 18,6 miliardi di profitti e di versare ai soci quasi 8 miliardi? Per i proxy advisor […] no. In vista dell’assemblea del 16 aprile, […] Glass Lewis e Iss hanno raccomandato agli azionisti di Stellantis di votare contro gli stipendi percepiti […] dai manager del gruppo.



A loro giudizio, la paga del ceo Carlos Tavares è «eccessiva»: vale 518 volte il salario medio dei dipendenti di Stellantis che, intanto, sta attuando massicci piani di esuberi […].



[…] Iss ha criticato anche il benefit da 430 mila euro accordato al presidente John Elkann che ha potuto utilizzare l’aereo aziendale per scopi personali. I suggerimenti dei proxy sono di norma accolti dai fondi internazionali. Se al loro si aggiungesse il «no» del governo francese, socio di Stellantis al 9,9%, la relazione sui compensi potrebbe incorrere in una sfiducia. Dal valore consultivo, è vero; ma fortemente simbolico.

 

 

IL 10.12.23 PROGRAMMA TELEVISIVO SU L'OMICIDIO DI EDOARDO AGNELLI SU  PIAZZA LIBERTA', il programma di informazione condotto da Armando Manocchia,  su BYOBLU CANALE 262 DT CANALE

https://www.byoblu.com/2023/12/10/piazza-liberta-di-armando-manocchia-puntata-87/

https://youtu.be/_DJONMxixO8?si=rKoapPc2-8JtHha8

https://youtu.be/B05tTBK-w0E?si=O5XxvZFIr61tYU7w

https://www.youtube.com/watch?v=t0OrCSg1IZc

https://www.youtube.com/watch?v=Mhi-IY_dfr4

 

https://www.youtube.com/watch?v=ej0LPowV9YI

 

OSSERVAZIONI

  1. IL GRANDE AMICO DI EDOARDO CON CUI FECE VIAGGI ERA LUCA GAETANI
  2. EA NON FECE MAI NESSUNA CESSIONE DEI SUOI DIRITTI EREDITARI
  3. NE' EBBE ALCUN DISSIDIO CON GIOVANNI ALBERTO AGNELLI, DA CUI SOGGIORNAVA ANDANDO E TORNANDO DA GARAVICCHIO.
  4. INFATTI QUANDO CI FU L'EPISODIO DEL KENIA FU GIOVANNI ALBERTO AGNELLI AD ANDARLO A TROVARE.
  5. I LEGAMI CON LA SORELLA MARGHERITA NON EERANO STRETTI COME QUELLI CON I CUGINI LUPO RATTAZZI ED EDUARDO TEODORANI FABBRI. INFATTI NON ESISTONO LETTERE FRA EDOARDO E MARGHERITA .
  6. DEL CAMBIO DELLA SUCCESSIONE DA GIOVANNI ALBERTO A JAKY EA LO HA SAPUTO DALLA MADRE CHE NE HA CONVITO GIANNI PER NON PERDERE I PRIVILEGI DELLA PRESIDENZA FIAT,
  7. L'INTERVISTA AL MANIFESTO FU PROPOSTA DA UN GIORNALISTA DI REPUBBLICA PERCHE' LUI L'AVREBBE VOLUTA FARE MA NON GLIELO PERMETTEVANO.
  8. NON CI SONO PROVE CHE EA FOSSE DEPRESSO,
  9. LA PATENTE DI EA LA TENEVA LA SCORTA E NON ERA SUL CRUSCOTTO MA NEL CASSETTO DELLA CROMA EX DELL'AVVOCATO CON MOTORE VOLVO E CAMBIO AUTOMATICO, NON BLINDATA.
  10. LE INDAGINI SULL'OMICIDIO DI EA SONO TUTT'ORA APERTE PRESSO LA PROCURA DI CUNEO.

 

 

GRIVA QUANDO ENTRA IN SCENA ?

L’IMPERO DI FAMIGLIA: ECCO PERCHÉ ADESSO RISCHIA DI CROLLARE TUTTO

Estratto dell’articolo di Ettore Boffano per “il Fatto quotidiano”

È l’attacco al cuore di un mito: quello degli Agnelli. E a pagarne le conseguenze più dure potrebbe essere lui, l’erede che non porta più quel cognome, John Elkann.
A rischio di veder messo in ballo il ruolo che suo nonno gli aveva assegnato: la guida dei tesori di famiglia. Tutto passa per la Svizzera, dove Marella Caracciolo, vedova dell’avvocato, ha sempre dichiarato di avere la residenza sin dagli anni 70.
E con la cui legge successoria ha poi regolato i conti con la figlia: per escludere Margherita dalla propria eredità e, soprattutto, permettere al nipote di diventare il nuovo capo della dinastia.
[…] quella residenza […] ora piomba nell’inchiesta per frode fiscale della Procura di Torino. E i pm hanno poteri di accertamento rapidi e quasi immediati […]. Vediamo, punto per punto, che cosa c’è e che cosa indica quel documento e come potrebbe segnare i clamorosi sviluppi delle indagini.



1) La residenza svizzera. È decisiva: per stabilire se sono validi sia l’accordo e il patto firmati da Marella con la figlia a Ginevra nel 2004, sulla successione dell’avvocato e sulla sua, sia il testamento e le due aggiunte con i quali ha indicato come eredi i nipoti John, Lapo e Ginevra.
E infine per accertare la possibile evasione fiscale sul suo patrimonio. Trevisan spiega che la vedova dell’avvocato, dal 2003 sino alla morte nel 2019, non ha mai vissuto in Svizzera i 180 giorni all’anno necessari per poter mantenere quel diritto. “Ha trascorso ogni anno, in media, oltre 189 giorni in Italia, 94 in Marocco e solo circa 68 in Svizzera”. Se tutto saltasse, Margherita tornerebbe in campo nel controllo dell’impero Agnelli.



2) Gli “espedienti” sulla residenza. Il legale indica anche le presunte mosse per mascherare la permanenza di Marella in Italia. […] “Occorreva non far risultare intestate a Marella Caracciolo le utenze degli immobili in Italia e i relativi rapporti di lavoro... Un appunto del commercialista Gianluca Ferrero suggeriva che non fossero a lei riconducibili né dipendenti né animali, facendo risultare che i domestici fossero alle dipendenze di Elkann […]”.



3) Il personale delle ville. La ricostruzione di Trevisan […] sembrerebbe confermare i “consigli” di Ferrero. I magistrati […] stanno […] ascoltando le testimonianze di chi gestiva le residenze di famiglia. Il legale di Margherita ha contato oltre 30 dipendenti […]. I contratti erano intestati formalmente a Elkann, ma loro erano sempre al servizio della nonna.

4) I testamenti, veri o falsi. Nell’esposto, Trevisan affida alla Procura […] il compito di esaminare l’autenticità del testamento di Marella Caracciolo e delle due “aggiunte”, redatti dal notaio svizzero Urs von Grunigen. […] il legale aveva già sostenuto che, secondo due diverse perizie grafiche, almeno nella seconda “aggiunta” la firma della signora “appare apocrifa, con elevata probabilità”. Giovedì pomeriggio, la Guardia di Finanza si è presentata alla Fondazione Agnelli, proprio per acquisire vecchi documenti firmati da Marella e confrontare le firme.



5) Le fiduciarie di famiglia. Le Fiamme Gialle hanno anche prelevato migliaia e migliaia di pagine e documenti legati a quattro diverse fiduciarie, tutte citate nell’esposto di Trevisan. Due di esse, la Simon Fiduciaria e la Gabriel Fiduciaria facevano riferimento, un tempo, all’avvocato Franzo Grande Stevens e oggi sono state assorbite nella Nomen Fiduciaria della famiglia Giubergia e nella banca privata Pictet di Ginevra.
Che cosa può nascondersi in quegli “scrigni” votati alla riservatezza? Due cose, entrambe importanti. La prima […] riguarda il fatto se in esse sia potuto transitare denaro proveniente da 16 società offshore delle Isole Vergini britanniche, tutte intestate o a Marella Agnelli o a “membri della famiglia”, come la “Budeena Consulting Inc.” che, da sola, aveva in cassa 900 milioni dollari.
La seconda riguarda la possibilità che gli inquirenti possano trovare le tracce degli scambi azionari, tra la nonna e i nipoti, della “Dicembre”, la società semplice creata dall’avvocato nel 1984 per custodire il tesoro di famiglia e che oggi consente a John Elkann di gestire, a cascata, i 25,5 miliardi di patrimonio della holding Exor.


2. INCHIESTA ELKANN: LA GDF A CACCIA DI SOCIETÀ OFFSHORE

Estratto dell’articolo di Marco Grasso per “il Fatto quotidiano”

IL TESTAMENTO DI MARELLA CARACCIOLO CON LE INTEGRAZIONI E LE FIRME
IL TESTAMENTO DI MARELLA CARACCIOLO CON LE INTEGRAZIONI E LE FIRME

Margherita Agnelli […] dà la caccia ai capitali offshore di famiglia, che le sarebbero stati occultati nell’accordo sull’eredità. La Procura di Torino cerca i redditi, potenzialmente enormi, che sarebbero stati occultati al Fisco, attraverso fiduciarie collegate a paradisi fiscali.

Questi due interessi potrebbero convergere se cadesse il baluardo che finora ha protetto la successione della dinastia più potente d’Italia: la presunta residenza elvetica di Marella Caracciolo, moglie di Gianni e madre di Margherita. Se saltasse questo cardine, le autorità italiane potrebbero contestare reati tributari e sanzioni fiscali agli Elkann, e questa storia, come una valanga, potrebbe travolgere anche i contenziosi civili sull ’eredità, aperti in Svizzera e in Italia.

Sono tre gli indagati nell’in chiesta condotta dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dai pm Mario Bendoni e Giulia Marchetti: Gianluca Ferrero, commercialista della famiglia Agnelli e presidente della Juventus; Robert von Groueningen, amministratore dell’eredità di Marella Agnelli (morta nel 2019); John Elkann, nipote di Marella, presidente di Stellantis ed editore del gruppo Gedi.

L’ipotesi è di concorso in frode fiscale e in particolare di dichiarazione infedele al Fisco per gli anni 2018-2019. In base all’intesa sulla successione di Gianni Agnelli nel 2004 […] Margherita accetta l’estromissione dalle società di famiglia in cambio di 1,2 miliardi; ottiene l’usufrutto su vari beni immobiliari e si impegna a versare alla madre Marella un vitalizio mensile da 500 mila euro. Di questi soldi non c’è traccia nei 730, da cui mancano in altre parole 8 milioni di euro (3,8 milioni di tasse).

Il perché gli investigatori si concentrino su quel biennio è presto detto: per chi indaga Marella Caracciolo, malata di Parkinson, era curata in Italia. La Procura ritiene che passasse gran parte del tempo a Villa Frescot, a Torino, oltre 183 giorni l’anno, la soglia dopo la quale il Fisco ritiene probabile che una residenza estera sia fasulla. Per questo ieri il Nucleo di polizia economico finanziaria di Torino […] ha sentito sei testimoni vicini alla famiglia: personale che di fatto lavorava al servizio di Marella, ma che era stato assunto dopo la morte del nonno da John Elkann o da società a lui riconducibili, un artificio che avrebbe rafforzato la tesi della residenza estera della nonna.

Questo è l’anello che mette nei guai l’erede della casata. Per i pm il commercialista Ferrero avrebbe disposto le dichiarazioni dei redditi infedeli, mentre l’esecutore testamentario svizzero le avrebbe controfirmate.

Ci sono inoltre le indagini commissionate da Margherita Agnelli all’investigatore privato Andrea Galli, confluite in un esposto in mano alla Procura. Lo 007 ha ricostruito le spese nella farmacia di Lauenen, villaggio nel cantone di Berna in cui sulla carta viveva Marella Caracciolo: dalle fatture fra il 2015 e il 2018 emergerebbe che le spese mediche coprivano il solo mese di agosto. […]

GLI INQUIRENTI cercano di ricostruire il flusso di redditi, la riconducibilità dei patrimoni e documenti originali in grado di verificare la validità delle firme sui testamenti. Se dovesse essere rimessa in discussione la residenza di Marella, si aprirebbe un nuovo scenario: il Fisco potrebbe battere cassa e contestare mancati introiti milionari per Irpef, Iva, successione e Ivafe (tassa sui beni esteri). Gli Elkann sono pronti a difendersi dalle accuse, e hanno sempre contestato la ricostruzione di Margherita.

 

 

DOPO 25 ANNI MARGHERITA HA PENSATO AI FRATELLI DI YAKY, LAPO E GINEVRA , COME GLI AVEVA DETTO EDOARDO:

Margherita Agnelli vuole costringere per via giudiziaria i suoi tre figli Elkann a restituire i beni delle eredità di Gianni Agnelli (morto nel 2003) e Marella Caracciolo (2019).

Un’ordinanza della Cassazione pubblicata a gennaio mette in fila, sintetizzando i «Fatti in causa», le pretese della madre di John Elkann nella sua offensiva legale. Il punto d’arrivo è molto in alto nel sistema di potere dei figli: l’assetto della Dicembre, la cassaforte (60% John e 20% ciascuno Lapo e Ginevra Elkann) azionista di riferimento dell’impero Exor, Stellantis, Ferrari, Juventus, Cnh ecc. (35 miliardi).


[…] La Corte suprema nella sua ordinanza si occupa di una questione tecnica laterale, annullando parzialmente […] la decisione del tribunale di Torino di sospendere i lavori in attesa dei giudici svizzeri. […] la Cassazione […] sintetizza in modo neutrale le richieste di Margherita e cioè, innanzitutto, «che sia dichiarata l’invalidità o l’inefficacia del testamento della madre».



E dunque «che sia aperta la successione legittima, sia accertata in capo all’attrice (Margherita ndr) la sua qualità di unica erede legittima della madre, sia accertata la quota della quale la madre poteva disporre e […] sia accertata la lesione della quota di riserva a essa spettante». A questo punto ci deve essere «la conseguente reintegra della quota mediante riduzione delle donazioni, anche dirette e dissimulate, e condanna dei convenuti (gli Elkann, ndr) alle restituzioni».

Il tema delle donazioni è fondamentale perché potrebbero essere i «mattoni» con cui si è costruita la governance a trazione John nella Dicembre. Margherita «in ogni caso ha chiesto la dichiarazione della sua qualità di erede del padre (...) e la condanna dei convenuti a restituire i beni dell’eredità del padre».



La manovra legale è dunque tesa ad azzerare tutto, proiettando Margherita nel ruolo di unica erede legittima della madre. E nell’eventuale riconteggio dell’eredità materna entrerebbero le donazioni anche «indirette e dissimulate».



JOHN ELKANN CON LA MADRE MARGHERITA AGNELLI AL SUO MATRIMONIO CON LAVINIA BORROMEO
JOHN ELKANN CON LA MADRE MARGHERITA AGNELLI AL SUO MATRIMONIO CON LAVINIA BORROMEO

Nella costruzione dell’attuale assetto della Dicembre con John al comando sono state decisive alcune transazioni con la nonna Marella dopo la morte (2003) di Gianni Agnelli. Secondo i figli de Pahlen, […] per il calcolo della quota legittima, nel perimetro ereditario della nonna Marella dovrebbe entrare anche il «75% della Dicembre, per il caso in cui si accertasse la simulazione degli atti di compravendita, il cui valore è stimato in euro 3 miliardi». Sostengono anzi che la nonna abbia «effettuato donazioni delle partecipazioni della Dicembre al nipote John per (...) circa 3 miliardi».



John Elkann e la madre Margherita entrano nella cassaforte come soci nel 1996, con Gianni Agnelli al comando. Nel ’99 l’Avvocato modifica lo statuto e detta il futuro: «se manco o sono impedito — è il senso — tutti i poteri vanno a John» che, alla morte del nonno, sale al 58%.
L’anno dopo (2004) Margherita vende per 105 milioni il 33% alla madre ed esce dalla Dicembre sulla base del patto successorio. Subito dopo la nonna cede tutto ai nipoti, tenendo l’usufrutto: John si consolida al 60%, una leadership che nel suo entourage giudicano «inattaccabile», a Lapo e Ginevra il resto. È l’assetto attuale di cui però s’è avuta notizia ufficiale nel 2021, dopo 17 anni di carte, transazioni e patti tenuti nascosti. Un bug temporale a dir poco anomalo per una delle più influenti società in Europa, inspiegabilmente tollerato per anni dalla Camera di Commercio di Torino. Anche su questo fa leva la strategia di Margherita per «scalare» il sancta sanctorum degli Elkann.

 

«La costruzione di una residenza estera fittizia» in Svizzera di Marella Caracciolo «ha avuto una duplice e concorrente finalità: da un lato, sotto il profilo fiscale, evitare l’assoggettamento a tassazione in Italia di ingenti cespiti patrimoniali e redditi derivanti da tali disponibilità; dall’altro, sotto il profilo ereditario, sottrarre la successione» della vedova dell’Avvocato «all’ordinamento italiano»: lo scrivono i magistrati di Torino nel decreto di sequestro che ha portato al blitz di ieri (7 marzo) della guardia di finanza, nell’ambito dell’inchiesta sull’eredità Agnelli e sulle presunte «dichiarazioni fraudolente» dei redditi di Marella Caracciolo. Per questo, è scattata anche una nuova ipotesi di reato: «truffa aggravata ai danni dello Stato e di ente pubblico (Agenzia delle entrate)».

Eredità Agnelli, i 734 milioni di euro lasciati da Marella e l'appunto sulla residenza svizzera: «Una vita di spostamenti»
CRONACA
Eredità Agnelli, i pm e gli appunti della segretaria di Marella Agnelli: «Sono la prova che non viveva in Svizzera»
Tra i beni in questione - secondo il Procuratore aggiunto Marco Gianoglio e i pubblici ministeri Mario Bendoni e Giulia Marchetti - ci sarebbero 734.190.717 euro, «derivanti dall’eredità di Marella Caracciolo».

Per la truffa aggravata sono indagati i tre fratelli Elkann, John, Ginevra e Lapo, lo storico commercialista della famiglia Gianluca Ferrero e Urs Robert von Gruenigen, il notaio svizzero che curò la successione testamentaria.
Gli investigatori - emerge dal decreto - hanno messo le mani anche su un documento di quattro pagine «riepilogante in forma schematica i giorni di effettiva presenza in Italia di Marella Caracciolo»: morale, nel 2015 la moglie di Gianni Agnelli dimorò «in Svizzera meno di due mesi», contro i 298 giorni passati in Italia. Nel 2018 il conto è di 227 giorni in Italia e 138 all’estero. Significativa anche la denominazione dell’ultima pagina del documento: «Una vita di spostamenti».

 

Un secondo "round" si è combattuto ieri davanti al tribunale del riesame di Torino tra la Procura subalpina e lo staff di avvocati che difendono i fratelli Elkann, indagati per truffa ai danni dello Stato per non aver pagato la tassa di successione su una porzione di eredità della nonna, pari a 734 milioni di euro.



I penalisti hanno impugnato il decreto con cui i pm il 6 marzo hanno disposto un nuovo sequestro dei documenti […] già acquisiti dai finanzieri durante le perquisizioni del 7 febbraio. E gli inquirenti hanno risposto depositando ai giudici materiale investigativo finora inedito, tra cui delle intercettazioni e soprattutto i tredici verbali del personale al "servizio" di Marella Caracciolo.



La tesi accusatoria - secondo cui John Elkann avrebbe fatto figurare che domestici e infermiere lavoravano per lui, «al fine di non compromettere la possibilità che la defunta nonna fosse effettivamente residente in Svizzera» - «appare largamente confermato dalle dichiarazioni» degli ex dipendenti sentiti come testimoni in Procura. In sostanza, quasi tutti hanno confermato che prestavano assistenza alla signora Agnelli quando lei risiedeva nelle dimore torinesi, ossia per la maggior parte dell'anno.

Nel locale caldaie dell'abitazione del pupillo di Gianni Agnelli, […] i militari del nucleo economico finanziario di Torino hanno trovato una ventina di faldoni con i documenti di «domestici, cuochi, autisti, governante, guardarobiera, maggiordomi». Per realizzare quella che i pm ritengono esser una «strategia evasiva», ossia non pagare le tasse sull'eredità in Italia, John avrebbe assunto formalmente il personale delle residenze di Villa Frescot, Villa To e Villar Perosa che «assisteva di fatto Marella Caracciolo».


A sommarie informazioni è stata sentita anche Carla Cantamessa, che si occupava della gestione amministrativa delle abitazioni riconducibili alla famiglia Angelli-Elkann. […] «al momento della perquisizione (del 7 febbraio, ndr) contattava immediatamente Gianluca Ferrero (il commercialista di famiglia indagato, ndr), avvisandolo dell'arrivo della Finanza e mostrando timore e preoccupazione per documenti che avrebbe dovuto "nascondere"».



In quel momento, però, i finanzieri stavano bussando anche alla porta del commercialista, che quindi ha subito riagganciato il telefono. Tra il materiale che le è stato sequestrato ci sono anche documenti sui «giardinieri dismessi dal 2020», ossia successivamente alla morte di Marella. La "prova del nove" è che quasi tutti i dipendenti assunti da John sono stati licenziati dopo che sua nonna, il 23 febbraio 2019, è deceduta.


Secondo i legali degli Elkann non esistono gli estremi del reato di truffa ai danni dello Stato nel caso di mancato pagamento della tassa di successione. Avvalendosi anche di un parere del professore Andrea Perini, docente di diritto penale tributario, hanno specificato […] che al massimo si tratta di un illecito amministrativo. Per i pm, invece, gli «artifizi e i raggiri» previsti dal reato di truffa si sono concretizzati proprio nel trucco della residenza in Svizzera di Marella, con il quale i tre nipoti avrebbero «indotto in errore» l'Agenzia delle entrate […], e così facendo avrebbero tratto «l'ingiusto profitto» di risparmiare tra i 42 e i 63 milioni di euro di tasse.



Tra l'altro, la «strategia evasiva» è esplicitata nel cosiddetto «vademecum della truffa» redatto da Ferrero, in cui si consiglia a chiare lettere «di non sovraccaricare la posizione italiana di Marella Caracciolo», facendo assumere i suoi dipendenti al nipote maggiore. L'altro punto su cui insistono le difese è il «ne bis in idem», il principio in base al quale non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto.

Ma la truffa ai danni dello Stato era già stata ipotizzata dalla Procura torinese prima che venisse eseguito il secondo sequestro, ora impugnato dagli Elkann e da Ferrero. I giudici, dopo quasi quattro ore di udienza, si sono riservati di decidere entro sabato prossimo. […]

EREDITÀ AGNELLI, 'I QUADRI SONO CUSTODITI AL LINGOTTO'

Francesca Brunati e Igor Greganti per l’ANSA

Sarebbero tutte rintracciate e rintracciabili, e donate dalla nonna ai nipoti Elkann, le 13 opere d'arte, parte del tesoro lasciato da Gianni Agnelli, e che un tempo arredavano Villa Frescot e Villar Perosa a Torino e una residenza di famiglia a Roma, e ora reclamate dalla figlia Margherita, unica erede dei beni immobili dopo la morte della madre e moglie dell'Avvocato, Marella Caracciolo di Castagneto, la quale ne aveva l'usufrutto.



E' quanto risulta in sintesi da una relazione depositata alla Procura di Milano dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Gdf nell'inchiesta che ha portato il gip Lidia Castellucci ad archiviare la posizione di un gallerista svizzero e di un suo collaboratore accusati di ricettazione e a disporre, su suggerimento di Margherita nella sua opposizione alla richiesta di archiviazione, ulteriori accertamenti.

L'informativa delle Fiamme Gialle è stata redatta in base alle testimonianze, riportate nell'atto, di Paola Montalto e Tiziana Russi, persone di fiducia di Marella Caracciolo, le quali si sono occupate degli inventari dei beni ereditati. Le due donne, sentite come una terza persona al servizio della moglie dell'Avvocato, hanno ricostruito che quelle tele di artisti del calibro di Monet, Picasso, Balla e De Chirico erano alle pareti dell'appartamento romano a Palazzo Albertini-Carandini, di cui Margherita ha la nuda proprietà, e che furono poi donate ai tre nipoti John, Lapo e Ginevra dalla nonna.

Dichiarazioni, queste, a cui è stato trovato riscontro: come è emerso successivamente alle tre deposizioni, quasi tutte le opere d'arte sono state trovate al Lingotto durante una ispezione della Guardia di Finanza, delegata dalla Procura torinese nell'indagine principale sull'eredità. Una invece sarebbe in una casa a St. Moritz e una sua copia nella pinacoteca di via Nizza.

Dalle consultazioni di una serie di banche dati "competenti", in particolare quelle del ministero della Cultura e la piattaforma S.u.e. (Sistema uffici esportazione) è stato appurato che non ci sono state movimentazioni illecite né esistono particolari vincoli sui quadri e che il Monet, che si sospettava fosse falso, è stato sottoposto a una perizia che ne ha acclarato l'autenticità.



Visto gli esiti delle nuove indagini, i pm milanesi coordineranno con i colleghi di Torino, ai quali, non si esclude potrebbero trasmettere gli atti per competenza. Sul caso fonti vicine a Margherita chiariscono che "i quadri oggetto di denuncia nel procedimento di Milano (che prosegue) non possono essere stati donati, in quanto Marella non ne aveva la proprietà.



Peraltro, non risulta ad oggi formalizzato alcun documento di donazione. Comunque, qualora le indiscrezioni fossero confermate, vi sarebbero atti invalidi e verrebbe richiesta l'immediata restituzione delle opere che sono e restano di proprietà di Margherita Agnelli". Una questione, quella della proprietà, che potrà sciogliere solo la magistratura.


FAIDA EREDITÀ AGNELLI: IL GIALLO DEI 13 QUADRI E DEGLI ORIGINALI SPARITI

Estratto dell’articolo di Ettore Boffano e Manuele Bonaccorsi per “il Fatto quotidiano”



Diventa un giallo milionario […] la verità sulle opere della Collezione Agnelli finite nell'inchiesta penale sull'eredità della vedova dell’avvocato, Marella Caracciolo.



Secondo un’annotazione della Guardia di Finanza di Milano, consegnata al procuratore aggiunto milanese Luca Fusco, 13 di quei quadri non sarebbero infatti scomparsi dalle dimore italiane della dinastia (come ha denunciato la figlia di Gianni Agnelli, Margherita), ma sarebbero state donate dalla nonna Marella ai tre nipoti John, Lapo e Ginevra Elkann e ora sarebbero “rintracciati e rintracciabili” in un caveau della Fiat Security al Lingotto e in Svizzera.

Molto diverso, invece, ciò che emergerebbe dalle indagini che stanno svolgendo la Procura e la Gdf di Torino, dopo un esposto di Margherita contro i tre figli. Un fascicolo, al quale nei prossimi giorni sarà allegato quello di Milano, che ha portato i pm torinesi a indagare i tre Elkann per i “raggiri e gli artifizi” messi in opera per costruire una “inesistente residenza svizzera” della nonna.



Nei sequestri effettuati lo scorso 8 febbraio, i finanzieri avevano visitato anche un caveau nella palazzina storica Fiat del Lingotto, dove erano conservati arredi di valore un tempo presenti nelle residenze dell’avvocato di Villar Perosa, di Villa Frescot a Torino e nell’appartamento di Palazzo Albertini davanti al Quirinale.



Il Fatto Quotidiano e Report […] hanno ricostruito però che gli inquirenti torinesi hanno rinvenuto al Lingotto solo due originali, La Chambre di Balthus e il Pho Xai di Gérome, e invece tre copie di modesto valore di altri tre capolavori: il Glacons effect blanc di Monet, La scala degli addii di Balla e il Mistero e malinconia di una strada di De Chirico.
Ma dove sono gli originali? Secondo gli Elkann, […] sarebbero sempre stati a Sankt Moritz, nella villa Chesa Alkyon dell’avvocato. Per il momento, la Procura torinese sta approfondendo soprattutto le vicende legate alla residenza svizzera di Marella e agli eventuali resti fiscali. Ma è probabile che in un secondo tempo, […] i pm ordinino una perizia per accertare l’esatta datazione delle copie.



Se emergesse, infatti, che esse sono state realizzate dopo il 24 gennaio 2003, giorno della morte di Gianni Agnelli, allora le indagini potrebbero estendersi a verificare quando e come gli originali hanno lasciato l’italia per la Svizzera e sostituiti con le copie. Se fosse mai dimostrato che i tre quadri si trovavano in Italia, allora potrebbe trattarsi di un reato. E anche piuttosto grave: esportazione illecita di opere d’arte, punito dal Codice dei beni culturali con una pena dai 2 a 8 anni di reclusione.
Tutto potrebbe essere prescritto: ciò che invece non si prescriverà mai è il diritto da parte dello Stato di rivendicare il rientro delle opere in Italia, con un sequestro. A sostegno delle tesi degli Elkann, secondo la Gdf di Milano, ci sarebbero anche le testimonianze di due segretarie di Marella, Paola Montaldo e Tiziana Russi, e di un altro domestico che avrebbero confermato come la nonna avesse donato quei quadri ai nipoti.

Qualcosa che contraddice l’elenco delle opere acquisito dal procuratore aggiunto Fusco nel 2009, in un’altra inchiesta sull’eredità Agnelli, e di cui Report e il Fatto Quotidiano sono entrati in possesso. Una lista ritenuta veritiera da due personaggi chiave: colui che l’ha redatta, Stuart Thorton, storico maggiordomo inglese di Agnelli, ed Emmanuele Gamna, ex avvocato di Margherita che trattò la suddivisione delle opere tra madre e figlia nel 2004.



Il documento riporta quotazione (assai al ribasso) e collocazione delle opere. Il De Chirico si trovava a Roma: valore 7 milioni. Il Balla anch’esso era nella Capitale: 2 milioni. C’era infine il Monet che risultava essere a Villa Frescot: 8 milioni. L’originale non si sa dove si trovi.



I quadri di Roma […] erano lì almeno fino al 2018, quando un trasportatore, il torinese Giorgio Ghilardini, li prelevò: la bolla del trasporto è stata sequestrata dai pm torinesi. Infine, il professor Lorenzo Canova, direttore scientifico della fondazione De Chirico, ricorda che il suo maestro, l’insigne storico dell’arte Mauro Calvesi, aveva visto l’originale di Mistero e melanconia di una strada nell’appartamento romano dell’avvocato.

“Me lo presterebbe per una mostra”, chiese il critico ad Agnelli. “Preferirei di no, i quadri a volte voglio scambiarli, questo non voglio sia notificato al ministero”, avrebbe risposto il “signor Fiat”.

[…] Margherita Agnelli ritiene […]che le opere le siano state sottratte dall’eredità della madre Marella e, comunque, chiederà la nullità della presunta donazione ai figli. Ma il punto non è questo. Quelle opere, a chiunque spettino, devono rimanere in Italia. Così almeno dice la legge […]
 

 

 

 

 

LA FRAGILITA' UMANA DIMOSTRA LA FORZA  E L'ESISTENZA DI DIO: le stesse variazioni climatiche e meteriologiche  imprevedibili dimostrano l'esistenza di DIO.

Che lo Spirito Santo porti buon senso e serenita' a tutti gli uomini di buona volonta' !

CRISTO RESUSCITA PER TUTTI GLI UOMINI DI VOLONTA' NON PER QUELLI DELLO SPRECO PER NUOVI STADI O SPONSORIZZAZIONI DI 35 MILIONI DI EURO PAGATI DALLE PAUSE NEGATE AGLI OPERAI ! La storia del ricco epulone non ha insegnato nulla perché chi e morto non può tornare per avvisare i parenti !  Mb 05.04.12; 29.03.13;

 

 

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Marco Bava ABELE: pennarello di DIO, abele, perseverante autodidatta con coraggio e fantasia , decisionista responsabile.

Sono quello che voi pensate io sia (20.11.13) per questo mi ostacolate.(08.11.16)

La giustizia non esiste se mi mettessero sotto sulle strisce pedonali, mi condannerebbero a pagare i danni all'auto.

(12.02.16)

TO.05.03.09

IL DISEGNO DI DIO A VOLTE SI RIVELA SOLO IN ALCUNI PUNTI. STA' ALLA FEDE CONGIUNGERLI

PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI SIA SANTIFICATO IL TUO NOME VENGA IL TUO REGNO, SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ COME IN CIELO COSI IN TERRA , DAMMI OGGI  IL PANE E LA ACQUA QUOTIDIANI E LA POSSIBILITA' DI NON COMMETTERE ERRORI NEL CERCARE DI REALIZZARE NEL MIGLIOR MONDO POSSIBILE IL TUO VOLERE, LA PACE NEL MONDO, IL BENESSERE SOCIALE E LA COMUNIONE DI TUTTI I POPOLI. TU SEI GRANDE ED IO NON SONO CHE L'ULTIMO DEI TUOI SERVI E FIGLI.

TU SEI GRANDE ED IO NON SONO CHE L'ULTIMO DEI TUOI SERVI E DEI TUOI FIGLI .

SIGNORE IO NON CONOSCO I TUOI OBIETTIVI PER ME , FIDUCIOSO MI AFFIDO A TE.

Difendo il BENE contro il MALE che nell'uomo rappresenta la variabile "d" demonio per cui una decisione razionale puo' diventare irrazionale per questa ragione (12.02.16)

Non prendo la vita di punta faccio la volonta' di DIO ! (09.12.18)

La vita e' fatta da cose che si devono fare, non si possono non fare, anche se non si vorrebbero fare.(20.01.16)

Il mondo sta diventando una camera a gas a causa dei popoli che la riempiono per irresponsabilità politica (16.02.16)

I cervelli possono viaggiare su un unico livello o contemporaneamente su plurilivelli e' soggettivo. (19.02.17)

L'auto del futuro non sara' molto diversa da quella del presente . Ci sono auto che permarranno nel futuro con l'ennesima versione come : la PORSCHE 911, la PANDA, la GOLF perche' soddisfano esigenze del mercato che permangono . Per cui le auto cambieranno sotto la carrozzeria con motori ad idrogeno , e materiali innovativi. Sara' un auto migliore in termini di sicurezza, inquinamento , confort ma la forma non cambierà molto. INFATTI la Modulo di Pininfarina la Scarabeo o la Sibilo di Bertone possono essere confrontate con i prototipi del prossimo salone.(18.06.17)

La siccità e le alluvioni dimostrano l'esistenza di Dio nei confronti di uomini che invece che utilizzare risorse per cercare  inutilmente nuovi pianeti dove Dio non ha certo replicato l'esperienza negativa dell'uomo, dovrebbero curare l'unico pianeta che hanno a disposizione ed in cui rischiano di estinguersi . (31.10.!7)

L'Italia e' una Repubblica fondata sul calcio di cui la Juve e' il maggiore esponente con tutta la sua violenta prevaricazione (05.11.17)

La prepotenza della FIAT non ha limiti . (05.11.17)

I mussulmani ci comanderanno senza darci spiegazioni ne' liberta'.(09.11.17)

In Italia mancano i controlli sostanziali . (09.11.17)

Gli alimenti per animali sono senza controllo, probabilmente dannosi,  vengono utilizzati dai proprietari per comodita', come se l'animale fosse un oggetto a cui dedicare il tempo che si vuole, quando si vuole senza alcun rispetto ai loro veri bisogni  alimentari. (20.11.17)

Ho conosciuto l'avv.Guido Rossi e credo che la stampa degli editori suoi clienti lo abbia mitizzato ingiustificatamente . (20.11.17)

L'elicottero di Jaky e' targato I-TAIF. (20.11.17)

La Coop ha le agevolazioni di una cooperativa senza esserlo di fatto in quanto quando come socio ho partecipato alle assemblee per criticare il basso tasso d'interesse dato ai soci sono stato o picchiato o imbavagliato. (20.11.17)

Sono 40 anni che :

1 ) vedo bilanci diversi da quelli che vedo insegnati a scuola, fusioni e scissioni diverse da quelle che vengono richieste in un esame e mi vengono a dire che l'esame di stato da dottore commercilaista e' una cosa seria ?

2) faccio esposti e solo quello sul falso in bilancio della Fiat presentato da Borghezio al Parlamento e' andato avanti ?

 (21.11.17)

La Fornero ha firmato una riforma preparata da altri (MONTI-Europa sono i mandanti) (21.11.17)

Si puo' cambiare il modo di produrre non le fasi di produzione. (21.11,17)

La FIAT-FERRARI-EXOR si sono spostate in Olanda perche' i suoi amministratori abbiano i loro compensi direttamente all'estero . In particolare Marchionne ha la residenza fiscale in Sw (21.11.17)

La prova che e' il femore che si rompe prima della caduta e' che con altre cadute non si sono rotte ossa, (21.11.17)

Carlo DE BENEDETTI un grande finanziere che ha fallito come industriale in quanto nel 1993 aveva il SURFACE con il nome QUADERNO , con Passera non l'ha saputo produrre , ne' vendere ne' capire , ma siluro' i suoi creatori CARENA-FIGINI. (21.11.17)

Quando si dira' basta anche alle bufale finanziarie ? (21.11.17)

Per i consiglieri indipendenti l'indipendenza e' un premio per tutti gli altri e' un costo (11.12.17)

La maturita' del mercato finanziario e' inversamente proporzionale alla sottoscrizione dei bitcoin (18/12/17)

Chi risponde civilmente e penalmente se un'auto o un robot impazziscono ? (18/12/17)

Non e' la FIAT filogovernativa, ma sono i governi che sono filofiat consententogli di non pagare la exit-tax .(08.02.18) inoltre la FIAT secondo me ha fatto più danni all'ITALIA che benefici distruggendo la concorrenza della LANCIA , della Ferrari, che non ha mai capito , e della BUGATTI (13.02.18).

Infatti quando si comincia con il raddoppio del capitale senza capitale si finisce nella scissione

Tesi si laurea sull'assoluzione del sen.Giovanni Agnelli nel 1912 dal reato di agiotaggio : come Giovanni Agnelli da segretario della Fiat ne e' diventato il padrone :

https://1drv.ms/b/s!AlFGwCmLP76phBPq4SNNgwMGrRS4

 

Prima di educare i figli occorre educare i genitori (13.03.18)

Che senso ha credere in un profeta come Maometto che e'un profeta quando e' esistito  Gesu' che e' il figlio di DIO come provato  per ragioni storiche da almeno 4 testi che sono gli evangelisti ? Infatti i mussulmani  declassano Gesu' da figlio di DIO  a profeta perché riconoscono implicitamente l'assurdità' di credere in un profeta rispetto al figlio di DIO. E tutti gli usi mussulmani  rappresentano una palese involuzione sociale basata sulla prevaricazione per esempio sulle donne (19.03/18)

Il valore aggiunto per i consulenti finanziari e' solo per loro (23.03.18)

I medici lavorerebbero gratis ? quante operazioni non sono state fatte a chi non aveva i soldi per pagarle ? (26.03.18 )

lo sfregio delle auto di stato ibride con il motore acceso, deve finire con il loro passaggio alla polizia  con i loro autisti (19.03.18)

Se non si tassa il lavoro dei robot e' per la mancata autonomia in termini di liberta' di scelta e movimento e responsabilita' penale personale . Per cui le auto a guida autonoma diventano auto-killer. (26.04.18)

Quanto poco conti l'istruzione per l'Italia e' dimostrato dalla scelta DEI MINISTRI GELMINI FEDELI sono esempi drammatici anche se valorizzati dalla FONDAZIONE AGNELLI. (26.04.18) (27.08.18).

Credo che la lotta alla corruzione rappresenti sempre di piu' un fattore di coesione internazionale perche' anche i poteri forti si sono stufati di pagare tangenti (27/04/2018)

Non riusciamo neppure piu' a produrre la frutta ad alto valore aggiunto come i mirtilli....(27/04/2018)

Abbiamo un capitalismo sempre piu' egoista fatto da managers che pensano solo ad arraffare soldi pensando che il successo sia solo merito loro invece che di Dio e degli operai (27.04.18)

Le imprese dell'acqua e delle telecomunicazioni scaricano le loro inefficienze sull'utente (29.05.18)

Nel 2004 Umberto Agnelli, come presidente della FIAT,  chiese a Boschetti come amministratore delegato della FIAT AUTO di affidarmi lo sviluppo della nuova Stilo a cui chiesi di affiancare lo sviluppo anche del marchio ABARTH , 500 , A112, 127 . Chiesi a Montezemolo , come presidente Ferrari se mi lasciava utilizzare il prototipo di Giugiaro della Kubang che avrebbe dovuto  essere costruito con ALFA ROMEO per realizzare la nuova Stilo . Mi disse di si perche' non aveva i soldi per svilupparlo. Ma Morchio, amministratore delegato della FIAT, disse che non era accettabile che uno della Telecom si occupasse di auto in Fiat perche' non ce ne era bisogno. Peccato che la FIAT aveva fatto il 128 che si incendiava perche' gli ingegneri FIAT non avevano previsto una fascetta che stringesse il tubo della benzina all'ugello del carburatore. Infatti pochi mesi dopo MORCHIO  venne licenziato da Gabetti ed al suo posto arrivo' Marchionne a cui rifeci la proposta. Mi disse di aspettare una risposta entro 1 mese. Sono passati 14 anni ma nessuna risposta mi e' mai stata data da Marchionne, nel frattempo la Fiat-Lancia sono morte definitivamente il 01.06.18, e la Nissan Qashai venne presentata nel 2006 e rilancia la Nissan. Infatti dal 2004 ad oggi RENAULT-NISSAN sono diventati i primi produttori al mondo. FIAT-FCA NO ! Grazie a Marchionnne nonostante abbia copiato il suo piano industriale dal mio libro . Le auto Fiat dell'era CANTARELLA bruciavano le teste per raffredamento insufficente. Quella dell'era Marchionne hanno bruciato la Fiat. Il risultato del lavoro di MARCHIONNE e' la trasformazione del prodotto auto in prodotto finanziario, per cui le auto sono diventate tutte uguali e standardizzate. Ho trovato e trovo , NEI MIEI CONFRONTI, molta PREPOTENZA cattiveria ed incompetenza in FIAT. (19.12.18)

(   vedi :  https://1drv.ms/w/s!AlFGwCmLP76pg3LqWzaM8pmCWS9j ).

La differenza fra ROMITI MARCHIONNE e' che se uno la pensava diversamente da loro Romiti lo ascoltava, Marchionne lo cacciava anche se gli avesse detto che aumentando la pressione dei pneumatici si sarebbero ridotti i consumi.

FATTI NON PAROLE E FUMO BORSISTICO ! ALFA ROMEO 166 un successo nonostante i pochi mezzi utilizzati ma una richiesta mia precisa e condivisa da FIAT : GUIDA DIRETTA.  Che Marchionne non ha apprezzato come un attila che ha distrutto la storia automoblistica italiana su mandato di GIANLUIGI GABETTI (04.06.18).

Piero ANGELA : un disinformatore scientifico moderno in buona fede  su auto elettrica. auto killer ed inceneritore  (29.07.18)

Puoi anche prendere il potere ma se non lo sai gestire lo perdi come se non lo avessi mai avuto (01.08.18)

Ho provato la BMW i8 ed ho capito che la Ferrari e le sue concorrenti sono obsolete ! (20.08.18)

LA Philip Morris ha molti clienti e soci morti tra cui Marchionne che il 9 maggio scorso, aveva comprato un pacchetto di azioni per una spesa di 180mila dollari. Briciole, per uno dei manager più ricchi dell’industria automotive (ha un patrimonio stimato tra i 6-700 milioni di franchi svizzeri, cifra che lo fa rientrare tra i 300 elvetici più benestanti).E’ stato, però, anche l’ultimo “filing” depositato dal manager alla Sec, sul cui sito da sabato pomeriggio è impossible accedere al profilo del manager italo-canadese e a tutte le sue operazioni finanziarie rilevanti. Ed era anche un socio: 67mila azioni detenute per un investimento di 5,67 milioni di dollari (alla chiusura di Wall Street di venerdì 20 luglio 2018 ). E PROSSIMAMENTE  un'uomo Philip Morris uccidera' anche la FERRARI .   (20.08.18) (25.08.18)

verbali assemblee italiane azionisti EXOR :

https://1drv.ms/f/s!AlFGwCmLP76pg3Y3JmiDAW4z2DWx

verbali assemblee italiane azionisti FIAT :

https://1drv.ms/f/s!AlFGwCmLP76phApzYBZTNpkGlRkq

 

Prodi e' il peccato originale dell'economia italiana dal 1987 (regalo' l'ALFA ROMEO alla FIAT) ad oggi (25.08.18)

L'indipendenza della Magistratura e' un concetto teorico contraddetto dalle correnti anche politiche espresse nelle lottizzazioni delle associazioni magistrati che potrebbe influenzarne i comportamenti. (27.08.18)

Ho sempre vissuto solo con oppositori irresponsabili privi di osservazioni costruttive ed oggettive. (28.08.18)

Buono e cattivo fuori dalla scuola hanno un significato diverso e molto piu' grave perche' un uomo cattivo o buono possono fare il bene o il male con consaprvolezza che i bambini non hanno (20.10.18) 

Ma la TAV serve ai cittadini che la dovrebbero usare o a chi la costruisce con i nostri soldi ? PERCHE' ?

Un ruolo presidenziale divergente da quello di governo potrebbe porre le premesse per una Repubblica Presidenziale (11.11.2018)

La storia occorre vederla nella sua interezza la marcia dei 40.000 della Fiat come e' finita ? Con 40.000 licenziamenti e la Fiat in Olanda ! (19.11.18)

I SITAV dopo la marcia a Torino faranno quella su ROMA con costi doppi rispetto a quella francese sullo stesso percorso ? (09.12.18)

La storia politica di Fassino e' fatta dall'invito al voto positivo per la raduzione dei diritti dei lavoratori di Mirafiori. Si e' visto il risultato della lungimiranza di Fassino , (18.12.18)

Perche' sono investimenti usare risorse per spostare le pietre e rimetterle a posto per giustificare i salari e non lo sono il reddito di cittadinanza e quota 100 per le pensioni ? perche' gli 80 euro a chi lavora di Renzi vanno bene ed i 780 euro di Di Maio a chi non lavora ed e' in pensione non vanno bene ? (27.12.18)

Le auto si dividono in auto mozzarella che scadono ed auto vino che invecchiando aumentano di valore (28.12.18)

Fumare non e' un diritto ma un atto contro la propria salute ed i doveri verso la propria famiglia che dovrebbe avere come conseguenza la revoca dell'assistenza sanitaria nazionale ad personam (29.12.18)

Questo mondo e troppo cattivo per interessare altri esseri viventi (10.01.19)

Le ONG non hanno altro da fare che il taxi del mare in associazione per deliquere degli scafisti ? (11.02.19)

La giunta FASSINO era inutile, quella APPENDINO e' dannosa (12.07.19)

Quello che l'Appendino chiama freno a mano tirato e' la DEMOCRAZIA .(18.07.19)

La spesa pubblica finanzia le tangenti e quella sullo spazio le spese militari  (19.07.19)

AMAZON e FACEBOOK di fatto svolgono un controllo dei siti e forse delle persone per il Governo Americano ?

(09.08.19)

LA GRANDE MORIA DI STARTUP e causato dal mancato abbinamento con realta' solide (10.08.!9)

Il computer nella progettazione automobilistica ha tolto la personalizzazione ed innovazione. (17.08.19)

L' uomo deve gestire i computer non viceversa, per aumentare le sue potenzialita' non annullarle  (18.08.19)

LA FIAT a Torino ha fatto il babypaking a Mirafiori UNO DEI POSTI PIU' INQUINATI DI TORINO ! Non so se Jaky lo sappia , ma il suo isolamento non gli permette certo di saperlo ! (13.09.19)

Non potro' mai essere un buon politico perche' cerco di essere un passo avanti mentre il politico deve stare un passo indietro rispetto al presente. (04.10.19)

L'arretratezza produttiva dell'industria automobilistica e' dimostrata dal fatto che da anni non hanno mai risolto la reversibilità dei comandi di guida a dx.sx, che costa molto (09.10.19)

IL CSM tutela i Magistrati dalla legge o dai cittadini visti i casi di Edoardo AGNELLI  e Davide Rossi ? (10.10.19).

Le notizie false servono per fare sorgere il dubbio su quelle vere discreditandole (12.10.19)

L'illusione startup brucia liquidita' per progetti che hanno poco mercato. sottraendoli all'occupazione ed illude gli investitori di trovare delle scorciatoie al alto valore aggiunto (15.10.19)

Gli esseri umani soffrono spesso e volentieri della sindrome del camionista: ti senti piu' importante perche' sei in alto , ma prima o poi dovrai scendere e cedere il posto ad altri perche' nessun posto rimane libero (18.10.19)

Non e' logico che l'industria automobilistica invece di investire nelle propulsione ad emissione 0 lo faccia sulle auto a guida autonoma che brucia posti di lavoro. (22.10.19)

L'intelligenza artificiale non esiste perche' non e' creativa ma applicativa quindi rischia di essere uno strumento in mano ai dittatori, attraverso la massificazione pilotata delle idee, che da la sensazione di poter pensare ad una macchina al nostro posto per il bene nostro e per farci diventare deficienti come molti percorsi dei navigatori  (24.11.19)

Quando ci fanno domande per sapere la nostra opinione di consumatori ma sono interessati solo ai commenti positivi , fanno poco per migliorare (25.11.19)

La prova che la qualità della vita sta peggiorando e' che una volta la cessione del 5^ si faceva per evitare i pignoramenti , oggi lo si fa per vivere (27.11.19)

Per combattere l'evasione fiscale basta aumentare l'assistenza nella pre-compilazione e nel pagamento (29.11.19)

La famiglia e' come una barca che quando sbaglia rotta porta a sbattere tutti quanti (25.12.19)

Le tasse sull'inquinamento verranno scaricate sui consumatori , ma a chi governa e sa non importa (25.12.19)

Il calcio e l'oppio dei popoli (25.12.19)

La religione nasce come richiesta di aiuto da parte dei popoli , viene trasformata in un tentativo di strumento di controllo dei popoli (03.01.20)

L'auto a guida autonoma e' un diversivo per vendere auto vecchie ed inquinanoroti , ed il mercato l'ha capito (03.01.20)ttadini

Il vero potere della burocrazia e' quello di creare dei problemi ai cittadini anche se il cittadino paga i dipendente pubblico per risolvere dei problemi non per crearli.  Se per denunciare questi problemi vai fuori dal coro deve essere annientato. Per cui burocrazia=tangente (03.01.20)

Gli immigrati tengono fortemente alla loro etnina a cui non rinunciano , piu' saranno forti le etnie piu' queste  divideranno l'Italia sovrastando gli italiani imponendoci il modello africano . La mafia nigeriana e' solo un esempio. (05.01.20)

La sinistra e la lotta alla fame nel mondo sono chimere prima di tutto per chi ci deve credere come ragione di vita (07.01.20)

Credo di avere la risposta alla domanda cosa avrebbe fatto Eva se Adamo avesse detto di no a mangiare la mela ?  Si sarebbe arrabbiata. Anche oggi se non fai quello che vogliono le donne si mettono contro cercando di danneggiarti. (07.01.20)

Le sardine rappresenta l'evoluzione del buonismo Democristiano  e la sintesi fra Prodi e Renzi,  fuori fa ogni logica e senza una proposta concreta  (08.01.20)

Un cavallo di razza corre spontaneamente e nessuno puo' fermarlo. (09.01.20)

PD e M5S 2 stampelle non fanno neppure una gamba sana (22.01.20)

non riconoscere i propri errori significa sbagliare per sempre (12.04.20)

la vera ricchezza dei ricchi sono i figli dei poveri, una lotteria che pagano tutta la loro vita i figli ai genitori che credono di non avere nulla da perdere  ! (03.11.21)

GLI YESMEN SERVONO PER CONSENTIRE IL MANTENIMENTO E LO SVILUPPO E L'OCCULTAMENTO DEGLI INTERESSI OCCULTI DEL CAPITALISMO DISTRUTTIVO. (22.04.22)

DALL'INTOLLERANZA NASCE LA GUERRA (30.06.22)

L'ITALIA E' TERRA DI CONQUISTA PER LE BANDE INTERNE DEI PARTITI. (09.10.22)

La dimostrazione che non esista più il nazismo e' dimostrato dalla reazione europea contro Puntin che non ci fu subito contro Hitler (12.10.22)

Cara Meloni nulla giustifica una alleanza con la Mafia di Berlusconi (26.10.22)

I politici che non rappresentano nessuno a cosa servono ? (27.10.22)

Di chi sono Ambrosetti e Mckinsey ? Chi e' stato formato da loro ed ora e' al potere in ITALIA ?
Lo spunto e' la vicenda Macron . Quanti Macron ci sono in Italia ? E chi li controlla ? Mckinsey e' una P2 mondiale ?
Mb

Piero Angela ha valutato che lo sbarco sulla LUNA ancora oggi non e' gestibile in sicurezza ? (30.12.22)

Le leggi razziali = al Green Pass  (30.03.23)

Dopo 60 anni il danno del Vaiont dimostra il pericolo delle scelte scientifiche come il nucleare, giustificato solo dalle tangenti (10.10.23)

 

 

 

LA mia CONTROINFORMAZIONE ECONOMICA  e' CONTRO I GIOCHI DI POTERE,  perche' DIO ESISTE,  ANCHE SOLO per assurdo.

IL MONDO HA BISOGNO DI DIO MA NON LO SA, E' TALMENTE CATTIVO CHE IL BENE NON PUO' CHE ESISTERE FUORI DA QUESTO MONDO E DA QUESTA VITA !

PER QUESTO IL MIO MESTIERE E' CAMBIARE IL MONDO !

LA VIOLENZA DELLA DISOCCUPAZIONE CREA LA VIOLENZA DELLA RECESSIONE, con LICIO GELLI che potrebbe stare dietro a Berlusconi. 

IL GOVERNO DEGLI ANZIANI, com'e' LICIO GELLI,  IMPEDISCE IL CAMBIAMENTO perche' vetusto obsoleto e compromesso !

E' UN GIOCO AL MASSACRO dell'arroganza !

SE NON CI FOSSERO I SOLDATI NON CI SAREBBE LA GUERRA !

TU SEI UN SOLDATO ?

COMUNICAMI cio' pensi !

email

 

 

Riflessioni ....

Sopravvaluta sempre il tuo avversario , per poterlo vincere  .Mb  15.05.13

Torino 08.04.13

Il mio paese l'Italia non crede nella mia teoria economica del valore che definisce

1) ogni prodotto come composto da energia e lavoro:

Il costo dell'energia può tendere a 0 attraverso il fotovoltaico sui tetti. Per dare avvio la volano economico del fotovoltaico basta detassare per almeno 20 anni l'investimento, la produzione ed il consumo di energia fotovoltaica sui tetti.

2) liberalizzazione dei taxi collettivi al costo di 1 euro per corsa in modo tale da dare un lavoro a tutti quelli che hanno un 'auto da mantenere e non lo possono piu fare per mancanza di un lavoro; ed inoltre dare un servizio a tutti i cittadini.

3) tre sono gli obiettivi principali della politica : istruzione, sanita', cultura.

4) per la sanità occorre un centro acquisti nazionale  ed abolizione giorni pre-ricovero.

vedi PRESA DIRETTA 24.03.13

chi e' interessato mi scriva .

Suo. MARCO BAVA

 

I rapporti umani, sono tutti unici e temporanei:

  1. LA VITA E' : PREGHIERA, LAVORO E RISPARMIO.(02.02.10)
  2. Se non hai via di uscita, fermati..e dormici su. 
  3. E' PIU'  DIFFICILE  SAPER PERDERE CHE VINCERE ....
  4. Ciascun uomo vale in funzione delle proprie idee... e degli stimoli che trova dentro di se...
  5. Vorrei ricordare gli uomini piu' per quello che hanno fatto che per quello che avrebbero potuto fare !
  6. LA VERA UMILTA' NON SI DICHIARA  MA SI DIMOSTRA, AD ESEMPIO CONTINUANDO A STUDIARE....ANCHE SE PURTROPPO L'UNIVERSITÀ' E' FINE A SE STESSA.
  7. PIU' I MEZZI SONO POVERI X RAGGIUNGERE L'OBIETTIVO, PIU' E' CAPACE CHI LO RAGGIUNGE.
  8. L'UNICO LIMITE AL PEGGIO E' LA MORTE.
  9. MEGLIO NON ILLUDERE CHE DELUDERE.
  10. L'ITALIA , PER COLPA DI BERLUSCONI STA DIVENTANDO IL PAESE DEI BALOCCHI.
  11. IL PIL CRESCE SE SI RIFA' 3 VOLTE LO STESSO TAPPETINO D'ASFALTO, MA DI FATTO SIAMO TUTTI PIU' POVERI ALMENO 2 VOLTE.
  12. LA COSTITUZIONE DEI DIRITTI DELL'UOMO E QUELLA ITALIANA GARANTISCONO GIA' LA LIBERTA',  QUANDO TI DICONO L'OVVIETÀ'  CHE SEI LIBERO DI SCEGLIERE  E' PERCHE' TI VOGLIONO IMPORRE LE LORO IDEE. (RIFLESSIONE DEL 10.05.09 ALLA LETTERA DEL CARDINALE POLETTO FATTA LEGGERE NELLE CHIESE)
  13. la vita eterna non puo' che esistere in quanto quella terrena non e' che un continuo superamento di prove finalizzate alla morte per la vita eterna.
  14. SOLO ALLA FINE SI SA DOVE PORTA VERAMENTE UNA STRADA.
  15. QUANDO NON SI HANNO ARGOMENTI CONCRETI SI PASSA AI LUOGHI COMUNI.
  16. L'UOMO LA NOTTE CERCA DIO PER AVERE LA SERENITA' NOTTURNA (22.11.09)
  17. IL PRESENTE E' FIGLIO DEL PASSATO E GENERA IL FUTURO.(24.12.09)
  18. L'ESERCIZIO DEL POTERE E' PER DEFINIZIONE ANDARE CONTRO NATURA (07.01.10)
  19. L’AUTO ELETTRICA FA SOLO PERDERE TEMPO E DENARO PER ARRIVARE ALL’AUTO AD IDROGENO (12.02.10)
  20. BERLUSCONI FA LE PENTOLE MA NON I COPERCHI (17.03.10)
  21. GESU' COME FU' TRADITO DA GIUDA , OGGI LO E' DAI TUTTI I PEDOFILI (12.04.10)
  22. IL DISASTRO DELLA PIATTAFORMA PETROLIFERA USA COSA AVREBBE PROVOCATO SE FOSSE STATA UNA CENTRALE ATOMICA ? (10.05.10)
  23. Quante testate nucleari da smantellare dovranno essere saranno utilizzate per l'uranio delle future centrali nucleari italiane ?
  24. I POTERI FORTI DELLE LAUREE HONORIS CAUSA SONO FORTI  PER CHI LI RICONOSCE COME TALI. SE NON LI SI RICONOSCE COME FORTI SAREBBERO INESISTENTI.(15.05.10)

  25. L'ostensione della Sacra Sindone non puo' essere ne' temporanea in quanto la presenza di Gesu' non lo e' , ne' riservata per i ricchi in quanto "e' piu' facile che in cammello passi per la cruna di un ago ..."

  26. sapere x capire (15.10.11)

  27. la patrimoniale e' una 3^ tassazione (redditi, iva, patrimoniale) (16.10.11)

  28. SE LE FORZE DELL'ORDINE INTERVENISSERO DI PIU'PER CAUSE APPARENTEMENTE BANALI CI SAREBBE MENO CONTENZIOSO: CHIAMATO IL 117  PER UN PROBLEMA BANALE MI HA RISPOSTO : GLI FACCIA CAUSA ! (02.04.17)

  29. GRAN PARTE DEI PROFESSORI UNIVERSITARI SONO TRA LE MENTI PIU' FRAGILI ED ARROGANTI , NON ACCETTANO IL CONFRONTO E SI SENTONO SPIAZZATI DIVENTANO ISTERICI ( DOPO INCONTRO CON MARIO DEAGLIO E PIETRO TERNA) (28.02.17)

  30. Spesso chi compera auto FIAT lo fa solo per gratificarsi con un'auto nuova, e basta (04.11.16)

  31. Gli immigrati per protesta nei centri di assistenza li bruciano e noi dobbiamo ricostruirglieli  affinché  li redistruggono? (18.10.20)

  32. Abbiamo più rispetto per le cose che per le persone .29.08.21

  33. Le ragioni  per cui Caino ha ucciso Abele permangono nei conflitti umani come le guerre(24.11.2022)

  34. Quelli che vogliono l'intelligenza artificiale sanno che e' quella delle risposte autmatiche telefoniche? (24.11.22)

L'obiettivo di questo sito e una critica costruttiva  PER migliorare IL Mondo .

  1. PACE NEL MONDO
  2. BENESSERE SOCIALE
  3. COMUNIONE DI TUTTI I POPOLI.
  4. LA DEMOCRAZIA AZIENDALE

 

L'ASSURDITÀ' DI QUESTO MONDO , E' LA PROVA CHE LA NOSTRA VITA E' TEMPORANEA , OLTRE ALLA TESTIMONIANZA DI GESU'. 15.06.09

 

DIO CON I PESI CI DA ANCHE LA FORZA PER SOPPORTALI, ANCHE SE QUALCUNO VORREBBE FARMI FARE LA FINE DI GIOVANNI IL BATTISTA (24.06.09)

 

IL BAVAGLIO della Fiat nei miei confronti:

 

IN DATA ODIERNA HO RICEVUTO: Nell'interesse di Fiat spa e delle Societa' del gruppo, vengo informato che l'avv.Anfora sta monitorando con attenzione questo sito. Secondo lo stesso sono contenuti in esso cotenuti offensivi e diffamatori verso Fiat ed i suoi amministratori. Fatte salve iniziative autonome anche davanti all'Autorita' giudiziaria, vengo diffidato dal proseguire in tale attivita' illegale"
Ho aderito alla richiesta dell'avv.Anfora, veicolata dal mio hosting, ricordando ad entrambi le mie tutele costituzionali ex art.21 della Costituzione, per tutelare le quali mi riservo iniziative esclusive dinnanzi alla Autorita' giudiziaria COMPETENTE.
Marco BAVA 10.06.09

 

TEMI SUL TAVOLO IN QUESTO MOMENTO:

 

IL TRIBUNALE DI  TORINO E LA CONSOB NON MI GARANTISCONO LA TUTELA DEL'ART.47 DELLA COSTITUZIONE

Oggi si e' tenuta l'assemblea degli azionisti Seat tante bugie dagli amministratori, i revisori ed il collegio sindacale, tanto per la Consob ed il Tribunale di Torino i miei diritti come azionista di minoranza non sono da salvaguardare e la digos mi puo' impedire il voto come e quando vuole, basta leggere la sentenza SENT.FIAT Mb

 

08.03.16

 

TEMI STORICI :

 

VIDEO DELLA TRASMISSIONE TV
Storie italiane
Puntata del 19/11/2019

SULLA MORTE DI EDOARDO AGNELLI

https://www.raiplay.it/video/2019/11/storie-italiane-504278c4-8e8c-4b79-becc-87d5c7a67be6.html

 

10° Convegno
 
La grafopatologia in ambito giudiziario
L’applicazione della grafologia in criminologia, nelle malattie neurologiche e psichiatriche nel contesto giudiziario
 
Roma, 7 Dicembre 2019
 
Auditorium Facoltà Teologica “S. Bonaventura”
Via del Serafico 1 - Roma

 
alle ore 17,50
 
Vincenzo Tarantino
Gino Saladini
 
Elio Carlos Tarantino Mendoza Garofani
Grafologo giudiziario, esperto in fotografia forenseGiornalista, Criminologo
 
Il “suicidio” di Edoardo Agnelli: aspetti medico-legali criminologici e grafopatologici.

 

Edoardo Agnelli è stato ucciso?" - Guarda il video

I VIDEO DELLE PRESENTAZIONI GIA' FATTE LI TROVI SOTTO

LA PARTE DEDICATA AD EDOARDO AGNELLI SU QUESTO SITO

 PERCHE' TORINO HA PAURA DI CONOSCERE LA VERITA' SULLA MORTE DI EDOARDO AGNELLI ?

Il prof.Mario DE AGLIO alcuni anni fa scrisse un articolo citando il "suicidio" di EDOARDO AGNELLI.  Gli feci presente che dai documenti ufficiali in mio possesso il suicidio sarebbe stato incredibile offrendogli di esaminare tali documenti. Quando le feci lui disconobbe in un modo nervoso ed ingiustificato : era l'intero fascicolo delle indagini.

A Torino molti hanno avuto la stessa reazione senza aver visto ciò che ha visto Mario DE AGLIO ma gli altri non parlano del "suicidio" di Edoardo AGNELLI ma semplicemente della suo morte.

Mb

02.04.17

 

 

grazie a Dio , non certo a Jaky,  continua la ricerca della verità sull'omicidio di Edoardo Agnelli , iniziata con i libri di Puppo e Bernardini, il servizio de LA 7, e gli articoli di Visto,  ora il Corriere e Rai 2 , infine OGGI  , continuano un percorso che con l'aiuto di Dio portera' prima di quanti molti pensino alla verita'. Mb -01.10.10

 

LIBRI SULL’OMICIDIO DI EDOARDO AGNELLI

www.detsortelam.dk

www.facebook.com/people/Magnus-Erik-Scherman/716268208

 

ANTONIO PARISI -I MISTERI DEGLI AGNELLI - EDIT-ALIBERTI-

 

CRONACA | giovedì 10 novembre 2011, 18:00

Continua la saga della famiglia ne "I misteri di Casa Agnelli".

Il giornalista Antonio Parisi, esce con l'ultimo pamphlet sulla famiglia più importante d'Italia, proponendo una serie di curiosità ed informazioni inedite

 Per dieci anni è stato lasciato credere che su Edoardo Agnelli, precipitato da un cavalcavia di ottanta metri, a Fossano, sull'Autostrada Torino - Savona, fosse stata svolta una regolare autopsia.

Anonime “fonti investigative” tentarono in più occasioni di screditare il giornalista Antonio Parisi che raccontava un’altra versione. Eppure non era vero, perché nessuna autopsia fu mai fatta.

Ora  Parisi, nostro collaboratore, tenta di ricostruire ciò che accadde quel giorno in un’inchiesta tagliente e inquietante, pubblicando nel libro “I Misteri di Casa Agnelli”, per la prima volta documenti ufficiali, verbali e rapporti, ma anche raccogliendo testimonianze preziose e che Panorama di questa settimana presenta.

Perché la verità è che sulla morte, ma anche sulla vita, dell’uomo destinato a ereditare il più grande capitale industriale italiano, si intrecciano ancora tanti misteri. Non gli unici però che riguardano la famiglia Agnelli.

Passando dalla fondazione della Fiat, all’acquisizione del quotidiano “La Stampa”, dalla scomparsa precoce dei rampolli al suicidio in una clinica psichiatrica di Giorgio Agnelli (fratello minore dell’Avvocato), dallo scandalo di Lapo Elkann, fino alla lite giudiziaria tra gli eredi, Antonio Parisi sviscera i retroscena di una dinastia che, nel bene o nel male, ha dominato la scena del Novecento italiano assai più di politici e governanti.

Il volume edito per "I Tipi", di Aliberti Editore, presenta sia nel testo che nelle vastissime note, una miniera di gustose e di introvabili notizie sulla dinastia industriale più importante d’Italia.

 

 

Mondo AGNELLI :

Cari amici,

Grazie mille per vostro aiuto con la stesura di mio libro. Sono contenta che questa storia di Fiat e Chrysler ha visto luce. Il libro e’ uscito la settimana scorsa, in inglese. Intanto e’ disponibile a Milano nella librerie Hoepli e EGEA; sto lavorando con la distribuzione per farlo andare in piu’ librerie possibile. E sto ancora cercando la casa editrice in Italia. Intanto vi invio dei link, spero per la gioia in particolare dei torinesi (dov’e’ stato girato il video in You Tube. )

http://www.youtube.com/watch?v=QLnbFthE5l0

Thanks again,

Jennifer

Un libro che riporta palesi falsita' sulla morte di Edoardo Agnelli come quella su una foto inesistente con Edoardo su un ponte fatta da non si sa chi recapitata da ignoto ad ignoti. Se fosse esistita sarebbe stata nel fascicolo dell'inchiesta. Intanto anche grazie a queste falsita' il prezzo del libro passa da 15 a 19 euro! www.marcobava.it

 

17.12.23

Il Sole 24 Ore:
 

La Giovanni Agnelli Bv ha deciso di rivedere anche il sistema di governance. Le nuove disposizioni, […] identificano tre interlocutori chiave tra gli azionisti: il Gruppo Giovanni Agnelli, il Gruppo Agnelli e il Gruppo Nasi. Si tratta di tre blocchi che raggruppano a loro volta gli undici rami famigliari storici. Il primo quello della Giovanni Agnelli coincide con la Dicembre e dunque pesa per il 40%. Segue il gruppo Agnelli con il 30% e il gruppo Nasi a cui fa capo il 20%. I componenti del cda della GA BV sono espressione proprio di questi tre “macro” gruppi famigliari della dinastia torinese.
Ognuno di loro esprime due rappresentanti nel board della Giovanni Agnelli Bv e uno nel board di Exor. Oggi il Gruppo Giovanni Agnelli ha indicato nel board della società olandese Andrea Agnelli e Alexander Von Fürstenberg. E questo nonostante Andrea Agnelli, che nel frattempo vive stabilmente ad Amsterdam, di fatto faccia parte di un altro blocco, quello del Gruppo Agnelli.
Per quest’ultimo i due membri del board sono Benedetto della Chiesa e Filippo Scognamiglio. Infine, per il gruppo Nasi Luca Ferrero Ventimiglia e Niccolò Camerana. I consiglieri del Cda della Bv sono nominati ogni 3 anni e decadono automaticamente al compimento di 75 anni. Ogni gruppo inoltre esprime un proprio rappresentante nel Cda di Exor che oggi sono Ginevra Elkann (Gruppo Giovanni Agnelli), Tiberto Ruy Brandolini D’Adda (Gruppo Agnelli) e Alessandro Nasi (Gruppo Nasi). Accanto al cda dell Bv resta in vita il Consiglio di famiglia, organo non deliberativo ma consultivo e formato da 32 membri.


Questa la nuova struttura societaria della
Giovanni Agnelli Bv per quote di possesso.

Dicembre (John Elkann , Lapo e Ginevra): 39,7%

Ramo Maria Sole Agnelli: 11,2%

Ramo Agnelli (Andrea Agnelli e Anna Agnelli): 8,9%

Ramo Giovanni Nasi: 8,7%

Ramo Laura Nasi-Camerana: 6%

Ramo Cristiana Agnelli: 5,05%

Ramo Susanna Agnelli: 4,7%

Ramo Clara Nasi-Ferrero di Ventimiglia: 3,4%

Ramo Emanuele Nasi: 2,5%

Ramo Clara Agnelli: 0,28%

Azioni proprie: 8,2%

 

Dovranno andare avanti le indagini della Procura di Milano con al centro il tesoro di Giovanni Agnelli, 13 opere d'arte che arredavano Villa
Frescot e Villar Perosa a Torino e una residenza di famiglia a Roma, sparite anni fa e ora reclamate dalla figlia Margherita unica erede dopo
la morte della madre e moglie dell'Avvocato, Marella Caracciolo di Castagneto, la quale aveva l'usufrutto dei beni.
Mentre riprenderà a Torino la battaglià giudiziaria sull' eredità lasciata dall'Avvocato, il gip milanese Lidia Castellucci, accogliendo in parte
i suggerimenti messi nero su bianco da Margherita nell'opposizione alla richiesta di archiviazione dell'inchiesta, ha indicato al pm Cristian
Barilli e al procuratore aggiunto Eugenio Fusco di raccogliere le testimonianze di Paola Montalto e Tiziana Russi, entrambe persone di
fiducia di Marella Caracciolo, le quali si sono occupate degli inventari dei beni ereditati, e di consultare tutte le banche dati «competenti»
comprese quelle del Ministero della Cultura e la piattaforma S.U.E.
(Sistema Uffici Esportazione).
Secondo il giudice, che invece ha archiviato la posizione di un gallerista svizzero e di un suo collaboratore indagati per ricettazione in base
alla deposizione di un investigatore privato a cui non sono stati trovati riscontri (secondo lo 007 avrebbero custodito in un caveau a Chiasso il
patrimonio artistico), gli ulteriori accertamenti potrebbero essere utili per identificare chi avrebbe fatto sparire la collezione composta da
quadri di Monet, Picasso, Balla, De Chirico, Balthus, Gérome, Sargent, Indiana e Mathieu.
Collezione di cui Margherita ha denunciato a più riprese la scomparsa, gettando ombre anche sui tre figli del primo matrimonio: John, Lapo e
Ginevra Elkann, e in particolare sul primogenito.
I quali «della sorte o delle ubicazioni di tali opere», hanno saputo «riferire alcunché».
E poiché ora lo scopo è recuperarle dopo che, per via dei vari traslochi, si sono volatilizzate, «appare utile procedere all'escussione» delle due
donne che «si sono occupate degli inventari degli immobili» e che, quindi, «potrebbero essere a conoscenza di informazioni rilevanti» in
merito agli spostamenti dei quadri e alla «eventuale presenza di inventari cartacei da esse redatti».
E poi per «verificare le movimentazioni di tali opere, appare opportuno» compiere accertamenti sulle banche dati comprese quelle del
ministero.
Infine, per effetto di un provvedimento della Cassazione, torna ad essere discusso in Tribunale a Torino il procedimento penale, promosso da
Margherita nei confronti dei figli John, Lapo e Ginevra Elkann per una questione legata all'; eredità di suo padre.
Il processo era stato sospeso in attesa dell'esito di due cause in Svizzera, ma ieri la Suprema Corte ha respinto il ricorso degli Elkann, come
hanno fatto sapere fonti legali vicine alla loro madre, e ha stabilito essere «pienamente sussistente la giurisdizione italiana», annullando l'ordinanza torinese.
«Nella verifica che tali giudici saranno chiamati ad effettuare - sottolineano gli avvocati - si dovrà tener conto anche della residenza abituale
di Marella Caracciolo», che a loro dire era in Italia, «e della opponibilità dell'accordo transattivo del 2004 nella successione Agnelli, con
possibili rilevanti ripercussioni sugli assetti proprietari della Dicembre», la società che fa capo agli eredi.

 

 

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ULTIMO AGGIORNAMENTO 09/11/2024 01.01.49

 

MESSA DI RICORDO DELL'OMICIDIO DI EDOARDO AGNELLI

 

16.11.24 ORE 18 PARROCCHIA S.MARIA GORETTI

V ACTIS 20 ANG V PIETRO COSSA  TORINO 

 

 

 

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 11,47-54

In quel tempo, il Signore disse: «Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. Così voi testimoniate e approvate le opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite.
Per questo la sapienza di Dio ha detto: "Manderò loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno", perché a questa generazione sia chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dall'inizio del mondo: dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccarìa, che fu ucciso tra l'altare e il santuario. Sì, io vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione.
Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l'avete impedito».
Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo in modo ostile e a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca

 

 

PUTIN ENTRA DEFINITIVAMENTE ALL'INFERNO E    Alexei Navalny IN PARADISO 

https://twitter.com/i/status/1763518366122168632

 

In linea con l'omicidio di Gesu' Israele continua ad uccidere e dal patto con DIO e' passata a quello con satana.


Il termine Palestina venne adoperato per la prima volta da Erodoto, ma soltanto per riferirsi alle zone costiere dell’antico insediamento filisteo.
Successivamente, nel 135 d.C., venne nuovamente adottato dall’Imperatore Adriano con l’obiettivo di cancellare il carattere ebraico della Terra d’Israele.

A quei tempi l’area abitata dagli ebrei veniva definita Giudea, come attestano Plutarco, Tacito e Svetonio all’inizio del II secolo.
Il termine “palestinese” non è presente nell’antichità e ancora Gerolamo, nel V secolo, si dimostra consapevole dell’uso del termine Giudea, tanto da scrivere: “Judaea quae nunc appellatur Palaestina”.
La terra d’Israele è stata rappresentata “geograficamente” sin dai tempi di Rashi, ovvero Rabbi Shlomo Yitzhaki (1040-1105): alcuni suoi scritti contengono infatti mappe schematiche ispirate ai racconti biblici.
Sarà tuttavia il sionismo a imprimere una svolta importante agli studi geografici della Terra d’Israele: tra i primi cartografi che possiamo far rientrare in questo filone troviamo Eliezer ben Yehudah.
Nel 1833 scrisse un volume, “Sefer Eretz Israel”, in cui descriveva nei dettagli gli aspetti naturali, il clima, la flora e la Inoltre, nel 1919 vide la luce la carta “Repubblica della Terra d’Israele”.
Il 2 novembre di due anni prima aveva visto la luce la “dichiarazione Balfour”.
Si tratta di un documento ufficiale, anche se sotto forma di lettera, inviato dal ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord Rotschild,rappresentante della comunità ebraica e del movimento sionista, con il quale il governo britannico esprimeva la volontà di creare un
“focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, nel rispetto dei diritti civili e religiosi di tutti i residenti.
Al termine della Prima guerra mondiale la Gran Bretagna ottiene dalla Società delle Nazioni il “Mandato sulla Palestina” e subito riconosce la linea di demarcazione del 1906 quale confine tra la Palestina britannica e l’Egitto.
Nel 1921 stabilisce una suddivisione tra est e ovest, facendo così nascere nel 1922 la Transgiordania palestinese a est del fiume Giordano e della valle dell’Aravà.
Nonostante ancora nel 1925 la Commissione Permanente per i Mandati della Società delle Nazioni avesse ribadito che uno dei motivi per cui era stato conferito il Mandato per la Palestina era quello di “portare avanti i princìpi essenziali contenuti nel Mandato” e, quindi, anche la creazione di uno Stato ebraico, gli inglesi negli anni cruciali tra il 1937 e il 1947 imposero notevoli restrizioni all’immigrazione ebraica.
Tuttavia, nonostante la disillusione dovuta al “tradimento” inglese, nel 1947 i leader sionisti furono pronti ad accettare un’ulteriore spartizione territoriale di ciò che restava della Palestina mandataria: quella della Risoluzione 181 dell’Assemblea generale dell’Onu.
Mentre i leader ebrei accettano, la Lega araba rifiuta e – dopo iniziali scontri sul campo tra ebrei e arabi – gli eserciti di Siria, Libano,Transgiordania, Iraq ed Egitto scatenano una vera e propria guerra, a otto ore dalla nascita d’Israele il 14 maggio 1948.
Guerra con cui verrà di fatto sancita l’abolizione del piano di spartizione e la nascita di nuovi confini: l’Egitto conquista e occupa quella porzione di territorio che verrà successivamente chiamato Striscia di Gaza e lo mantiene sotto il suo controllo sino al 1967, mentre la Giordania conquista, occupa e annette la Cisgiordania e la parte orientale di Gerusalemme, compresa la Città Vecchia e il quartiere ebraico che, da quel momento e sempre sino al 1967, diventano luoghi inaccessibili agli ebrei.
In questi anni né Egitto né Giordania si preoccupano di favorire la nascita dello Stato palestinese sui territori da loro conquistati.
Le linee armistiziali derivanti dalla fine dei combattimenti vengono segnate sulla carta da un pennarello verde, da qui il nome di “lineaverde”.
Non si tratta pertanto di confini, ma di linee che demarcano il punto in cui si trovavano gli eserciti il giorno in cui è stato accettato il cessate il fuoco.
Linee che avrebbero dovuto essere temporanee, in attesa dei trattati di pace che le avrebbero modificate seguendo opportune considerazioni geografiche e le esigenze delle popolazioni locali.
Così, di guerra in guerra, di armistizio in armistizio, le linee di demarcazione tra i contendenti sono continuate a mutare nel corso degli anni.
In tutto ciò come hanno reagito i palestinesi?
Pur senza una forte leadership, gli arabi palestinesi avevano fatto sentire la loro voce all’interno della Lega araba, quando era stato deciso il rifiuto alla spartizione del territorio e, ancor prima del 1967 – momento a partire dal quale la Striscia di Gaza e la Cisgiordania passano sotto
amministrazione israeliana – i palestinesi avevano dato vita all’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) sotto la guida di Yasser Arafat, allo scopo di eliminare la presenza dello Stato d’Israele dall’area.
Soltanto a partire dal 1967 i palestinesi sembrano ritrovarsi attorno all’ideale di creare uno Stato palestinese indipendente, secondo le linee armistiziali del 1949.

*Queste noterelle sono debitrici di alcuni scritti di Daniela Santus, docente di Geografia culturale all’Università di Torino, pubblicati sul Foglio.

 

PROPOSTA AI PARTITI DI COSTITUIRE IL FRONTE ANTIFASCISTA GIACOMO MATTEOTTI PER LA TRIOLOGIA DELLA PACE:

  1. PACE NEL MONDO
  2. BENESSERE SOCIALE
  3. COMUNIONE DI TUTTI I POPOLI

 

 

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LA VERITA' SULLA FIAT E LA FAMIGLIA AGNELLI,  PERCHÉ QUELLA CHE FINORA E' STATA PRESENTATA NON E' LA VERITA':

  1. GABETTI, GRANDE STEVENS, DONNA MARELLA, MARCHIONNE E JAKY HANNO SFASCIATO TUTTO.

  2. L'AVVOCATO ED UMBERTO NON HANNO CAPITO I DANNI CHE POTEVANO CAUSARE ED HANNO CAUSATO GABETTI GRANDE STEVENS E DONNA MARELLA.

  3. GABETTI CON MARCHIONNE e DONNA MARELLA CON JAKY hanno danneggiato  la FIAT.

  4. GIANNI AGNELLI FREQUENTAVA BOBBIO , YAKY ELON MUSK.

  5. CARO YAKY GESU' AVEVA AUTOREVOLEZZA NON AUTORITA' ed il fatto che citi piu' spesso Marchionne che tuo nonno dimostra quanto poco avevate in comune.

 

LE LETTERE DI EDOARDO AGNELLI

BOSSI PRODI DE BENEDETI GIANNI AGNELLI SCALFARI 1 SCALFARI 2 PANELLA GIANNI AGNELLI 2

ORIGINALI CUSTODITI DALLA BIBLIOTECA DI SETTIMO TORINESE  LETTERA SETT.T

SE VUOI AVERE UNA COPIA  DELLE LETTERE DI EDOARDO AGNELLI  :

 https://1drv.ms/f/s!AlFGwCmLP76pgSdXDIwzmDgGSLkE

 

COMODATO EA COMODATO D'USO DI VILLA SOLE DOVE VIVEVA EDOARDO AGNELLI

DOCUMENTi SULLA DICEMBRE SOCIETA' SEMPLICE CHE CONTROLLA JUVE, FERRARI, STELLANTIS

 

DICEMBRE 2021

DICEMBRE 1984

 

RINVIO GIUDIZIO TRIBUNALE ROMA DI ANDREA AGNELLI 2024

RINVIO AA 24

 

 

il mio libro sui Piani INDUSTRIALI  FIAT.  OLIVETTI, PININFARINA, BUZZI...

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LA MIA TESI DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA SUL PROCESSO AL SENATORE AGNELLI  PER AGIOTAGGIO

CON SENTENZA NEL 1912

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VEDETE  COME LAVORA UIBM   CHE MI HA BLOCCATO OGNI ATTIVITA' MENTRE CON EUIPO RIESCO A LA LAVORARE NORMALMENTE  

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Presentazione del libro “JUVENTUS SEGRETA”, autore Gigi MONCALVO

Martedì 5 marzo, alle ore 18, nella Sala Musica del Circolo dei Lettori di Torino

VIDEO:

https://youtu.be/jfPFSm35_W0

ALTRI VIDEO SULL'OMICIDIO DI EDOARDO AGNELLI :

 

https://www.byoblu.com/2023/12/10/piazza-liberta-di-armando-manocchia-puntata-87/

https://youtu.be/_DJONMxixO8?si=rKoapPc2-8JtHha8

https://youtu.be/B05tTBK-w0E?si=O5XxvZFIr61tYU7w

https://www.youtube.com/watch?v=t0OrCSg1IZc

https://www.youtube.com/watch?v=Mhi-IY_dfr4

 

Dongfeng a TORINO : credo sia bipolare promuovere la produzione cinese a TORINO se si vuole mantenere anche quella della Fiat che invece appena arriveranno i cinesi scaricherà su di loro i lavoratori. 
Intanto Urso , che e' scappato quando gli ho chiesto perché dei cinesi , Cirio e Tronzano che da 1 anno non rispondono alla mia proposta di BMW e Toyota per fare entro il 2028 l'auto ad H2 e la rete H2, DIMENTICANO LA PRODUZIONE CINESE DEL COVID SU PROGETTO USA E CHE LA CINA E' ALLEATO DELLA RUSSIA NEI BRICS.

 

LA FIAT NON VOLEVA FARE LAVORARE GIUGIARO MA 

La Hyundai celebra il traguardo dei 100 milioni di veicoli prodotti con una cerimonia presso la fabbrica coreana di Ulsan. La Casa coreana, che solo nel 2013 ha festeggiato le 50 milioni di unità, ha ottenuto questo risultato in 57 anni di carriera, alcuni dei quali trascorsi prima di entrare nei principali mercati internazionali. La vettura numero 100.000.001 è una Ioniq 5, a testimonianza dell'impegno verso l'elettrificazione.

 

La Pony del 1975. La fabbrica di Ulsan è uno degli elementi chiave del successo della Hyundai: inaugurata nel 1968, ha dato il via alla vera crescita del marchio a partire dal 1975, quando è iniziata la produzione della prima generazione della Pony disegnata da Giorgetto Giugiaro. La Pony era la prima auto coreana prodotta in serie, non derivata da modelli esteri ed è stata celebrata dalla Hyundai nel 2023 con la rinascita della Concept Coupé del 1974.

 

 

 

08.11.24
  1. Il dramma nel Pinerolese, il ragazzino è ora ricoverato in gravi condizioni al Regina Margherita L'adolescente, che frequenta la terza media, ha lasciato un biglietto dove spiega il suo gesto
    Prende brutti voti a scuola a 13 anni si getta dalla finestra
    gianni giacomino
    Un 13enne residente nella zona del Pinerolese sta lottando per rimanere aggrappato alla vita in un lettino del reparto di rianimazione del Regina Margherita. L'altro pomeriggio si è gettato dal quarto piano del palazzo in cui abita. All'origine del suo gesto disperato ci sarebbero i brutti voti a scuola.
    L'adolescente, che frequenta la terza media, avrebbe lasciato un biglietto per i genitori sulla scrivania della sua cameretta dove spiegava, in poche righe, come all'origine della sua decisione ci sarebbe proprio il rendimento scolastico insufficiente.
    Ieri è già stato sottoposto ad un intervento chirurgico durato diverse ore nel quale gli ortopedici del Regina Margherita hanno stabilizzato le fratture che l'adolescente ha riportato in diverse parti del corpo. Al momento resta in prognosi riservata. Il quadro clinico resta molto complicato anche a causa di un trauma toracico e, solo nelle prossime ore, verrà rivalutata la situazione. Per fortuna sembra che il ragazzino non si sia procurato lesioni alla testa.
    L'allarme lo hanno lanciato alcuni passanti che, l'altra sera intorno alle 17,30, quando era già buio, hanno visto il ragazzino piombare nel vuoto da una decina di metri. L'impatto al suolo è stato devastante. «Ho avvertito il rumore di un tonfo - racconta un commerciante con l'attività proprio davanti alla palazzina dalla quale si i gettato lo studente - ho capito subito che era successo qualcosa di grave. Sono uscito e ho visto una scena davvero straziante. Speriamo che quel ragazzo ce la faccia».
    Pochi minuti più tardi lo studente è stato soccorso dai medici e dagli infermieri del 118 che lo hanno stabilizzato e poi lo hanno trasportato in ambulanza all'ospedale di Pinerolo. Da dove, qualche ora dopo, vista la gravità delle sue condizioni a causa dei traumi, è stato trasferito in elicottero al Regina Margherita.
    Sull'ennesimo tentativo di suicidio che vede protagonista un adolescente ora indagano i carabinieri della Compagnia di Pinerolo che, l'altro pomeriggio, sono intervenuti con diverse pattuglie del nucleo radiomobile. In queste ore gli investigatori stanno cercando di ricostruire cosa sia successo nelle ultime ore, o negli ultimi giorni, per spingere il ragazzo a un gesto così atroce. Forse il 13enne - che probabilmente era solo in casa - temeva di non arrivare preparato all'esame, forse un rimprovero di troppo, forse una pressione scolastica eccessiva.
  2. Militari corrotti, depistaggi, omertà "Il pescatore l'abbiamo sistemato"
    Romolo Ridosso Ex capo clan oggi pentito
    Annamaria Ferraiolo Giudice indagini preliminari
    Grazia Longo
    Roma
    Dalle 404 pagine dell'ordinanza non emerge l'esecutore materiale per la morte del sindaco-pescatore Angelo Vassallo. Ma il quadro è ugualmente inquietante perché si delinea il sospetto di carabinieri corrotti - in particolare il colonnello Fabio Cagnazzo, 54 anni - al punto da organizzare un delitto. E cosi se l'imprenditore Giuseppe Cipriano, 56 anni, è accusato, oltre che di concorso in omicidio, di aver gestito il traffico di droga ad Acciaroli, zona di movida nel Cilento, l'alto ufficiale dell'Arma è stato arrestato non solo per aver coperto quel traffico in cambio di mazzette, ma addirittura per aver contribuito anch'egli all'omicidio di Vassallo e per aver depistato le indagini.
    Oltre che a Cipriano e Cagnazzo sono finiti in carcere anche l'ex brigadiere dei carabinieri Lazzaro Cioffi, 62 anni, e Romolo Ridosso, 63 anni, ritenuto esponente del clan camorristico Ridosso-Loreto. E scorrendo l'ordinanza della gip del Tribunale di Salerno Annamaria Ferraiolo si legge come i quattro uomini fossero legati a doppio filo: «Nel corso dell'interrogatorio dell'8 giugno 2022 Romolo Ridosso riferiva che Giuseppe Cipriano affidava l'organizzazione dell'omicidio del sindaco Vassallo a Lazzaro Cioffi e alla "sua squadra", della quale faceva parte anche il colonnello Cagnazzo il quale, in particolare, avrebbe fornito copertura dopo il delitto».
    Ridosso assicura: «Giuseppe Cipriano è convinto e straconvinto che tutti i carabinieri che lui conosce, il maggiore Cagnazzo, Lazzaro Cioffi stavano dalla sua parte. Nel senso che lo coprivano e lo avrebbero coperto, che erano amici suoi». Alla domanda sul perché Cagnazzo copriva Cipriano, Ridosso spiega «perché si pigliava i soldi tramite Lazzaro. Cagnazzo era il primo personaggio, qualsiasi cosa si faceva si doveva riferire a Cagnazzo».
    In merito al delitto si scopre, poi, che Ridosso precisava di avere appreso direttamente da Giuseppe Cipriano della sua volontà di uccidere Vassallo. Ridosso a verbale dichiara: «Il 3 settembre 2010 durante l'ultimo viaggio Cipriamo mi disse chiaramente della sua volontà di uccidere il sindaco Vassallo. Mi disse che con Vassallo "se la sarebbe vista lui"». Si legge poi che Ridosso, secondo quanto riferito da Eugenio D'Atri, ex compagno di cella di Ridosso, aggiungeva «in maniera precisa e dettagliata di aver appreso che l'omicidio del sindaco era stato organizzato da alcuni carabinieri in particolare Lorenzo Cioffi e il colonnello Cagnazzo coinvolti in un'attività di traffico di stupefacenti che il sindaco aveva scoperto e intendeva denunciare».
    D'Atri riferisce che Ridosso sosteneva che «il delitto era stato organizzato da Cagnazzo nei minimi particolari, dalla fase esecutiva sino al depistaggio». Ridosso, sempre secondo quanto afferma D'Atri, definisce Cagnazzo «un dittatore capace di gestire i suoi uomini fidati. Per Cagnazzo era insopportabile che Vassallo denunciasse il traffico di droga, non solo nella prospettiva di una carcerazione ma per la perdita dell'onore».
    Molti sono, inoltre, i dettagli sull'attività di depistaggio che avrebbe messo in campo Cagnazzo: si era anche avvicinato alla famiglia della vittima che lo definiva «il nostro salvatore». Ma per gli inquirenti quel rapporto di amicizia instaurato dopo la tragedia, altro non era, che «un tassello di non trascurabile rilievo della sua attività di depistaggio». L'ufficiale dell'Arma avrebbe dirottato le indagini su uno spacciatore della zona, Bruno Humberto Damiani, incriminato e poi scagionato. Prima del delitto Ridosso, Cioffi e D'Atri sarebbero andati sul luogo del delitto per accertarsi che non ci fossero telecamere.
    Interessanti, poi, quei 23 minuti di buco nell'alibi del colonnello Cagnazzo che la sera del delitto si trovava ad Acciaroli. Era invitato al ristorante da alcuni amici ma si assentò per 23 minuti. Dai tabulati telefonici si scopre che alcuni dei suoi amici lo cercarono al cellulare per capire dove fosse. Scrive a proposito la gip: «A circa 4 metri dall'auto nella quale si trovava il cadavere di Vassallo veniva rinvenuta una sigaretta con il Dna di Cagnazzo». Il colonnello disse che in quei 23 minuti forse era andato a incontrare la figlia. Ma è stato smentito dall'ex moglie : «Quella sera io e mia figlia eravamo a Napoli».
    Sempre dall'ordinanza si evince, infine, la spietatezza in occasione dell'assassinio di Vassallo, noto come il sindaco-pescatore. «Pure il pescatore lo abbiamo messo a posto» sono le parole con cui Romolo Ridosso «salutò» la notizia dell'avvenuta uccisione del sindaco. Proprio a casa di Ridosso si sarebbe tenuto un incontro successivo all'omicidio, secondo quanto riferito agli investigatori dall'allora sua convivente, già testimone di giustizia, considerata attendibile dagli investigatori della Dda di Salerno che, per oltre un decennio, hanno cercato di far luce sull'omicidio.
    La donna racconta agli investigatori di un incontro tra Cioffi, Cipriano e Ridosso nell'abitazione di quest'ultimo a Lettere (Napoli). I due ospiti arrivano sul posto a bordo di un Suv nero e sono accolti da Ridosso, che intrattiene con loro una conversazione privata. Al suo rientro in casa, parlando a voce alta da solo, Ridosso afferma: «Pure il pescatore lo abbiamo messo a posto».
  3. Agenti perquisiti per associazione a delinquere, peculato e truffa: in orario di lavoro ristrutturavano case private usando i loro mezzi di servizio
    La doppia vita dei poliziotti imbianchini sette indagati al reparto mobile di via Veglia
    giuseppe legato
    caterina stamin
    Poliziotti sì e anche esperti. Con funzioni di ordine pubblico perché in forza a un reparto – il V° Mobile - deputato alla sicurezza dei cittadini nei grandi eventi e nelle manifestazioni. Ma anche giardinieri, artigiani, muratori e finanche imbianchini. Magari in orario di lavoro e con mezzi e strumenti che appartengono alla polizia utilizzati per fini privati. La doppia vita di sette agenti in forza alla caserma di via Veglia, al confine tra Torino e Grugliasco, è finita in un'inchiesta del pm Giovanni Caspani e dall'Aggiunto Enrica Gabetta che coordina il pool che indaga sui reati contro la pubblica amministrazione. Ieri mattina sono scattate – e durate fino al pomeriggio - le perquisizioni a casa degli indagati. Con accuse pesanti formalizzate in un decreto lungo tre pagine: associazione a delinquere finalizzata al peculato e alla truffa ai danni dell'amministrazione di appartenenza. E invasioni di edifici.
    Da settembre del 2022 e fino a pochi giorni fa dicevano di essere in servizio, ma – forse anche per arrotondare lo stipendio - andavano a lavorare per conto di privati (dietro pagamenti ovviamente non tracciati). Dopo mesi di articolate indagini gli investigatori della polizia giudiziaria (Polizia di Stato) in forza alla procura li hanno incastrati. Con video eloquenti girati durante appostamenti mentre a bordo di un Ducato e un Turbo Daily scaricavano detriti da ristrutturazioni edili finanche in locali di competenza del reparto Mobile come - ad esempio - l'ex falegnameria che non solo erano utilizzati indebitamente, ma anche chiusi a chiave rendendoli di fatto indisponibili alla polizia stessa. Erano dunque dei magazzini si apprende dagli investigatori.
    Dentro, erano custodite anche le attrezzature utilizzate per svolgere i cantieri presso privati procacciati grazie alle segnalazioni di amici e colleghi. Opere a volte importanti, altre di piccola manutenzione. Nelle carte dell'inchiesta sono finite così le foto di elettrodomestici tra cui frigoriferi, macerie da demolizione di interni, conferiti in diverse discariche per ingombranti e inerti gestite dall'Amiat in città. Tutto – secondo l'accusa – sarebbe avvenuto anche in orario di servizio. E da qui la contestazione degli inquirenti «di un ingiusto profitto - si legge nel titolo di reato notificato ai sette - pari all'importo lordo corrispondente allo stipendio e ai contributi pensionistici ottenuto grazie ad artifici e raggiri». Migliaia di euro secondo i primi conteggi. Al momento non sono noti eventuali provvedimenti di sospensione dal servizio che vanno comunque adottati dall'amministrazione di appartenenza che è comunque individuata dai pm come parte offesa, ma si apprende che sarebbero state loro ritirate le armi di servizio in via cautelare. Forse solo un primo passo.
  4. Carabiniera nasconde decine di denunce Il pm chiede un anno e mezzo di carcere
    Se si indossa la divisa da carabiniere, è lecito accumulare in un armadietto decine di denunce senza trasmettere le rispettive notizie di reato alla Procura? E si può invocare a propria discolpa la carenza di organico? Sono queste le domande a cui dovrà rispondere il Tribunale di Torino nel processo a carico di Roberta D'Ambrosio, carabiniera fino al 2021 in servizio presso la caserma di Chieri. Il pm Paolo Toso l'accusa di rifiuto di atti d'ufficio per aver lasciato per anni un plico con decine di verbali di denuncia dentro un armadietto. A ritrovarli, nel 2022, è stato un militare che ne ha preso possesso dopo che la collega era andata a lavorare altrove.
    L'imputata (difesa dall'avvocato Roberto Beretta) avrebbe riferito che quelle custodite nell'armadietto erano pratiche vecchie da archiviare. In realtà per il pm, che ieri ha chiesto 1 anno e mezzo, dovevano essere trasmessi «senza ritardo».l.lop
  5. Pene fino a 8 anni per gli imputati che avevano preso il controllo della cooperativa Liberamensa
    'Ndrangheta nel bar del Tribunale Condannati boss e colletti bianchi

    ludovica lopetti
    Si è concluso con sette condanne e un'assoluzione in primo grado il filone con rito abbreviato del processo nato dall'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia che ha scoperto gli interessi della ‘ndrangheta nella gestione del bar del Palazzo di Giustizia. I pm Francesco Saverio Pelosi e Paolo Toso hanno ricostruito la ragnatela che ha permesso a Rocco Pronestì, Rocco Cambrea e Crescenzo D'Alterio di acquisire il controllo della cooperativa Liberamensa, che si era aggiudicata l'appalto del Comune per gestire la caffetteria anche impiegando detenuti nello staff. Il primo è uno storico appartenente alla criminalità organizzata del Piemonte e da anni legato ai maggiori esponenti della 'ndrangheta locale, il secondo è già stato condannato in via definitiva per 416 bis, il terzo è considerato uomo molto vicino a Pronestì. Ieri il gup ha inflitto 8 anni e 5 mesi a quest'ultimo, 7 anni a Cambrea e 6 anni e 2 mesi a D'Alterio. Gli imputati (difesi tra gli altri da Rocco Femia e Stefano Castrale) rispondevano a vario titolo di usura, estorsione, associazione mafiosa, trasferimento fraudolento di valori e intestazione fittizia di beni. Silvana Perrone, ex presidente del cda di Liberamensa, è stata condannata a 10 mesi e 20 giorni per trasferimento fraudolento di valori, mentre è caduta l'aggravante di aver agevolato la mafia. Al commercialista Gianmaria Gallarato sono stati inflitti 13 mesi: per la Procura con la sua expertise ha aiutato Pronestì, Cambrea e D'Alterio a eludere le misure di prevenzione che impedivano loro di possedere imprese e quote societarie. Il gup ha condannato anche due soggetti indicati come "teste di legno" dagli investigatori: Raffaele Macchia, coinvolto anche in episodi di estorsione (5 anni e 10 mesi), e Mauro Amoroso (10 mesi e 20 giorni).
    Nelle carte si parla di appalti e colletti bianchi, ma anche di prestiti a usura ed estorsioni messe a segno con i metodi "classici" come minacce, pressioni e intimidazioni. Nell'ambito dell'inchiesta, a luglio 2023, gli investigatori hanno messo i sigilli al bar interno al Palagiustizia e nel registro degli indagati è finita anche Silvana Perrone, ex presidente del cda della coop liquidata dopo il Covid: subentrata nella compagine societaria durante il pre-dissesto, a settembre 2020 ha concertato con D'Alterio il subentro di due prestanome nel cda. In seguito, secondo gli inquirenti, D'Alterio sarebbe rimasto "il regista occulto" e avrebbe usato la coop per offrire lavoro a persone vicine alle ‘ndrine, all'occorrenza. Il controllo era talmente saldo da far dire a Pronestì, intercettato: «È società nostra». Per questo la "signora dei migranti" doveva rispondere di un aggravante mafiosa non riconosciuta al momento dai giudici di primo grado.

 

 

07.11.24
  1. MUSK IL CAPO DI TRUMP:   Quando Giorgia Meloni arriva nello stadio di Budapest l'operazione per ricollocare l'Italia dopo la vittoria di Donald Trump è già ampiamente in atto. La premier non si è schierata apertamente con il nuovo presidente durante la campagna elettorale e ha chiarissimi i rischi della transizione dei poteri. Ma con i suoi collaboratori, arrivando al vertice della Comunità politica europea ospitato dall'eurotrumpiano Viktor Orban, crede che l'equilibrio mostrato in questi mesi abbia pagato, come dimostra la telefonata con Trump di mercoledì sera. Politico, la testata più letta a Bruxelles, lo dice chiaramente: Meloni e Orban sono i «veri vincitori delle elezioni americane». Così, ora si tratta di gestire questa fase. Se il leader ungherese non maschera l'entusiasmo e racconta dei suoi brindisi con la vodka per festeggiare il trionfo dell'alleato americano, la presidente del Consiglio italiana resta più coperta, ma con una certa convinzione di poter aprire una fase nuova. Il paragone con la situazione dei governi dei principali Paesi Ue giustifica questo ottimismo, Francia, Germania e Spagna, per motivi diversi vivono momenti complessi.
    Dopodiché, spiegano fonti di governo, l'Italia soprattutto sulle politiche commerciali, i temutissimi dazi, sarebbe pronta ad aprire negoziati bilaterali con Washington. Scenari ancora prematuri, perché l'imprevedibilità di Trump non consente fughe in avanti. Nella cena al Parlamento ungherese sul Danubio che chiude la giornata, la premier consegna un messaggio ai partner europei: «Non bisogna avere paura di Trump». Secondo Meloni, infatti, in questa fase l'Ue deve pensare alla sua autonomia strategica, senza aspettare con panico le probabili azioni ostili della nuova amministrazione Usa. E oggi a Budapest la premier si troverà accanto il suo predecessore Mario Draghi, che discuterà con i leader dei 27 gli obiettivi del futuro dell'Unione europea, contenuti nel suo rapporto. Draghi e Meloni oggi parleranno con la stampa praticamente in contemporanea. La coincidenza ha suscitato qualche malizia: la prima convocazione arrivata ai giornalisti è quella dell'ex presidente della Bce, «poco prima delle 10». Passano meno di dieci minuti e Palazzo Chigi annuncia le dichiarazioni della premier «alle 9.30».
    I movimenti post elezioni iniziano quasi all'alba: prima delle otto del mattino la premier, non senza enfasi, comunica sui propri profili social di aver avuto una conversazione con Elon Musk. Di per sé non è una novità, il magnate è un interlocutore ormai fisso della presidente del Consiglio, ma dopo il 4 novembre, questo colloquio assume un'altra dimensione. Tanto più che il magnate non tenero con gli altri europei, e ieri in un tweet ha definito Scholz uno «stupido». «Sono convinta – scrive la presidente del Consiglio nel post – che il suo impegno e la sua visione potranno rappresentare un'importante risorsa per gli Stati Uniti e per l'Italia, in uno spirito di collaborazione volto ad affrontare le sfide future». Musk, ormai in maniera plastica è, fra le varie cose, l'azionista di maggioranza della Casa Bianca e non si può più prescindere da questo aspetto. Meloni in questa fase è attenta a non mischiare i piani, c'è l'aspetto tecnologico e degli investimenti e quello direttamente politico, «la telefonata con Elon non c'entra con la strategia della politica estera», spiega parlando con i suoi alleati. Eppure è proprio dal mondo di Musk che si creano delle connessioni: «L'Italia può e deve ritagliarsi un ruolo da protagonista nei settori del futuro – dice Andrea Stroppa, il braccio destro del proprietario di X -. Diventare il partner europeo privilegiato deve essere l'obiettivo». Parole chiare, che si presentano però a una doppia lettura. La politica c'è ma resta sullo sfondo. Negli ultimi mesi ci sono state trattative fra il governo e Tesla per la produzione in Italia di camion e furgoni elettrici. Nel governo c'è, poi, la speranza concreta che si concluda presto l'accordo con Starlink, la costellazione di satelliti di SpaceX per fornire servizi internet a banda larga nelle aree scarsamente servite da altre reti. Un appalto finito al centro di un'inchiesta per corruzione in cui è spuntato il nome dello stesso Stroppa.
    A Budapest, è inevitabile, si è parlato anche di migranti. Orban che si vanta di essere «l'unico leader sopravvissuto» all'ondata di profughi del 2015 manda un assist a Meloni. Secondo il premier ungherese per affrontare l'immigrazione irregolare bisogna «uscire dalla trappola costituita dall'attivismo dei giudici». E nell'argomentare Orban aggiunge: «È la stessa situazione che si sta verificando in Italia: i governi prendono decisioni, poi una Corte a livello europeo decide negativamente». Accanto a lui annuisce Edi Rama, il capo del governo albanese che ospita i centri per migranti.
  2. Guerra in libano
    Quattro soldati dell'Unifil feriti in un raid

    Un raid israeliano vicino alla città di Sidone ha colpito un autobus e ha provocato la morte di tre persone, oltre al ferimento di tre soldati libanesi e quattro membri del contingente di peacekeeping delle Nazioni Unite. In una fotografia l'autobus con i contrassegni dell'Unifil appare con il vetro alla guida crivellato di colpi. Secondo quanto riferito dall'esercito libanese, l'attacco aereo è stato compiuto da Israele nei pressi di un posto di blocco all'altezza del fiume Awwali. I quattro caschi blu feriti sono malesi. L'Unifil ha precisato che i peacekeeper sono stati curati sul posto. Nelle scorse settimane gli avamposti dell'Unifil sono stati colpiti più volte dai raid israeliani e da razzi di Hezbollah finiti fuori bersaglio. —

 

 

06.11.24
  1. critiche da calenda
    Maserati, Tavares a Modena. Fiom: il governo ci aiuti
    Il ceo di Stellantis, Carlos Tavares, ha visitato ieri la Maserati a Modena con il nuovo ceo del Tridente, Santo Ficili, il management team e i sindacati. L'obiettivo dell'incontro, spiega Stellantis, è sviluppare una crescita redditizia per l'unico marchio di lusso del gruppo. Davanti ai cancelli si è presentato anche il leader di Azione Carlo Calenda, che ha polemizzato con Tavares che non ha potuto incontrarlo. «Siamo spiacenti di non aver potuto accogliere il senatore a causa di vincoli di agenda» spiega Daniela Poggio (Stellantis Italia) sottolineando che «saremmo lieti di ospitarlo, trovando insieme la data migliore». Critici i sindacati. Per la Fiom «non ci sono risposte, intervenga il governo». E la Fim conclude: «Va rilanciata con nuovi modelli». —
  2. Poirino, protestano i dipendenti di Denso e Teksid: "È uno scandalo: paghiamo per un servizio che non ci viene dato"
    L'autobus non va a prendere gli operai "Lasciati di notte davanti alla fabbrica"
    erika nicchiosini
    A piedi dopo il turno di lavoro. Costretti, quando possibile, a chiedere passaggi a colleghi o colleghe o ricorrere ad un parente per tornare a casa. Un problema che si è ripetuto in alcune occasioni nelle ultime settimane per gli operai della Denso di Poirino e la Teksid di Carmagnola, che utilizano i mezzi pubblici di «Chiesa Viaggi» per raggiungere il posto di lavoro.
    Un drappello di persone - «variamo dai 3 ai 5 agli 11 lavoratori a turnare al pomeriggio» raccontano - utilizzano il bus che percorre la tratta Carmagnola-Poirino. «Paghiamo regolarmente un abbonamento settimanale di 13,50 euro, in parte coperto dall'Agenzia per la Mobilità, ciò nonostante in alcune occasioni non ci è stato fornito il mezzo per tornare a casa – sostengono i lavoratori, soprattutto donne - Succede soprattutto con il turno del pomeriggio che termina alle 22. La scorsa settimana, mercoledì, quando una collega ha scoperto di essere rimasta a piedi, abbiamo chiesto agli impiegati in guardiola e anche provato a telefonare in azienda per chiedere spiegazioni, ma ci è stato detto che per poche persone il pullman non si muove».
    Il problema è diventato più pressante da quando la Denso di Poirino, specializzata nella produzione di sistemi di condizionamento per automobili, ha annunciato la cassa integrazione. «Ma alcuni episodi si sono verificati già prima delle ferie estive, e in un'occasione anche al termine del turno del mattino, alle 14 – ripercorrono -. Per noi avere un mezzo che ci aspetta a fine turno è indispensabile perché alcuni di noi non hanno l'auto o semplicemente serve ai familiari. Non viaggiamo in bus per divertimento, ma per andare a lavorare».
    I pullman che servono i lavoratori impiegati nelle aziende, sono due, spiegano ancora le lavoratrici, «uno messo a disposizione dalla Denso e che percorre la tratta Carignano, La Loggia e Vinovo e quella che utilizziamo noi. Purtroppo con la cassa integrazione i turni di molti sono stati spostati al mattino, ma per esigenze di lavoro l'azienda può chiedere di fare anche il pomeriggio. Siamo in pochi. Alcuni hanno rinunciato a prendere il bus e cominciato a organizzarsi diversamente. Ma chi resta cosa deve fare?». Cosa chiedete? «Rassicurazioni sul servizio».
    La Chiesa Viaggi, a Carmagnola, è un'istituzione e non si occupa solo di trasporto pubblico locale, ma anche di noleggio autobus e gran turismo. I titolari, non ci stanno: «Abbiamo avuto un colloquio con l'Agenzia della mobilità, che contribuisce al servizio, dove abbiamo rappresentato le difficoltà che come ditta stiamo affrontando. Chiederemo un incontro alla Denso, per chiedere la rimodulazione dei turni di cassa integrazione spostandoli preferibilmente al mattino. Così che sia più semplice anche per noi garantire un servizio che è costoso. La mia è una ditta con 60 anni di esperienza, faccio questo tipo di trasporto da 25. Sì, è successo due volte di aver lasciato la persona a piedi al termine del turno pomeridiano, ma era comunque stata avvisata per via telefonica, ma come posso spostare un pullman e un autista, che sono già pochi, per una sola persona? Viviamo di abbonamenti, siamo in crisi anche noi».
  3. TRUFFA ALLO STATO DI 6,7 MILIONI, GDF IN BANCA PROGETTO


    (ANSA) - Per un prestito di 6,7 milioni di fondi garantiti dallo Stato ottenuti da Banca Progetto tramite documentazione falsa sono in corso tre misure cautelari, di cui due arresti, in una indagine della procura di Brescia, parallela ad una della procura di Monza per la quale anche sono in corso di esecuzione provvedimenti, tra cui misure cautelari.



    Tra le accuse contestate ci sono la truffa aggravata, la bancarotta e l'autoriciclaggio. Inoltre la Gdf sta effettuando una serie di perquisizioni, anche nella sede della banca indagata, dove sta acquisendo i modelli organizzativi in base alle legge sulla responsabilità amministrativa degli enti.



    TRUFFA ALLO STATO, ARRESTATO IL FRATELLO DI UN PM ANTIMAFIA4

    (ANSA) - Il promotore finanziario che lavorava per conto di Banca progetto arrestato a Brescia nell'ambito di un'inchiesta per truffa è Marco Savio, fratello del magistrato della direzione nazionale antimafia Paolo Savio. Quest'ultimo è completamente estraneo alle indagini. Ai domiciliari anche il braccio destro del promotore finanziario, Diego Galli, 56 anni, mentre è stato disposto l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria nei confronti di Federica Burzio, 34enne ritenuta dagli inquirenti la factotum del gruppo.



    BANCA PROGETTO, SIAMO PARTE LESA NELL'INDAGINE PM BRESCIA

    ISTITUTO CONFERMA LA VOLONTÀ DI COLLABORARE CON I MAGISTRATI

    (ANSA) - Banca Progetto Spa, in relazione a notizie di stampa diffuse in data odierna relative a indagini della Guardia di Finanza di Brescia precisa di essere parte lesa nella vicenda" e dunque di non essere indagata. Lo precisa in una nota l'Istituto in merito all'indagine della procura di Brescia. "La Banca - prosegue la nota - conferma la propria volontà di collaborare con la GDF e le autorità competenti" e "si riserva di assumere ogni più opportuna iniziativa, anche in relazione alla diffusione di notizie false e diffamatorie per i danni che potrebbero arrecare all'Istituto

 

 

 

 

 

05.11.24
  1. come funziona la macchina elettorale
    1
    Il voto indiretto per scegliere presidente e vice
    2
    I grandi elettori e il meccanismo distorsivo
    Gli Swing States saranno l'ago della bilancia
    3
    Gli statunitensi non eleggono direttamente presidente e vice, ma scelgono i cosiddetti grandi elettori. Nel Paese vige infatti il sistema del collegio elettorale: gli elettori eleggono a livello statale i grandi elettori, i quali a loro volta si riuniscono nel Collegio elettorale che elegge il presidente e il vicepresidente. I grandi elettori sono eletti su base statale e il loro numero è 538, pari alla somma dei senatori (100, due per ogni Stato), dei deputati (435, assegnati proporzionalmente al numero di abitanti) e dei 3 rappresentanti del Distretto di Columbia, in cui si trova la capitale Washington. Il ticket (presidente e vice) vincente in uno Stato ottiene tutti i voti di quello Stato, tranne in Maine e in Nebraska, dove la distribuzione è proporzionale. —
  2. 'analisi
    L'errore fatale di uno Stato che libera i boss della mafia
    palermo
    Sono trascorsi più di trent'anni dalla terribile stagione delle stragi di mafia che misero in ginocchio l'Italia e resero fragile la nostra giovane democrazia. Una ferita profonda, tanto violenta da far temere addirittura per la tenuta del Paese che, però, resse l'urto soprattutto grazie alla decisa reazione delle istituzioni che impiegarono le migliori risorse per fermare lo strapotere mafioso. Lo Stato si dimostrò all'altezza e, per una volta, usò la forza necessaria per combattere un nemico mostruoso in passato galvanizzato da sottovalutazioni e inerzie istituzionali. Cosa nostra, insomma, fu "normalizzata" fino a diventare debole come raramente la si era vista. I boss furono strappati alle loro latitanze dorate, molti beni illegali finirono nelle casse dello Stato, picciotti e boss impararono a conoscere il carcere senza gli sconti e la benevolenza in passato riservati ai mammasantissima abituati a vivere in cella come al Grand'Hotel.
    A quel punto magistrati come Falcone e Borsellino avrebbero consigliato di insistere nel ridimensionare ulteriormente l'associazione mafiosa, anche per non cadere nel fatale e ricorrente errore di far riprendere fiato al mostro. La storia passata lo ha dimostrato: Cosa nostra non muore facilmente ed è capace di una ripresa rapida e incontrollabile.
    E invece il "fatale errore" si ripresenta: una controproducente ricerca di "ritorno alla normalità" (dopo anni di fruttuosa emergenza) induce l'apparato repressivo a seguire le sirene di una politica poco attenta. Così accade quello che in passato si è sempre dimostrato un "regalo" alla mafia: abbassare la guardia e guardare alle organizzazioni criminali come a fenomeni "normali".
    Ed ecco le recenti scarcerazioni di boss e gregari di Cosa nostra, alcuni stragisti con condanne definitive, anche ergastolani, oggi liberi, o semiliberi o gratificati con permessi speciali, per aver usufruito dei benefici riservati a "detenuti modello". Altri tornati fuori dalle sbarre per decorrenza dei termini o, comunque, per "inadempienza della giustizia" qual è, per esempio, il ritardo nel redigere le motivazioni delle sentenze, senza le quali viene meno una delle possibilità di ricorso degli imputati.
    Ma entrambi i motivi di questo allentamento delle difese istituzionali sono spie di un atteggiamento pericoloso da parte della macchina preposta alla repressione mafiosa, perché tradiscono una sottovalutazione del fenomeno. La presenza di agguerrite organizzazioni criminali in una vastissima porzione di territorio nazionale dovrebbe far riflettere sulla scelta di adoperare strumenti giuridici condivisibili per "normali realtà criminali". Il recupero del detenuto, per esempio, è obiettivo che nessuna persona ragionevole potrebbe mettere in dubbio se vivessimo, specialmente al Sud, una normale dialettica tra bene e male. Ma cosa c'è stato di normale nella tragica nostra recente storia?
    Sappiamo che il carcere è uno dei temi cruciali dell'essenza mafiosa. Dice un vecchio adagio siciliano che "L'uomo d'onore è nato per soffrire" e dunque mette nel conto un po' di anni di carcere. Tre, quattro, anche di più, ma non il carcere vero. Quello no, quello devono farlo i poveracci, i boss sanno di avere quasi diritto a un trattamento più docile. Così funzionava prima: Masino Buscetta, prima di pentirsi, scontava la sua pena nell'infermeria del carcere dell'Ucciardone. E quando decise di evadere cosa fece? Convinse i giudici di sorveglianza di essere un "altro uomo" rispetto alla persona di prima, detenuto modello lo era e dunque ottenne la semilibertà. Ovviamente dalla semilibertà passò alla libertà totale in latitanza, in Brasile. I vari Galatolo, Alfano, Pullarà, assassini e stragisti come quel Formoso condannato per la strage di Milano e oggi semilibero, sono redenti? Nessuno di loro ha mai dato prova di conversione visto che durante gli interrogatori non hanno aperto bocca se non per declinare nome e cognome e basta. Ma sono detenuti modello. Giusto, sopportano il carcere, proprio come deve fare ogni uomo d'onore degno di questo nome. Il saper stare agli arresti non sempre è sintomo di cambiamento, qualche volta addirittura potrebbe essere affermazione di mafiosità. Chiedetelo a chi sta rinchiuso da decenni senza mai essere sfiorato dal dubbio di poter collaborare con lo Stato. —

 

 

 

04.11.24
  1. Caterina Soffici
    Iran, la studentessa sfida la polizia morale Protesta senza vestiti dopo un'aggressione
    Quando il corpo diventa uno strumento di protesta. E un'immagine diventa un simbolo di libertà. Per ricordare al mondo che le giovani donne iraniane lottano ancora ogni giorno per i propri diritti e vengono picchiate e muoiono in carcere. Nel silenzio più o meno generale, perché si preferisce parlare di missili e di guerra, scordandoci spesso che parlare di Iran e di regime vuol dire anche questo. Infatti è accaduto ancora, a Teheran. Dove una studentessa dell'Università islamica Azad è rimasta in mutande e reggiseno dopo essere stata aggredita dalla polizia morale per aver indossato il velo in modo inappropriato. Lei in biancheria intima e intorno donne avvolte da vesti e veli neri, un contrasto poderoso.
    La storia si ripete e sembra di essere in un giorno della marmotta, dove ogni mattina le donne iraniane si svegliano e tutto ricomincia come il giorno precedente. Abbiamo iniziato a raccontare di Masha Amini due anni fa, la ragazza uccisa per aver indossato male il velo che ha dato il via al movimento Donna Vita Libertà. Poi abbiamo raccontato di donne che bruciavano il velo, di ragazze che cantavano e ballavano, di donne che mostravano i capelli e che li tagliavano, sempre in segno di protesta. Mai avremmo pensato di vedere una ragazza in biancheria intima in un luogo pubblico iraniano.
    È accaduto sabato e la notizia sta rimbalzando sui social di tutto il mondo. Quella immagine è ormai un'icona. Capelli neri lunghi, scalza, mutande a righe e reggiseno fucsia: questa ragazza mette il suo corpo al servizio delle sue idee. Come fece quello studente cinese che da solo, con le borse della spesa, si pose in piedi di fronte alla colonna dei carri armati in Piazza Tiananmen. Il corpo come strumento, come la Libertà di Delacroix, che a seno nudo guida il popolo rivoluzionario. Il corpo nudo, come le Femen ucraine che si spogliavano per protestare contro ogni tipo di discriminazione del corpo femminile.
    La ragazza è stata subito arrestata. E il direttore delle relazioni pubbliche dell'università Amir Mahjoub ha scritto su X: «A seguito di un atto indecente da parte di una studentessa dell'università, la sicurezza del campus è intervenuta e l'ha consegnata alle autorità di polizia. Il movente e le ragioni sono attualmente sotto inchiesta».
    Questa la verità ufficiale. Che in Iran non coincide mai con l'altra verità, quella di chi combatte per la libertà. La prendiamo da Masih Alinejad, l'attivista iraniana minacciata dal regime che vive in esilio a New York. Sui social racconta: «Una studentessa molestata dalla polizia morale della sua università per il suo hijab "improprio" non si è tirata indietro. Ha trasformato il suo corpo in una protesta, spogliandosi fino alla biancheria intima e marciando per il campus, sfidando un regime che controlla costantemente il corpo delle donne. Il suo gesto è un potente promemoria della lotta delle donne iraniane per la libertà. Sì, usiamo i nostri corpi come armi per combattere un regime che uccide le donne per aver mostrato i capelli. Il fatto è accaduto all'Università di Scienze e Ricerca di Teheran». In un aggiornamento spiega poi che le autorità iraniane sostengono che la giovane donna soffre di una malattia psicologica ed è stata ricoverata in un ospedale psichiatrico.
    Sempre dai social di Alinejad, perseguitata dal 2009, che guida un movimento per combattere contro l'obbligo del velo: «L'accusa di instabilità mentale è una tattica familiare della Repubblica islamica. Nel 2014, quando ho lanciato la campagna My Stealthy Freedom contro l'hijab obbligatorio, il regime ha usato bugie simili contro di me, sostenendo che ho avuto un esaurimento mentale, mi sono spogliata nella metropolitana di Londra e sono stata violentata da tre uomini. Questo è il modo in cui cercano di indebolire chi si oppone alla loro oppressione».
    Il racconto di una studentessa, che ha assistito all'intero incidente, contraddice totalmente la narrazione del regime: «Sabato 2 novembre abbiamo visto le forze di sicurezza dell'università e le milizie morali cercare di trascinare con la forza una studentessa nella sala di sicurezza, con il pretesto che non indossava un hijab adeguato. La studentessa ha opposto resistenza e nella colluttazione le è stata strappata la felpa, lasciandola con solo gli indumenti intimi. Choccati, gli agenti di sicurezza l'hanno lasciata andare, dopodiché, in un momento di rabbia, si è tolta i pantaloni e li ha lanciati contro gli agenti». L'ennesima donna che rischia la vita in prima persona con un coraggio non misurabile in una scala realmente comprensibile nel nostro Occidente, dove la democrazia e la libertà sono date per scontate. —
  2. L'omicidio nella città di Sfax, i testimoni dell'aggressione: "È stata un'esecuzione. Sarebbe questo un Paese sicuro?"
    Mohannad, il giovane attivista ucciso in Tunisia "Punito perché si batteva per i diritti dei rifugiati"
    Eleonora Camilli
    Mohannad Saad Adam aveva 19 anni e un sogno: arrivare in Europa. Più volte ci aveva provato, tentando la traversata via mare, prima dalla Libia poi dalla Tunisia. Ogni volta era stato rimandato indietro, in quell'inferno da cui scappava e in cui ha trovato la morte. Di lui restano solo due foto, la prima, in cui accenna un sorriso, è un selfie spedito alla famiglia, per dire che, anche se con difficoltà, la sua vita a Sfax stava andando avanti. E che a lasciare il paese ci avrebbe provato di nuovo, perché quello era l'unico modo per salvarsi. La seconda, l'ultima, lo ritrae con la stessa maglietta azzurra del primo scatto, macchiata però dal sangue delle ferite. È accasciato a terra, gli amici lo scuotono per rianimarlo, ma non c'è più nulla da fare. Colpito a morte.
    «Era un attivista che si batteva per i diritti dei migranti, lo ha fatto fino alla fine. È morto perché difendeva ciò che è giusto- sottolinea David Yambio, presidente di Refugees in Libya, che per primo ha denunciato il caso avvenuto una settimana fa-. Ho conosciuto Mohannad nel 2021 in Libia, era poco più di un ragazzino. Insieme abbiamo partecipato alle proteste davanti alla sede dell'Unhcr in Libia, poi lui è stato arrestato e detenuto nel lager di Ain Zara». Nel 2023 Mohannad si era poi spostato in Tunisia, dove aveva continuato a denunciare la mancanza di tutela per migranti e rifugiati. Le modalità del suo decesso non sono ancora chiare, ma gli amici che erano con lui raccontano che si è trattato di un'esecuzione. «Un gruppo di sudanesi si era avvicinato a una fattoria per lavarsi la faccia - racconta Yambio -. A quel punto un uomo è uscito di casa urlando frasi razziste e di andarsene, cosa che hanno fatto, mentre lui sparava prima in aria e poi sulla folla. Una persona è rimasta gravemente ferita. Così Muhannad è tornato sul posto a chiedere spiegazioni e lo hanno ucciso a colpi di arma da fuoco». Ma per il presidente di Refugees in Lybia la sua morte non è un caso isolato: «La Tunisia è un paese molto pericoloso per i migranti. Ogni giorno ci sono persone che vengono percosse o minacciate. Il razzismo è generalizzato, i migranti specialmente i neri sono tagliati fuori da qualsiasi forma di welfare, perfino affittare una casa è difficilissimo. Come si fa a considerarlo un Paese sicuro?».
    Anche per l'ong Mediterranea saving humans, Mohannad «aveva sempre continuato a lottare per la giustizia, a costruire solidarietà con tutte le altre persone oppresse. Ed è stato assassinato in circostanze misteriose. In quella Tunisia a cui i nostri governi vogliono affidare il contenimento dei migranti».
    Il caso dell'attivista sudanese ucciso riapre le polemiche sul governo di Kais Saied, sul trattamento riservato ai subsahariani e sull'accordo con l'Italia. Anche in vista dei nuovi trasferimenti di migranti in Albania e di possibili rimpatri. «La Tunisia oggi non è un Paese sicuro neanche per gli stessi tunisini, Saied ha portato a una continua erosione dei diritti fondamentali, come la libertà di espressione. Gli oppositori politici sono oggi in carcere - sottolinea Sara Prestianni di EuroMed Rights - E poi c'è un clima di terrore che riguarda anche i migranti subsahariani». Prestianni ricorda il caso di Sonia Dahamani, avvocata e giornalista reclusa per aver criticato la gestione dell'immigrazione e il problema del razzismo diffuso nel paese. «La violenza legittimata dai discorsi d'odio è solo una delle tante espressioni della deriva democratica che caratterizza il paese, che non può essere considerato sicuro. Ci sono anche delle sentenze che lo confermano».

 

 

03.11.24
  1. 'inchiesta di milano sul dossieraggio di equalize
    "Abbiamo clienti top, contatti con i servizi" Giallo sui legami con gli 007 di Palazzo Chigi
    Milano
    «Noi abbiamo la fortuna di avere clienti Top in Italia... i nostri clienti importanti... contatti tra i servizi deviati e i servizi segreti seri ce li abbiamo, di quelli lì ti puoi fidare un po'di meno... però, li sentiamo, fanno chiacchiere, sono tutte una serie di informazioni ma dovrebbero diventare prove». A parlare, intercettato dai carabinieri, è l'esperto informatico Samuele Calamucci, braccio destro operativo dell'ex poliziotto Carmine Gallo, entrambi agli arresti domiciliari dal 25 ottobre.
    Se siano veritieri o solamente millantati i rapporti dell'agenzia d'investigazioni Equalize, in cui entrambi lavoravano, con l'intelligence italiana difficile a dirsi. A suffragare il primo scenario ci sarebbe, almeno, un incontro avvenuto negli uffici del gruppo di via Pattari il 4 ottobre 2022.
    I carabinieri del nucleo investigativo di Varese intercettano la conversazione tra Gallo e gli agenti segreti. Il contenuto non viene, però, trascritto negli atti d'inchiesta depositati alla Dda di Milano e alla Procura nazione antimafia, ma solo sintetizzato: «Gallo spiega che tipo di servizi offrono e che tipo di accertamenti e consultazioni riescono a fare…vanta il fatto che rispetto ai loro sistemi, lo Sdi non è nulla». Per accreditarsi agli occhi dei presunti funzionari del Dis della Presidenza del Consiglio – annotano sempre gli investigatori dell'Arma – «alle ore 17:17 Gallo mostra con ogni probabilità un telefono agli interlocutori, spiegando trattarsi di un telefono fuori rete che non utilizza sistemi di messaggistica quali WhatsApp e Signal in quanto non sicuri». Per chi indaga si tratterebbe di un «cripto-fonino con tecnologia israeliana».
  2. SANTO PADRE PAPA FRANCESCO PERCHE' NON PARLA MAI DI :    Ancora un giovane assassinato in provincia di Napoli: aveva 19 anni, era una promessa del calcio . Il killer postava foto in cui mimava una pistola
    Santo, ucciso in strada da un diciassettenne " Un piede pestato ed è scoppiata la rissa"
    ANTONIO E. PIEDIMONTE
    napoli
    La mattanza dei giovani. Copioni simili, protagonisti differenti, un filo conduttore: a sparare e a morire sono sempre ragazzi. Ieri è toccato a una promessa del calcio, Santo Romano, 19 anni, che ha pagato con la vita la voglia di trascorrere una serata con gli amici nella piccola movida di San Sebastiano al Vesuvio. Una storia già sentita. Nella piazza ancora affollata qualcuno sale involontariamente sul piede di un altro e gli sporca la scarpa. Le scuse non servono, anzi. Scoppia la lite. Il giovane accorre per difendere un amico e compagno di squadra, cerca di separare i contendenti, stemperare il clima. Mezz'ora dopo lo scontro, da una minicar con targa polacca scende un ragazzino che spara con una pistola. Il 19enne, colpito al petto, morirà in ospedale. L'amico è ferito ma non gravemente. Il resto è paura, sangue, e un attonito silenzio rotto dallo strazio composto della fidanzata, Simona, che poi dirà ai cronisti: «È morto per difendere un amico. Santo era un generoso, e una persona perbene, figlio di persone per bene. Avrebbe fatto grandi cose…».
    Dopo una notte di indagini i carabinieri hanno individuato un 17enne che vive nel quartiere napoletano di Barra, già noto alle forze dell'ordine. Le foto sui social ne immortalano i desideri. E non solo: la Procura per i minori ha annunciato accertamenti su alcuni post pubblicati subito dopo l'omicidio. Il presunto omicida è sdraiato assieme a un amico, entrambi fanno il gesto della pistola.
    Sotto choc il mondo dello sport. «Un ragazzo buono da esempio per tutti. È stato un onore averti nella nostra famiglia. Ciao Santino, continueremo a volerti bene», si legge in una nota della sua società, l'Asd Micri (di Pomigliano). Parole commosse anche dall'Albanova calcio, che oggi avrebbe dovuto incontrare la squadra a vesuviana.
    Le circostanze che hanno scatenato l'aggressione hanno riportato alla mente uno degli episodi più sconcertanti del bollettino della violenza giovanile in Campania: la morte di Francesco Pio Maimone, pizzaiolo 18enne ucciso nel marzo 2023 tra la folla degli chalet di Mergellina, colpito da una pallottola vagante sparata al culmine di una rissa tra due gruppi (a lui estranei) scatenata proprio da una scarpa sporcata. Qualche mese dopo, il 31 agosto, un'altra "tarantella" permise a una baby gang dei Quartieri Spagnoli di aggredire alcuni ragazzi in un pub di piazza Municipio e il capo banda, un 17enne già noto per aver accoltellato un 13enne, sparò tre colpi di pistola nella schiena (la vigliaccheria è una caratteristica delle nuove leve della camorra) di Giovanbattista "Giogiò" Cutolo, giovane musicista di talento in forza alla Nuova orchestra "Scarlatti".
    Il Far West corre su due ruote: nel dicembre dello scorso anno, a piazza Carlo III un aspirante baby boss (arrestato nelle scorse settimane) affianca un'auto e spara dallo scooter contro un giovane attore del film "La paranza dei bambini", Ciro Vecchione. Il ragazzo si salva e gli amici del suo quartiere (la Sanità) un mese dopo arrivano con gli scooter e sparano quasi cento colpi; la paranza scatena il panico, colpisce un anziano passante ma non riesce a uccidere il "nemico", un 19enne che rimane solo ferito. Scena analoga a quella registrata pochi giorni fa, stavolta però il raid è finito in tragedia. Muore il 15enne Emanuele Tufano, colpito alla schiena, due i feriti. Ai funerali, l'altro ieri alla Sanità, una tromba ha intonato il "silenzio" dei funerali militari, non ha destato sorpresa: che siano vittime o innocenti, per i ragazzi di Partenope è sempre una guerra. Se l'Italia non è un Paese per vecchi, Napoli non è una città per giovani.
  3. DEMAGOGIA MELONIANA: La condanna
    di
    Caivano

    caivano (napoli)
    «Piove in casa, guarda il muro come si sgretola. Le macchie di umidità in bagno e in camera da letto? Ogni sera mi addormento e spero non piova. Se crolla il palazzo?». Parco Verde, Caivano, nord di Napoli. Un anno dopo lo stupro di gruppo delle due minorenni del quartiere. Parco Verde è come sempre. Brutto, puzzolente, degradato. L'unico colore è quello della dignità, delle donne, dei bambini e dei volontari che resistono. Giorgia Meloni è andata due volte a Caivano nell'ultimo anno. La prima, subito dopo lo stupro delle bambine, agosto 2023, per affermare che "lo Stato c'è". La seconda, il 28 maggio di quest'anno, per inaugurare il centro sportivo Delphinia, ristrutturato dopo che si è scoperto che all'interno si sarebbero consumate le violenze sulle due cuginette. Signora perché ha sigillato il balcone con la rete? «Ci sono i topi. Salgono e entrano in casa. Guarda qua sotto, ce ne sono diversi morti». L'ha segnalato ai tecnici del Comune? «Sono venuti, hanno messo delle trappole. Stop. Inutili. Le fogne sono a cielo aperto. La rete idraulica è un colabrodo. Che ci siano topi e scarafaggi è il minimo. Sente la puzza? Butto candeggina ogni mattina».
    Le case popolari di Parco Verde dovevano essere alloggi temporanei per i sopravvissuti al terremoto dell'Irpinia del 1980. E invece sono diventate rifugi per sempre. Dove nascere e morire. «Dicono che il degrado del quartiere è colpa degli occupanti che non pagano, ma sono un'esigua minoranza, mi creda. Siamo quasi tutti regolari e chi era in arretrato con l'affitto, ha rateizzato i debiti e sta pagando». Un anno fa si è dimesso il sindaco di Caivano, sfiduciato dalla giunta di centro sinistra: scioglimento e nomina di tre commissari straordinari. Non è una novità per questo territorio. Dal 1997 nessun eletto primo cittadino, di qualsiasi colore politico ha resistito per tutta la legislatura. Ad ottobre poi il governo ha anche azzerato il consiglio comunale per presunte infiltrazioni camorristiche e ha nominato un Commissario ad hoc, oltre ai tre sempre in carica, per l'attuazione del decreto-legge 15 settembre 2023, meglio conosciuto come decreto Caivano, convertito dalla legge 13 novembre 2023 e recante «Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa, e alla criminalità minorile». Una pioggia di milioni di euro. In gran parte fondi per lo sviluppo e la coesione, periodo di programmazione 2021-2027.
    «È salita sui tetti? Vada a vedere. C'è ovunque amianto». In effetti. Il colpo d'occhio è impressionante. Si dorme sotto l'amianto, vecchio e in via di decomposizione, quindi ancora più pericoloso perché soggetto a sgretolamento e quindi il polverio di questo cancerogeno lo respirano tutti, grandi e bambini. «Ho protocollato più volte la richiesta urgente di rimozione dell'amianto». Mi mostra l'ultimo sollecito fatto, il 2023. «Non è venuto nessuno». Ora c'è un «Piano straordinario di interventi infrastrutturali e di riqualificazione del territorio», 76 pagine, con l'elenco delle zone di intervento e le ipotesi di stanziamento. Somme potenziali generali di spesa: 54.599.036 euro. Obiettivo primario: il rilancio finalmente della periferia. Sulla pagina internet del Commissario straordinario, dottor Fabio Ciciliano, si può monitorare l'andamento attuativo del piano. Ci sono i decreti attuativi degli appalti avviati ad oggi tra quelli annunciati. A parte il centro sportivo Delphinia, tra gli interventi più corposi partiti c'è il cantiere per alla voce «Azione n. 2, riqualificazione e realizzazione di spazi socio culturali» ( stanziamento di due milioni di euro) per "l'Auditorium Caivano Arte". C'è poi il grande progetto per portare l'università a Caivano. Scienze infermieristiche, scienze motorie, agraria, scienze della formazione Primaria, Tecnici del Restauro, Scuola dei mestieri, Green Academy. Sono i corsi che in futuro potrebbero iniziare. Stanziamento 1 milione di euro. I costi in realtà ora sono lievitati, perché si è aggiunto il cantiere per «La costruzione di un'aula magna, 3.261.985,56 euro, di cui 2.024.813,49 per lavori e progettazione esecutiva lavori e 1.174.198, 48 per spese tecniche». La macchina è in moto, questi cantieri sono partiti. «Si, ok. Ma le nostre case?». Per la riqualificazione dei palazzi di edilizia popolare di proprietà pubblica sono previsti circa 12 milioni di euro. «Quindi monteranno le impalcature prima o poi? Mi pioveva in casa, ho trovato più volte scarafaggi. Escono dal bagno e dai lavandini. Ho fatto io i lavori qui dentro. Ho pagato gli operai. Si può vivere così? Faccio le pulizie. Lavoro in nero, mi spacco la schiena. Siamo persone per bene».
    Anna (nome di fantasia) invece ha ottant'anni, è malata. Ma i figli non le hanno detto che ha un tumore. Ha perso due figlie, per colpa di questo male. «Guarda la mia stanza da letto, gli angoli sono tutti marci e dal soffitto piove quando c'è il temporale. Metto i secchi e gli stracci. Ma è troppo umido, ho sempre freddo nelle ossa. D'inverno i termosifoni sempre accesi non bastano. Ho comprato due stufette». Ma il contatore salta. Anche la rete elettrica è vecchia e fatiscente. Che spreco è stato non ristrutturare queste case popolari con il superbonus, che dramma sarebbe se ancora una volta restassero così. «Ci morirò nel degrado. Lo so. Mi sono rassegnata. Lo scriva però che siamo lavoratori, onesti». Al primo piano c'è una signora affacciata. Mi chiama. Cos'è quel tubo bianco sul suo balcone attaccato al contatore dell'acqua? «L'ho fatto io, c'è una perdita dal tubo portante del palazzo, che mi finisce in casa. Si allaga sempre tutto. Con questo accrocchio di plastica riverso la fuoriuscita in strada. Tocca ingegnarsi». Su circa 250 appartamenti sono in corso verifiche della magistratura, per capire chi va sgombrato e chi invece ha situazioni di fragilità da prendere in carico.
    Bruno Mazza è cresciuto a Parco Verde. Dieci anni in carcere per spaccio, un fratello morto di overdose, padre suicida. Quando è tornato libero ha scelto di cambiare vita radicalmente. Ha sfidato i clan che sfruttano i ragazzini per farli spacciare, come hanno fatto con lui. Per questo ha subito minacce. Ha fondato "Un'infanzia da vivere" che in collaborazione con Fondazione per il Sud organizza il doposcuola per i bambini di Parco Verde, i corsi gratuiti di calcetto. «Cerchiamo di evitare che restino in strada senza una guida. Qui si spara ancora». Oggi è giorno di pulizia delle aiuole. Mazza raduna i volontari del quartiere, distribuisce guanti e buste a tutti. «Non lavorano, qualcuno ha un passato di tossicodipendenza. Impegnandoli riusciamo a tenerli lontani da tentazioni». Perché tagliate voi l'erba e raccogliete l'immondizia? «Perché non lo fa nessun altro. Almeno intorno ai campetti e le aree gioco allestite da noi, cerchiamo di tenerle pulite. Qui poi non c'è raccolta differenziata e i sacchi non li ritirano con cadenza regolare».
    Nel Decreto Caivano c'è: «Ambito di azione n. 3 – riqualificazione e realizzazione spazi pubblici e verde pubblico», 1 milione di euro. Villa Andersen, 207 famiglie di Parco Verde, 500 bambini, affacciano su questo scempio. Le donne sono alla finestra. Hanno voglia di parlare. «Noi questa villa la chiamiamo il cantiere». Qui prima si bucavano. «Lei suo figlio lo lascerebbe scendere a giocare? Meglio chiusi in casa». Ora però c'è il Centro sportivo ex Delphinia. «Più di 44 discipline sportive differenti praticabili, 20 campi sportivi oltre a 4 progetti di arte partecipata con oltre 100 ragazzi perché Sport e Cultura sono le due direttrici su cui ci si è mossi» si legge sul sito di Sport e Salute che lo gestisce. Perché non ci porta i suoi figli? «Perché costa». C'è un'area verde esterna gratuita da poco allestita. «Non abbiamo la macchina, io sono sola con tre bambini. Mio marito fa il muratore, esce alle 5 e torna per cena». L'ex Centro Delphinia ora si chiama "Pino Daniele" . E quello spazio che lo separa dai palazzoni fatiscenti seppur poco è tanto per Parco Verde. «Non accettano nemmeno i voucher per le famiglie con Isee basso: quello della Regione Campania per iscrivere gratis i minori».
    Ci vado. Scusi, è vero che non avete convenzioni specifiche per le famiglie con reddito basso? «Non abbiamo stipulato convenzioni ad hoc. Però ora il Comune ci ha mandato 100 bambini». E gli altri? «Non so che dirle». Pazienza, bisogna avere pazienza, e credere che quelle impalcature per la qualità della vita presto saranno realtà.
  4. GRAVE : La denuncia di una madre di Avigliana: "Dopo l'ospedale anche il Centro di salute mentale non è intervenuto: dicevano che non c'erano più fondi"
    "Mio figlio cercava un aiuto psichiatrico Non lo ha ottenuto e così si è tolto la vita"

    Francesco Munafò
    Elisa Sola
    L'ultimo messaggio l'ha mandato alla madre. Alle nove e venti di mattina di domenica scorsa. «Ciao mamma ti voglio bene». E lei, Lia Sponton, con la forza di tutte le mamme, di tutti i padri e fratelli che convivono – e si portano addosso – la malattia psichiatrica di qualcuno che si ama, gli ha risposto: «Fede ne hai passate tante. Passerai anche questa». Quel messaggio è rimasto bloccato per sempre. Erano le 10 e 50. Federico Fedele non lo ha mai letto. Si è tolto la vita prima. A 27 anni. Nel piccolo alloggio di via Bibiana dove viveva: il rifugio che la sua famiglia gli aveva comprato per aiutarlo. Per dargli un supporto nella battaglia contro i tormenti causati dal suo disturbo di personalità borderline. Orario del decesso: 1 e 56 del 27 ottobre.
    E ora, mentre piange il figlio mamma Lia dice: «Mio figlio è morto dopo avere chiesto aiuto tante volte. Il suo grido di dolore è rimasto sempre inascoltato. Provo rabbia perché si poteva salvare. Nelle due settimane prima di morire ha cercato cure, invano, per due volte al pronto soccorso. Ha telefonato al Csm. Ho chiamato persino io. Troppo tardi».
    Nella notte tra il 10 e l'11 ottobre Federico, in preda a una «crisi esistenziale», entra al pronto dell'ospedale Giovanni Bosco. Chiede di essere ricoverato. «Dopo quattro ore di attesa – racconta la madre – gli hanno risposto che non aveva niente. Lo hanno mandato a casa. Eppure lui sapeva che se lo avessero ricoverato sarebbe stato meglio. Aveva già preparato la borsa. Aveva messo i pigiami e le dosi di tabacco pronte per un mese. Sarebbe uscito migliorato». Quando viene congedato Federico tira un pugno a una porta. Arrivano i carabinieri. Lo arrestano. Dopo poche ore la pm Elisa Pazé chiede che venga liberato. «Non c'erano i presupposti per una misura restrittiva, lui in fondo è un buono» spiega l'avvocata Valentina Tricoli.
    «Pochi giorni dopo - ricorda la madre - il 21 ottobre, ha telefonato al Csm: ha chiesto che lo ricoverassero. Ha risposto un operatore, dicendo che la dottoressa non c'era fino a lunedì. E ha aggiunto una frase che fa male: Non possiamo ricoverare perché fino a fine dicembre non abbiamo i fondi».
    La procura ha aperto un fascicolo senza indagati e senza ipotesi di reato. E il Giovanni Bosco chiarisce: «Non c'è correlazione tra l'accesso al pronto soccorso e l'evento anticonservativo. È' arrivato in stato di alterazione alcolica. Era in carico ad un'altra Asl».
    Restano i dati. Il Piemonte (fonte Sism, Sistema informativo della salute mentale) destina 64 euro annui a persona per la salute mentale, sei euro in meno rispetto alla media nazionale. Il personale del Dipartimento di salute mentale piemontese conta 39 professionisti ogni 100 mila abitanti a fronte dei 60 ogni 100mila della media nazionale.
    Dopo quella telefonata del 21 ottobre, Federico ha avuto un'altra crisi. Spiega la madre: «È intervenuta l'ambulanza. Lo hanno portato di nuovo al Giovanni Bosco. Ma c'era troppo da aspettare. Ha abbandonato la sala». Il 22 mamma Lia chiama il Centro di salute mentale. Parla con un operatore. La richiamano tre giorni dopo. «Mi hanno detto che fino alla fine di dicembre i soldi per i ricoveri erano finiti. Il giorno dopo mio figlio è morto. E io provo rabbia perché Federico ce l'ha messa tutta. Non appena i sintomi della sua malattia sono emersi nel 2017, si è fatto curare. È stato in in gruppo appartamento. Poi in due comunità. Ma nessuna struttura andava bene. Perché c'erano pazienti gravissimi, non autonomi, e lui si annoiava. Voleva lavorare. In Italia sono fermi ai matti da manicomio. Federico è stato abbandonato. Era solo un peso. Ecco perché provo rabbia»

 

 

02.11.24
  1. Nonostante le sanzioni imposte dall’Unione europea, i prodotti di decine di aziende italiane hanno contribuito, sicuramente fino alla fine di marzo di quest’anno, alla realizzazione di Arctic Lng 2, il progetto che la russa Novatek sta sviluppando in Siberia con l’obiettivo di trasformare in liquido il gas estratto nell’Artico ed esportarlo nel mondo.
    Alcune di queste aziende registrate in Italia sono controllate dallo stato, altre sono di proprietà straniera. In quasi tutti i casi, la fornitura di merce non è avvenuta in modo diretto, ma attraverso società intermediarie basate perlopiù in Cina, Emirati Arabi Uniti e Turchia. Paesi che non hanno imposto sanzioni contro Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina.
    Registrate negli Emirati e al centro di molte triangolazioni, due di queste società intermediarie hanno collegamenti diretti con la Russia. Sono questi i risultati principali che emergono da un’inchiesta realizzata da Domani insieme ad Arctida, ong specializzata in ricerche sull’Artico russo.

    Arctic Lng 2 è un progetto strategico per Mosca. Secondo l’annuncio fatto nel 2019, la capacità produttiva annuale dell’impianto – che si trova sulla penisola di Gyda – a regime sarà di 19,8 milioni di tonnellate di gnl (gas naturale liquido). Visto che l’anno scorso la Federazione ha prodotto 32,9 milioni di tonnellate di gnl, l’aumento sarebbe dunque del 60 per cento, e permetterebbe di compensare il crollo delle esportazioni via gasdotto verso l’Ue.

    Nel progetto ha un interesse personale uno dei più importanti alleati di Vladimir Putin, Gennady Timchenko. Azionista principale della società Arctic Lng 2 è infatti Novatek, partecipata dal suo amministratore delegato, Leonid Michelson, dall’azienda statale Gazprom, dalla francese TotalEnergies (che nel frattempo, pur non avendola ceduta, ha deconsolidato dal bilancio la partecipazione) e, appunto, da Timchenko.
    […] Bruxelles ha messo fin da subito nel mirino il progetto sviluppato nell’Artico russo. L’8 aprile del 2022 il Consiglio dell’Ue ha pubblicato il quinto pacchetto di sanzioni contro Mosca, che vieta di «esportare, direttamente o indirettamente, beni o tecnologie idonei...all’uso nella liquefazione del gas». Grazie a dati doganali e documenti societari analizzati da Domani, è possibile raccontare quello che è successo fino alla fine di marzo del 2024.
    Dal 9 aprile 2022 – data di entrata in vigore delle sanzioni sul gnl – i componenti di decine di aziende registrate in Italia sono finiti ad Arctic Lng 2, per un valore complessivo di 134 milioni di euro. Se il calcolo si fa a partire dal 24 febbraio del 2022, due giorni dopo l’entrata dei carri armati russi in Ucraina, il totale arriva a 194 milioni di euro.
    Limitiamoci però a quanto successo a partire dal 9 aprile 2022. La maggior parte delle forniture italiane è di Nuovo Pignone, società fiorentina del gruppo americano Baker Hughes, famosa in tutto il mondo per la produzione di turbine. Totale del valore fatturato da Arctic Lng 2: 19,6 milioni di euro.

    Con valori inferiori ma comunque rilevanti ci sono poi, solo per citarne alcuni, i gruppi Tenaris e Marcegaglia, entrambi produttori di tubi d’acciaio, la multinazionale dei cavi Prysmian, Cortem, azienda friulana che produce apparecchiature elettriche, Honeywell, filiale italiana dell’omonimo colosso americano, Erresse, produttore di valvole della provincia di Novara.



    […] Tra le aziende nostrane che stanno di fatto permettendo la realizzazione di Arctic Lng 2, i dati doganali elencano anche due imprese controllate dallo stato italiano. Lo stesso che sta imponendo le sanzioni. Si tratta di Valvitalia e Ansaldo Energia. La prima è specializzata in valvole e raccordi, la seconda realizza turbine.

    I loro prodotti risultano essere finiti ad Arctic Lng anche dopo il 9 aprile. Ci sono state ad esempio 30 consegne di materiale proveniente da Valvitalia, per un valore complessivo di 4,9 milioni. La merce della partecipata di stato è finita alla Arctic Lng 2 attraverso diverse società intermediarie, ma la più utilizzata è stata l’emiratina Nova Engineering and Construction, una delle società collegate alla Russia.

    Forniture che non sono quasi mai avvenute in modo diretto, ma attraverso triangolazioni. In altre parole, le aziende italiane hanno venduto a società non registrate in Russia, le quali poi a loro volta hanno trasferito la merce in Siberia. Formalmente, quindi, tutto regolare.

    Nella lista delle intermediarie più gettonate dalle imprese italiane ci sono: le cinesi Penglai Jutal Offshore Engineering Heavy Industries, Gac, Bomesc Offshore Engineering Company, Qingdao McDermott Wuchuan; i gruppi turchi Maritsa e Modmer Trading; due società emiratine, Nova Engineering and Construction e Waterfall Engineering. Sono queste ultime le intermediarie di cui abbiamo individuato collegamenti con la Russia. La Waterfall Engineering Ltd è stata fondata nel 2023 ad Abu Dhabi. A dire che è collegata al regime di Vladimir Putin, nello specifico al progetto Arctic Lng 2, è l’Office of Foreign Assets Control, l’autorità che applica le sanzioni per conto del governo degli Stati Uniti.
    Ma Waterfall Engineering non è solo elencata tra le imprese sanzionate dagli Usa. Ha sede presso l’Abu Dhabi Global Market, centro finanziario che si trova all’interno di una torre, sull’isola Al Maryah. Nello stesso posto c’è un ufficio di rappresentanza della Gydan Lng. Sicuramente fino a giugno del 2022, questa società era una joint venture, con cliente unico Arctic Lng 2, partecipata dall’italiana Saipem (20 per cento, controllata a sua volta dallo stato italiano), dalla francese Technip Energies (70 per cento) e dalla russa Nipigas (10 per cento), mentre oggi l’unico proprietario è Nipigas.


    Tra gli azionisti principali di Nipigas (tramite il colosso petrolchimico Sibur) c’è Gennady Timchenko, considerato uno degli alleati più importanti di Putin. Con questa motivazione l’Ue lo ha sanzionato a partire da febbraio 2022.



    Come detto, Timchenko è anche azionista di Novatek. Dunque, l’emiratina Waterfall Engineering ha sede allo stesso indirizzo di Abu Dhabi della società controllata dalla Nipigas di Timchenko. Anche la Nova Engineering and Construction, l’altra emiratina che ha intermediato più volte le forniture italiane ad Arctic Lng 2, è collegata a Mosca, sebbene in modo meno diretto. Condivide la sede e l’azionista di controllo, l’uzbeko Ulugbek Kamolov, con un’altra impresa emiratina, la Smart Solutions Ltd.



    Nel consiglio d’amministrazione di quest’ultima siedono due uomini di nazionalità russa: Denis Mishchenko ed Egor Zubarev. […] Secondo il governo degli Usa, Smart Solutions è stata usata dalla Russia per «aggirare le sanzioni statunitensi e rivitalizzare il progetto Arctic Lng 2»: con questi motivi, proprio ieri, è stata messa sotto sanzioni da Washington.
  2. KKR ed Energy Capital Partners hanno deciso di investire complessivamente 50 miliardi di dollari in progetti di data center e di generazione di energia per sostenere lo sviluppo dell'intelligenza artificiale.



    L'investimento è una scommessa sull'enorme fabbisogno energetico dell'intelligenza artificiale e sul crescente stress che sta esercitando sulla rete elettrica statunitense. Le società hanno dichiarato che gran parte dell'investimento sarà effettuato nei prossimi quattro anni.

    KKR, una delle più grandi società di investimento al mondo, ed Energy Capital Partners, una società di private equity, hanno investito molto nelle infrastrutture alla base del boom dell'IA. Le società hanno dichiarato che ora stanno collaborando con le grandi aziende tecnologiche per accelerare il loro accesso all'elettricità, che è diventato limitato in alcune parti degli Stati Uniti, in quanto gli sviluppatori di data center competono per le fonti di energia e l'accesso alla rete.



    “Il fabbisogno di capitale è enorme e uno dei grandi colli di bottiglia, forse il collo di bottiglia, è la disponibilità di elettricità”, ha dichiarato Doug Kimmelman, fondatore e socio senior di ECP.


    ECP possiede società che gestiscono centrali elettriche convenzionali e rinnovabili, tra cui Calpine, uno dei maggiori produttori di energia elettrica del Paese. Di recente ECP ha ampliato il suo portafoglio di impianti a gas naturale, che secondo Kimmelman saranno fondamentali per fornire energia 24 ore su 24 ai data center. Kimmelman ha dichiarato che prevede di effettuare ulteriori investimenti nel gas, esplorando al contempo modi per ridurre le emissioni di carbonio con le energie rinnovabili o sviluppando tecnologie come la cattura e il sequestro del carbonio.

    Le aziende tecnologiche si sono affidate pesantemente ai combustibili fossili per alimentare i loro centri dati, il che rende difficile per loro onorare gli impegni presi per ridurre le emissioni di carbonio e al tempo stesso spingere per accelerare lo sviluppo dell'IA.

    Ogni azienda tecnologica sta ora cercando di accelerare lo sviluppo di fonti di elettricità più pulite.



    Microsoft, Google e Amazon.com hanno dichiarato di voler investire miliardi di dollari per mettere online più energia nucleare. Alcuni dei progetti dipendono da una tecnologia di nuova generazione non ancora collaudata e ciascuno di essi richiederà anni per essere completato, in parte a causa delle sfide finanziarie e tecnologiche che hanno limitato la crescita dell'industria nucleare statunitense per decenni.


    Secondo la società di consulenza McKinsey, per ora gli impegni in materia di sostenibilità passano in secondo piano rispetto al desiderio delle aziende tecnologiche di costruire rapidamente centri dati.

    Waldemar Szlezak, che dirige gli investimenti di KKR nelle infrastrutture digitali, ha dichiarato che la partnership dell'azienda con ECP è finalizzata a soluzioni a breve termine per espandere l'accesso all'energia e alleggerire gli ostacoli che le aziende tecnologiche devono affrontare nella costruzione di centri dati. Ad oggi, KKR ha investito più di 29 miliardi di dollari in società di infrastrutture digitali.
  3. Nelle intercettazioni l'hacker Calamucci fa riferimento anche all'ex 007 Mancini . Il suo legale: "Fantasie senza fondamento"
    Da Milano alla Squadra Fiore la rete degli spioni porta a Roma
    irene famà
    monica serra
    roma-milano
    «Mancini è un componente. Doppio Mike, l'ho chiamato doppio Mike. È un componente della squadra Fiore, un traditore». È Nunzio Samuele Calamucci a dirlo, intercettato dai carabinieri di Varese. E nel bel mezzo di una "guerra" tra hacker che lo ha portato a denunciare ai giornalisti l'esistenza a Roma di una centrale di spionaggio che, per quel che sta emergendo, aveva molti punti in comune con quella milanese, di cui Calamucci faceva parte. Anche la «Squadra Fiore» sarebbe infatti composta da militari ed ex militari legati a comparti dell'intelligence che accedono alle banche dati, da quelle della Banca d'Italia allo Sdi. Raccolgono notizie riservatissime su vip e grandi società e poi le rivendono.
    Dai primi accertamenti, le basi logistiche sarebbero due: una in Italia, nella Capitale, in un appartamento di piazza Bologna, tra studi di avvocati e medici. Tra quelle mura si poteva parlare liberamente: a proteggere le conversazioni ci sarebbe stato un disturbatore di frequenze. La seconda pare sia a New York, nella Lower Manhattan.
    Della Squadra Fiore si inizia a parlare a marzo, dopo gli articoli di Fabrizio Gatti di Today. it. A contattarlo, sarebbe stato proprio l'hacker Calamucci. L'obiettivo? "Bruciare" il gruppo rivale, almeno in apparenza perché stava dossierando un cliente della sua organizzazione: Leonardo Maria Del Vecchio, figlio prediletto del patron di Luxottica, che ha pagato almeno 361 mila euro alla società Neis, dell'ex Ros Vincenzo Di Marzio, per varie attività di investigazione nel bel mezzo della faida per l'eredità del padre. Per conto di Del Vecchio, secondo il pm Francesco De Tommasi, la banda spia la fidanzata ma anche i fratelli, soprattutto Claudio Del Vecchio, che nel frattempo ha depositato la nomina di un avvocato.
    Quando scopre che la squadra Fiore sta spiando Del Vecchio Jr, Calamucci cerca dei giornalisti a cui racconta una storia tutta da verificare. Dice di essere stato contattato da un amico militare che lavora all'Agenzia di Cybersicurezza nazionale e per "Fiore". Dice che gli avrebbe inoltrato una fotografia mentre era sotto casa dell'imprenditore. La procura di Roma inizia a indagare sulla presunta rete clandestina per accesso abusivo a sistema informatico, violazione delle norme sulla privacy ed esercizio abusivo della professione. Per ora, la Postale avrebbe individuato cinque presunti appartenenti al gruppo.
    Nelle quasi 5 mila pagine di informative depositate a Milano, solo Calamucci accenna intercettato alla Squadra Fiore, sostenendo che ne farebbe parte l'ex dirigente del Dis Marco Mancini ("Doppio Mike" per via delle iniziali è sempre stato il suo nickname) che ha terminato la carriera nei Servizi dopo le foto con l'ex premier Matteo Renzi in autogrill a dicembre del 2020. Ma tramite l'avvocato Luca Lauri, Mancini fa sapere che la sua appartenenza a Fiore sarebbe «pura fantasia», che non conosce Calamucci né l'ex poliziotto Carmine Gallo, a capo del gruppo milanese. Sostiene il legale: «Gli indagati intercettati riferiscono un coacervo di notizie confuse, partendo da spunti di vecchi atti di indagine, e senza fondamento, con l'obiettivo di accreditarsi».
    Più volte nelle intercettazioni si nomina Mancini. L'ex Ros Di Marzio, che ha lavorato nel Sismi, parla di presunti contrasti con lui: «Mi ha promesso che mi avrebbe fatto ammazzare… Alla fine ho dato i documenti al notaio, poi ho detto, siccome le prove ce le ho, se mi investono c'è qualcuno che farà uscire questi documenti». Al netto di Mancini (non coinvolto nelle indagini), i presunti rapporti con l'intelligence ricorrono spesso. I carabinieri annotano misteriosi accessi in Sdi compiuti dall'utente fittizio «Lanza» col nome «Foga415» identificato come «appartenente all'Aisi».
    Anche Gallo sostiene di aver lavorato nei Servizi con Mancini e Giuliano Tavaroli: «È tutta gente che ho conosciuto quando eravamo ai Servizi, tutti insieme…». Con queste parole, per i carabinieri, Gallo spiega «la ragione della sua ragnatela di contatti ovvero l'aver fatto parte dei servizi segreti». Una dichiarazione, è scritto, «che non appare frutto di una millanteria. Si tratterebbe di una situazione che a prima vista può sembrare incredibile poiché Gallo non ha mai abbandonato i contatti con la polizia e la sua funzione d'intelligence sembrerebbe essere legata proprio al ruolo "interno" agli uffici giudiziari della procura di Milano».
    Per ora una suggestione, ma il pensiero va subito alle parole del socio di Calamucci, Massimiliano Camponovo, davanti al gip: «Ho percepito la presenza di una mano oscura che muoveva il sistema. Temevo per me e per la mia famiglia»
  4. Pegoraro: "Ho lavorato per il mio Paese"
    «Ho lavorato cercando di sviluppare qualcosa di buono, nel mio piccolo, nel mio Paese e per il mio Paese».
    Per la prima volta, l'informatico 48enne Gabriele Edmondo Pegoraro si difende dal «fango» e dalle «falsità che ho letto in questi giorni». È indagato dal pm Francesco De Tommasi perché avrebbe collaborato con la presunta banda degli spioni di via Pattari ed è anche coinvolto in un'inchiesta della procura di Torino. Ma quello di Francesco Pegoraro, «uno dei più abili hacker ed esperti informatici "disponibili" sulla scena italiana», è un nome molto noto anche nelle procure con cui ha collaborato – si legge negli atti – in «importanti operazioni di polizia e antiterrorismo». Un esempio su tutti: la cattura dopo 37 anni di latitanza dell'ex leader dei Proletari armati per il comunismo, Cesare Battisti, condannato in Italia all'ergastolo per quattro omicidi.
    Da diverse ore circolava la notizia falsa secondo cui sarebbe stato «introvabile», subito smentita dal suo avvocato Massimo Dal Ben. «Sono residente a Luino e lavoro spesso a Milano – spiega Pegoraro –. Poiché ogni anno in questo periodo ricorre l'anniversario della morte di mio padre, torno dalla mia famiglia. Il mio lavoro, anche per le tante situazioni di stress vissute, purtroppo negli anni ha reso sempre più precarie le mie condizioni di salute. Per questa ragione sono stato ricoverato per un lungo periodo. Probabilmente sarà necessario ancora ricorrere ad ulteriori cure, dunque anche in futuro potrò essere molto facilmente raggiunto dalle autorità che necessitassero di me».
    Riguardo alle accuse, Pegoraro sostiene: «Con la quasi totalità degli altri indagati non ho praticamente mai avuto rapporti e con quelle pochissime persone che conosco non ho rapporti di lavoro da più di quattro anni». Al centro delle parole del 48enne soprattutto il suo lavoro («sviluppare tecnologie, non fare dossier», sottolinea), al quale «ho sacrificato una vita con dedizione e passione. Chi mi conosce bene sa quanto mi sono dedicato, non avendo figli, a sviluppare qualcosa di mio che rimanesse e che fosse qualcosa di cui andare fiero»
  5. Il riscaldamento a ggrava le crisi umanitarie. La Banca mondiale: entro il 2050 emergenza globale. Guterres: con Trump accordi di Parigi a rischio
    Senza terra per colpa del clima, allarme Onu
    parigi
    A suonare il campanello d'allarme ci ha pensato la Banca mondiale nel 2021: circa 216 milioni di persone diventeranno migranti climatici all'interno del loro Paese entro il 2050. Uno dei principali effetti del riscaldamento globale, che obbliga milioni di persone a lasciare le proprie terre martoriate dai cataclismi ambientali come inondazioni, tempeste, siccità o eruzioni vulcaniche. In alcuni casi si tratta di territori che rischiano addirittura di scomparire. Un esempio sono le isole di Tuvalu situate nell'Oceano Pacifico, i cui abitanti sono stati accolti dall'Australia.
    Ma nella maggior parte dei casi il risultato di simili fenomeni si traduce in una vera e propria crisi umanitaria, le cui vittime però non vengono riconosciute come tali perché il diritto internazionale non prevede lo status di «rifugiato climatico». Migranti invisibili e senza nessun tipo di tutela, quindi, a differenza di chi scappa da guerre o da situazioni di estrema povertà (anche se spesso queste situazioni possono sovrapporsi). Ogni anno se ne contano 20 milioni in tutto il mondo secondo le stime dell'Unhcr. Tra le zone più interessate c'è l'Africa, ma anche il Medio Oriente e il Sudest asiatico. In questi ultimi anni, però, il moltiplicarsi di cataclismi ambientali in tutto il mondo ha dimostrato le vulnerabilità dell'Europa e di tutto l'Occidente, ormai costretto a guardare in faccia il problema. Mentre il dibattito sulla creazione dello statuto va avanti, seppur senza particolari segnali di avanzamento, l'Agenzia dell'Onu per i rifugiati ad aprile ha lanciato il Fondo per la resilienza climatica, che punta a raccogliere 100 milioni di dollari entro il 2025 per sostenere i migranti, i Paesi d'origine e quelli d'accoglienza interessati.
    Il fenomeno dimostra chiaramente come i cambiamenti climatici colpiscano in tutto il mondo avendo però effetti diversi. Per questo è necessaria una risposta omogenea. Ma il destino degli Stati Uniti preoccupa la comunità mondiale. Un eventuale ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca con le prossime elezioni dovrebbe portare ad una nuova uscita di Washington dagli Accordi di Parigi sul clima. Uno scenario già visto nel 2019 e ri-annunciato dallo staff del tycoon. Il trattato «può sopravvivere, ma a volte le persone possono perdere organi importanti o perdere le gambe e sopravvivere», ha avvertito dalle colonne del Guardian il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres, evocando il rischio di avere un accordo «paralizzato». Un'eventualità che di certo non gioverebbe alla soluzione del problema.
  6. Dopo i furti, le frodi informatiche sono i crimini con più denunce: 274 mila in un anno. Cresce il trading fraudolento su criptovalute e azioni
    Finti consulenti e telefonate automatizzate le truffe online tra i reati più comuni in Italia
    Arcangelo Rociola
    Non una questione di ceto. Né di età. Ma solo una questione di soldi. Di soldi e avidità. Una combinazione in grado di vincere ogni resistenza. Di annichilire ogni prudenza. Chi ne è vittima scopre il fianco. E lì chi è disposto a approfittarne affonda il colpo. Migliaia, forse centinaia di migliaia le vittime ogni anno in Italia. L'enorme, in larga parte sommerso, popolo dei truffati online. Nel 2023 la Polizia postale ha ricevuto 3.400 denunce di truffe legate a proposte di investimento online. Ma il numero dei casi potrebbe essere molto più alto. Diversi report raccontano che solo uno ogni venti denuncia. Spesso si sta zitti per vergogna. Il numero dei casi aumenta del 12% l'anno. Mentre di per certo i soldi spariti sono 111 milioni solo nel 2023. Ma è una cifra arrotondata per difetto. Con il non emerso si arriverebbe facile a oltre un miliardo. Mentre il trading fraudolento, insieme alle altre frodi informatiche, è il secondo reato denunciato in Italia. Solo nel 2022 274 mila.
    Le truffe su azioni e criptovalute sono esplose durante gli anni della pandemia. Oggi con l'Intelligenza artificiale le tecniche si sono raffinate: chatbot, telefonate automatizzate, finti consulenti solerti nell'offrire opportunità di guadagno sui social, spesso nelle vesti di ragazze avvenenti. Anche loro finte, non meno degli investimenti. Di vero ci sono solo le vittime. Uomini e donne, di ogni ceto e ogni età. Con pochi denominatori comuni: la solitudine, il troppo tempo passato online e la voglia di fare soldi facili. Elementi ideali per questi raggiri. Fluorescenze sul terreno fertile dei social. Dove la ricchezza prima è diventata una condizione essenziale, da ostentare. Poi un obiettivo facile da raggiungere giocando a fare i Gordon Gekko. Ma nessuno ci riesce davvero. Nessuno è Gordon Gekko.
    Il mondo delle truffe online è variegato. C'è un sito in Italia lo racconta. Si chiama Decripto. Giovedì ha raccontato quello che sembra essere l'ultimo fenomeno. Riguarda alcune piattaforme che chiedono dai 5 ai 35 mila euro per trasformare il proprio computer personale in una macchina per creare Bitcoin. Uno ogni sei mesi. Per un controvalore di circa 150 mila euro l'anno. Al momento nei confronti di queste piattaforme non ci sono provvedimenti ufficiali. Ma di provvedimenti ce ne sono centinaia. Basta fare un giro sul sito della Consob.
    L'autorità il 25 settembre scorso ha oscurato l'accesso di 2139 Exchange. Una piattaforma di trading che prometteva il 5% di rendimenti al giorno. Tutti i giorni. Un ‘salario' lo chiamavano - quasi a far sognare una fonte di reddito alternativa al lavoro vero. E il salario all'inizio arriva davvero. Ma non dal trading. Ma da altre persone che arrivano e mettono altri soldi. E così garantiscono le proprie e le altrui cedole. Fino a quando lo schema non diventa troppo grosso. E allora si chiudono i battenti. Finiscono i prelievi e tutto sparisce. Sarebbero 200 mila i coinvolti. Alcuni di loro si sono organizzati su Telegram. Sperano in una class action. Parlano dietro anonimato. Ma parlano. La voce è quella di un ragazzo, Xdsk si fa chiamare, foto da palestrato in canottiera grigia: "Ci ho messo 500 e all'inizio mi davano 5 euro al giorno, è andata avanti un po'. Poi ho sbloccato il livello successivo e sono arrivato a 1.000. All'inizio era un gioco. Ma da due settimane i soldi non arrivano più". Avvicinato dice da una ragazza su Telegram. Bionda in body nero. Probabilmente un Bot. È lei che lo invita a entrare nel circuito. E a scalare i livelli di ricchezza. Livelli. Come nei giochi. Perché è così che queste truffe vengono organizzate. Si parte da un investimento base. Poi si sale. Più aumentano i soldi dati più aumentano i premi. A quel punto iniziano le sfide: coinvolgere amici, parenti, aumentare il cerchio. Si scalano nuovi livelli. Intanto i soldi arrivano e si diventa promotori. Ecco, in sintesi, come avvengono queste truffe. Ecco il meccanismo base, antico ma attuale, di uno ‘Schema Ponzi'.
    Tutto nasce spesso sui social, ma nessuna delle grandi piattaforme frena le pubblicità. Difficile anche colpire i colpevoli. Spesso vivono all'estero e i soldi in cripto sono difficili da tracciare. Impossibile riprendere i soldi persi. Anzi, spesso nelle chat di Telegram dove parlano e si confrontano i truffati, si inseriscono altri truffatori che promettono di recuperarli, pagando. Un meccanismo di raggiro senza fine. Che si perpetua. Che prende nuove forme. Di base però sempre lo stesso schema. Sempre lo stesso Charles Ponzi. Capace di sfidare e vincere da secoli la sfida con la psiche e l'avidità umana
  7. Anziani maltrattati nella Rsa dopo sette anni nessun colpevole
    elisa sola
    Dopo sette anni dai fatti, arriva il responso. Non ci sono responsabili per i presunti maltrattamenti che avrebbero subito alcuni anziani all'interno della rsa Il Porto nel 2017 e 2018. Le testimonianze raccolte sono, per il tribunale, troppo «confuse e discordanti». E anche il reato di lesioni - riguardo alla caduta di un degente - non sarebbe configurabile perché mancherebbe la querela di parte. Le due imputate, una oss e un'infermiera, sono state quindi assolte. In attesa del processo di primo grado, due delle tre presunte vittime sono morte. Per l'età avanzata e per l'aggravarsi delle malattie degenerative per le quali erano in cura.
    La prima indagata, una oss, era accusata di maltrattare i degenti. Urlando frasi come: «Scema». «Ti puzza l'alito». «Stronzo». «Deficiente». Non solo. Avrebbe acceso tutte le luci di notte per disturbare chi dormiva. E sarebbe stata spesso ubriaca. Le bottiglie di vino erano state viste, nel suo armadietto, da più di un testimone. Ma, secondo il giudice, un conto è avere l'alcol in un armadio, un conto è essere colta in flagranza mentre lo si beve in servizio. E riguardo a questa seconda ipotesi non ci sarebbero prove. La oss, infine, avrebbe strattonato i pazienti, «effettuando manovre in maniera brusca e in assenza di condizioni di sicurezza». La seconda imputata, infermiera, era accusata di non avere rispettato il protocollo perché avrebbe manovrato da sola almeno tre anziani, facendoli cadere. La prima vittima si era rotta l'omero. Era il 31 ottobre del 2017. La seconda, sei giorni dopo, si era fratturata il malleolo e la tibia. La terza anziana era finita in ospedale con un trauma cranico, la frattura di una mano e di un dito. Per lei la prognosi era di oltre 40 giorni. L'inchiesta era nata proprio da questa serie di strani "incidenti". Gli agenti del commissariato Barriera di Milano avevano raccolto testimonianze, lettere di richiamo e sanzioni erogate dalla direzione sanitaria ad alcune dipendenti, in particolare alla oss. Ma un conto sono i richiami, un altro i reati, che secondo il tribunale non sarebbero sussistenti. L'ex direttrice amministrativa aveva testimoniato: «Il personale è troppo scarso rispetto agli ospiti presenti. Facciamo quello che possiamo». Ma sui presunti maltrattamenti, i colleghi sentiti in merito al comportamento delle indagate avrebbero reso «versioni spesso confuse e discordanti, quindi non credibili, anche sull'assunzione di alcol». Era stata la stessa procura, riguardo ai comportamenti della oss, a chiedere l'assoluzione. Al processo era costituita parte civile la Fondazione promozione sociale onlus, rappresentata da Maria Grazia Breda. All'epoca dei fatti la rsa era gestita da una società diversa dall'attuale, che aveva a sua volta affidato il servizio sanitario a una cooperativa, responsabile civile

 

 

 

01.11.24
  1. RAUL=MARCHIONNE: solo che a Raul e' andata male per incompetenza finanziaria totale che non mancava a MARCHIONNE  Estratto da “La caduta di un impero” di Carlo Sama, Rizzoli
    Nella sua scalata alla Montedison, che io vissi al suo fianco momento dopo momento, telefonata dopo telefonata, acquisti di pacchetti di azioni uno dopo l’altro, Gardini aveva speso una montagna di soldi, indebitando pesantemente la Ferruzzi.
    Raul non aveva badato minimamente al prezzo quando diede ordine al telefono al nostro agente Umberto Maiocchi di acquistare tutte le azioni Montedison che poteva trovare; poi strapagò le azioni che Carlo De Benedetti aveva precedentemente rastrellato in Borsa; infine, non si fece particolari patemi d’animo nell’acquistare a peso d’oro il pacchetto detenuto dall’industriale milanese delle vernici Gianni Varasi, il più importante pilastro di quel drappello di azionisti di media taglia, che comprendeva anche la Inghirami e la Maltauro, di cui Schimberni si era circondato per fare di Montedison una public company indipendente e accrescere e difendere il suo potere personale.

    Gardini aveva comprato la Montedison senza pensarci due volte. Ma anche senza avere una idea precisa di che cosa fosse e come esattamente funzionasse, in realtà, quell’oggetto del desiderio che aveva fortemente voluto e fatto suo. Ovviamente, Raul conosceva bene la storia di Montedison ed era consapevole dell’importanza strategica di quella società nel panorama industriale italiano.

    Così come era consapevole dell’enormità del passo che aveva appena compiuto, scalando Foro Buonaparte. Ma, adesso, effettuato il blitz, tutt’altra cosa era dover gestire di fatto la Montedison, capirne il complesso funzionamento interno, decidere che tipo di impronta dare alla sua conduzione, se operare in continuità oppure apportando dei cambiamenti alla linea che Schimberni aveva fin lì seguito.



    Per non parlare della nostra scarsa conoscenza e della diversità dei nuovi settori della chimica con cui stavamo entrando in contatto (plastiche, fertilizzanti, fibre, farmaci ecc.) rispetto ai nostri tradizionali ambiti di attività come lo zucchero o i semi oleosi.



    Passata l’euforia per la scalata e per il successo personale e di immagine del suo riuscito colpo di mano su Montedison, che aveva sorpreso e stupito tutti, Gardini si rese subito conto di quanto fosse complessa e intricata quella galassia che, dagli inizi degli anni Ottanta, Schimberni aveva rivoltato come un calzino, riorganizzandola, riportandola al profitto e spingendola anche nel campo immobiliare e dei servizi con la Iniziativa Meta (acronimo di Montedison Terziario Avanzato).


    E fu sufficiente poco tempo perché il sorriso beffardo che Raul aveva sfoderato quel mattino, varcando il portone di Foro Buonaparte, gli si spegnesse sul volto, nella consapevolezza di essersi inoltrato in acque profonde e sconosciute.



    In sostanza, fu anche per la paura di non essere da subito all’altezza della sfida manageriale che Montedison richiedeva, e quindi non solo per una specie di ammirazione strisciante nei confronti di Schimberni, che Gardini lo lasciò operare quasi indisturbato per un lungo periodo.


    Da parte sua, Schimberni, pur ammaccato dal ridimensionamento della «sua» public company, che ormai non era più tale avendo ora un azionista di controllo, approfittò di quel momento di incertezza di Gardini e per un bel po’ non gli fece letteralmente toccare palla.



    Schimberni affidò Raul, togliendoselo così di torno, alle «cure» dei suoi due amministratori delegati, Giorgio Porta e Lino Cardarelli, che di fatto «narcotizzarono» Gardini, blandendolo e intrattenendolo amabilmente per settimane sui settori industriali di Montedison, sulla sua strategia, sul suo funzionamento, sulle sue società controllate, su quella macchina così complessa che sembrava poter essere guidata solo da chi ne conosceva pienamente tutte le sfaccettature. Con ciò confondendo Raul e rendendolo, se possibile, ancora più timoroso e titubante sul da farsi di quanto già non lo fosse.
    Spietato, forse anche per quella impressione di smarrimento che Raul diede loro in quei giorni, fu il giudizio su Gardini che Cardarelli espresse in seguito, nel suo libro biografico Dalla Montedison a Baghdad, edito da Guerini e Associati e curato da Gianfranco Fabi. In un paragrafo intitolato Gardini: né cultura industriale, né visione, l’ex manager Montedison, infatti, lo bollò di «provincialismo» e «scarsa cultura industriale».

    In effetti, in quell’ormai lontano 1987, era come se Gardini, oltrepassando il portone della Montedison, fosse entrato in una fitta giungla e avesse perso l’orientamento. Gli furono presentati uno dopo l’altro anche i manager delle numerose società operative di Montedison, da Andrea Mattiussi a Roberto Bencini, da Giancarlo Cimoli a molti altri, tra cui anche Giuseppe Garofano, che era a capo di Iniziativa Meta.

    Sembrava che Gardini si smarrisse sempre di più nell’intrico di quegli organigrammi, società e settori, sballottato un giorno tra la Montedipe e la Montefibre, un altro tra la Agrimont e la Erbamont-Farmitalia Carlo Erba, impegnato in una serie infinita di colloqui con i manager delle diverse compagnie, dai quali usciva con le idee più confuse di prima.



    Infatti, ciascuno di essi gli raccontava una storia diversa, prospettandogli anche le strategie più improbabili, perorando ognuno la propria causa e spiegandogli come il proprio settore di attività fosse il più valido e quello su cui puntare di più. Raul era frastornato, non sembrava nemmeno più lui. Mentre Schimberni, nel frattempo, continuava a fare il suo gioco e a tessere le sue trame.

    In particolare, Schimberni con diverse operazioni stava indebitando viepiù la Montedison. Emblematico fu l’acquisto dagli spagnoli Mario Conde e Juan Abelló, per la stratosferica cifra di 450 milioni di dollari dell’epoca, del 100% della Antibióticos. Ma alcuni giornali scrissero che il prezzo fu ancora più alto.



    La strategia di Schimberni era chiara: più la Montedison era indebitata e più essa sarebbe stata difficile da gestire anche da parte di quel nuovo azionista ingombrante che aveva avuto l’ardire di scalare il «suo» giocattolo. A fine 1987 i debiti di Montedison erano ormai saliti a poco meno di 8000 miliardi di lire.


    Di tanto in tanto Schimberni si intratteneva furbescamente con Gardini, esprimendo un finto interesse per la chimica verde che Raul vagheggiava. In una occasione, per dimostrare la sua completa sintonia di idee con lui e per solleticarne la vanità, arrivò perfino a promettere a Raul che avrebbe potuto mettere un cip sul nostro fallimentare stabilimento di etanolo in Louisiana, la Missalco (Mississippi River Alcohol), che non riusciva a decollare per problemi tecnici in quanto Raul si era fatto mal consigliare da Vernes sulla tecnologia produttiva da adottare.
    Schimberni poi effettivamente mise un cip sulla Missalco. Ma si trattò soltanto di un cip, appunto, niente di più.

    Il cul-de-sac in cui, come Ferruzzi, ci trovavamo era evidente. Ci eravamo indebitati moltissimo per comprare una società che, a sua volta, si stava indebitando sempre di più. E non potevamo nemmeno comandarla.



    Inoltre, quella esperienza senza costrutto in Montedison stava modificando geneticamente il Gardini che io avevo conosciuto, rendendolo incerto e pavido. Ogni giorno che passava, cresceva la preoccupazione mia, di Cusani e di Sergio Cragnotti, un altro dei top manager di Gardini, prima impegnato nelle attività del Gruppo in Brasile e in Francia e, in seguito, amministratore delegato di Enimont e vicepresidente di Montedison.
    Che la realtà di Montedison fosse una macchina complessa, e che per gestirla andava presa per le corna e non subita passivamente, me ne ero reso conto io stesso nel mio ristretto ambito di attività. Infatti, Schimberni aveva costruito attorno a sé non solo una fitta rete di prime e seconde linee di manager fedeli, ma anche un apparato ben oliato che lo supportava nelle sue strategie di comunicazione.



    Abilissimo nelle relazioni con gli investitori e in quelle istituzionali, necessarie per mantenere i contatti con la politica, con una forte e articolata organizzazione ad hoc che lo supportava, Schimberni aveva a disposizione anche una potente squadra di Relazioni esterne guidata da un professionista capace come Carlo Bruno.

    L’ufficio Stampa di Carlo Bruno fu molto abile in quei mesi a far fluire continuamente verso i media − in modo diplomatico ma duro nella sostanza − la narrazione secondo cui Gardini era diventato, sì, l’azionista di riferimento, ma la Montedison continuava a comandarla Schimberni. Punto e basta. Uno stato di cose per noi intollerabile.



    Un giorno, anche per scuotere Raul dal suo immobilismo, gli dissi chiaramente che, visto che la Montedison era ormai diventata il suo mondo ed era una realtà molto più complessa della nostra, cioè quella della vecchia Ferruzzi, io avrei potuto dimettermi da responsabile delle Relazioni esterne della Ferruzzi stessa e che il mio incarico avrebbe potuto essere affidato a Bruno.
    Non so se Gardini fosse già arrivato intimamente, lui medesimo, alla convinzione che non si poteva più continuare così. Con ogni probabilità, si era finalmente reso conto che Schimberni lo stava prendendo per i fondelli. Sta di fatto che quel giorno mi rispose secco: «No! Tu devi continuare a dirigere le Relazioni esterne della Ferruzzi e devi prendere il comando anche di quelle della Montedison!».



    Fu una svolta, anche perché così Schimberni venne privato del suo giocattolo comunicazionale. Nel giro di poco tempo lo scenario di Foro Buonaparte cambiò completamente. Finalmente Gardini affrontò Schimberni che, messo alle strette, diede le dimissioni. E con lui se ne andarono poco dopo anche diversi dei suoi uomini più vicini, come Porta e Cardarelli.

    Ma il Gruppo Ferruzzi-Montedison necessitava urgentemente di una rapida ed efficace cura per non crollare sotto il peso dei debiti. Ci si dovette perciò rivolgere a Mediobanca, che ideò l’operazione di fusione tra la Ferruzzi Finanziaria e Iniziativa Meta, holding che aveva già incorporato Bi-Invest, deteneva quote di Fondiaria e nella cui pancia stavano società come Standa, Datamont, Tecnimont, Tre I, Cagisa e Sefimeta. Grazie a vantaggiosi concambi, fu una operazione decisamente vincente per la Ferruzzi, pur scontentando gli azionisti di Montedison che si sentirono depauperati di un loro pezzo pregiato come la Meta.
    La Ferruzzi, con la scalata di Montedison, aveva rischiato come Napoleone di finire in una disastrosa campagna di Russia, che alla fine fu evitata grazie alla operazione Ferruzzi-Meta e alla nascita della Ferfin. Gardini e i Ferruzzi, a quel punto, avevano ancora in mano il loro destino. Con alcune dismissioni mirate, il Gruppo Ferruzzi-Montedison avrebbe potuto ridurre ulteriormente l’indebitamento e rifocalizzarsi sui settori più redditizi mantenendo e rafforzando le più importanti leadership produttive mondiali, europee e italiane in suo possesso.

    Avevamo ritrovato la carica e ricominciammo a spingere con successo anche sulla nostra comunicazione. Una mattina Gardini entrò in ufficio e scarabocchiò con una stilografica per alcuni minuti su un foglietto appena più grande di un biglietto da visita. Poi me lo mostrò e disse: «Voglio che mi metti tutto il Gruppo Ferruzzi-Montedison su una sola paginetta, fammene anche una versione in inglese, una in francese e una in tedesco, così me la infilo in tasca e quando vado in giro per il mondo la tiro fuori e la mostro ai miei interlocutori per fargli capire chi siamo e che cosa facciamo».
    «Una paginetta?» gli obiettai. «Impossibile, non ci sta tutto su una paginetta.» Dopo qualche minuto di discussione, trovammo un compromesso. Avremmo fatto un piccolo pieghevole con poche facciate. Con tutta la squadra ci mettemmo subito al lavoro. Studiammo il da farsi facendo mille prove sulla mia grande lavagna di carta: schizzi, grafici, decine di fogli scartati, strappati dalla lavagna e buttati nel cestino.

    Smontammo idealmente il Gruppo e le sue società rimontandolo una infinità di volte in modo diverso e finalmente trovammo la quadra. Ricomponemmo i pezzi della Ferruzzi-Montedison in cinque macroaree − alimentazione, ambiente, energia, salute e nuovi materiali – e venne fuori così anche il nostro nuovo messaggio: «Una strategia industriale per la qualità della vita».
    Gardini e Fortis, poi, scrissero a quattro mani il discorso che Raul avrebbe dovuto tenere all’Assemblea della Ferfin di inizio settembre 1988, tutto impostato su quel messaggio.

    In realtà, cinque macrosettori erano perfino troppi e sarebbe stato logico portarne avanti solo due, l’agroindustria e l’energia.

    Però le cinque sfide funzionavano molto come idea ed erano coerenti anche con la tradizionale filosofia del Gruppo Ferruzzi di impegnarsi per l’innovazione e lo sviluppo umano. Tant’è che in seguito, nel 1989 mi pare, la nostra strategia per la qualità della vita finì anche in quel famoso case study della Harvard Business School, promosso dal professor Ray Goldberg: Gruppo Ferruzzi. A New Global Company. Fu davvero un enorme successo di immagine, per noi. Avevamo dato a Goldberg e ai suoi ricercatori informazioni, dati, tabelle e grafici per settimane, durante l’estate.


    Purtroppo, però, invece di imboccare alla massima velocità le autostrade spianate davanti a noi, alimentazione ed energia, anche sviluppando le nostre nuove plastiche biodegradabili, i biocombustibili e così via, e dismettendo le attività non strategiche, ci siamo subito di nuovo impantanati nella chimica più banale.

    Ci fu dapprima il momento magico di quel giovane responsabile della finanza, di cui Raul si «innamorò» per qualche settimana. Gardini lo reputava un genio e ce lo vendette come tale. In realtà, era del tutto inadeguato. Un tipo che ebbe anche una tresca con una collega e che venne preso per i capelli dalla moglie sul portone di Montedison. Poi fu la volta di Alexander Giacco, il deus ex machina della Himont, il suo nuovo guru. Così Gardini, sempre più infatuato del suo nuovo giocattolo, la Montedison, continuò a voler fare soprattutto il «chimico» a tutto campo.

    Dapprima si perse per mesi nell’illusione di poter diventare il re mondiale delle materie plastiche, soggiogato dal carisma e dall’influenza di Giacco, che gli montò la testa. L’esatto opposto della chimica verde, cioè quello che era stato il mantra suo e nostro fino a quel momento. La nuova parola d’ordine di Raul, invece, divenne «polimerizzare».

    Sembrava che al mondo ci fossero solo le poliolefine, il polipropilene, tutto il resto passò in second’ordine. Una vera e propria esaltazione; fuori tempo massimo, peraltro, perché il polipropilene, pur con nuove tecnologie come lo Spheripol, non era altro che il vecchio Moplen che Gino Bramieri già pubblicizzava negli anni Sessanta a Carosello.

    Poi fu la volta dell’epopea tragica di Enimont, su cui però, non spenderò in questo libro una sola parola, essendo già stato scritto a proposito di questa vicenda e del suo infelice epilogo tutto e il contrario di tutto.

    Enimont fu l’ossessione finale di Gardini, la sua più grande sconfitta. Fu un lungo calvario per tutti noi, vissuto in un clima di crescente incertezza. Solo lui, Raul, restò convinto ostinatamente fino alla fine di poter vincere la partita con l’Eni, coinvolgendo Vernes e i suoi amici francesi, scalando la joint venture guidata da Necci e Cragnotti a dispetto dell’Eni, facendo infuriare, compattandola, tutta la politica italiana.
    E in un clima surreale, nel pieno della palude gestionale di Enimont, delle ripercussioni finanziarie e industriali negative per Ferruzzi-Montedison che Enimont determinò, ci fu anche il fastoso e miliardario varo del Moro di Venezia, che Raul organizzò in modo faraonico: l’ultima illusione di una onnipotenza che ormai gli stava lentamente sfuggendo come sabbia tra le dita.
    Gardini fece perfino realizzare da Franco Zeffirelli un film sulla cerimonia del varo, con musiche di Ennio Morricone. La laguna affollata di barche e motoscafi davanti alla Punta della Salute, l’11 marzo 1990, fu il palcoscenico per la sua definitiva incoronazione a nuovo doge della città, tra squilli di trombe e sfilate di personaggi in costume. Furono invitati a Venezia ad assistere al varo del Moro decine di ospiti illustri, tra cui Gianni Agnelli, che venne accompagnato da Jas Gawronski. E furono distribuiti agli ospiti gadget sfarzosi, tra cui costose coperte in cachemire rosso carminio con lo stemma in oro del leone di Venezia.

    Quante volte, con Alessandra, abbiamo ripensato a quell’ennesima occasione perduta di Raul! Se, invece di infilarsi nel tunnel senza sbocco di Enimont e di voler fare il chimico a tutti i costi, si fosse concentrato sulla vecchia Ferruzzi e su ciò che più sapeva fare, cioè l’armatore e il velista, forse il suo e i nostri destini sarebbero stati diversi.

    Se, anziché tentare di trasformare il Gruppo Ferruzzi in un improbabile Gruppo Gardini a danno delle nostre famiglie, avesse investito di più il suo tempo sulla Coppa America e sulla popolarità che la sfida velica gli avrebbe portato, forse Raul oggi sarebbe ancora con noi.
    Con il trionfo nel campionato mondiale Iacc del 1991, la successiva vittoria nella Louis Vuitton Cup e la finale perduta di San Diego del 1992, trasmesse in diretta da Telemontecarlo, Gardini divenne l’uomo del momento: tutta l’Italia era praticamente ai suoi piedi!
    Invece la vicenda Enimont lo distrusse fisicamente e psicologicamente. La stessa disastrosa speculazione sulla soia al mercato di Chicago, che Gardini tentò assieme a un ristretto numero di trader suoi collaboratori, a nostra insaputa, fu forse dettata dalla disperata volontà di Raul di guadagnare del denaro da investire poi nella scalata alla joint venture chimica.
    Il fallimento di quella speculazione costò alla Ferruzzi una cifra imponente e mai precisata, oltre alla vergogna di essere multati e ripudiati da quel tempio del trading e della finanza mondiale che era solito accogliere Serafino Ferruzzi come un re.

    Quella speculazione sulla soia fu per la Ferruzzi un tremendo bagno di sangue finanziario. Lo stesso Roberto Michetti, poi braccio destro di Gardini dopo la nostra separazione, ha stimato una perdita per il nostro Gruppo assai superiore ai 100 milioni di dollari inizialmente indicati in via ufficiale; «Forbes» arrivò a parlare di un buco definitivo di addirittura 400 milioni di dollari.
    Forse, quella bottiglia che la figlia Maria Speranza, detta Cochi, non riuscì a rompere al primo tentativo durante la cerimonia del varo del Moro era stato veramente un sinistro presagio. E Raul era molto superstizioso... Tanto che fece anche togliere dal film di Zeffirelli la scena di quel colpo di bottiglia non riuscito, lasciando solo il secondo, andato a buon fine.
    Chissà, il destino probabilmente era già tracciato. La fortuna di Raul, in gran parte per colpa sua, da qualche tempo lo stava a poco a poco abbandonando. Ma Gardini, il mio vecchio amico ormai geneticamente modificato dalla chimica, non se ne accorse.
    Con la scalata di Montedison avevamo sfiorato la Beresina.
  2. Piantedosi: "Avversari politici nel mirino" Gallo: "Lavoravo ai servizi con Mancini"
    monica serra
    andrea siravo
    milano
    Al settimo piano del palazzo di giustizia, il superpoliziotto in pensione Carmine Gallo è stato il primo ad arrivare. Non ha risposto alle domande del giudice che lo ha messo ai domiciliari. Si è limitato a qualche dichiarazione: «Per quarant'anni ho servito le istituzioni. Ho sempre collaborato con le istituzioni, lo farò anche questa volta e chiarirò tutto». Appena fuori, a chi gli ha chiesto come si sente nella veste di indagato si è limitato a tre parole: «È la vita».
    Per il pm Francesco De Tommasi, è lui il «capo indiscusso» della centrale dei dossieraggi di via Pattari. Per i carabinieri, «a oggi non sono emersi rapporti di natura stabile tra apparati dello Stato italiano e il gruppo». E non stabile? Intercettato, è Gallo a sostenere di aver lavorato per i servizi, con Giuliano Tavaroli e Marco Mancini: «Con Tavaroli eravamo amici una volta, quando lui era nell'Arma, mi ha fatto un sacco di favori quando era alla Tim. Poi ci siamo persi. Pure con Mancini eravamo amici. È tutta gente che ho conosciuto quando eravamo ai servizi, tutti insieme eravamo…in procura…Ovviamente gli ho fatto pure dei favori a lui, lui me ne ha fatti a me, parecchi eh…».
    Al netto dell'agente del commissariato di Rho interdetto, che ha ammesso di aver effettuato Sdi abusivi per conto di Gallo («Era stato il mio capo»), nessuno dei quattro arrestati ieri ha voluto rispondere alle domande del gip Fabrizio Filice. Ma Massimiliano Camponovo, socio dell'hacker Nunzio Calamucci, si è limitato a poche inquietanti dichiarazioni: «Ho percepito la presenza di una mano oscura che muoveva il sistema, per questo non facevo domande. Temevo per la sicurezza mia e della mia famiglia».
    Anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, tra le presunte vittime di Enrico Pazzali, presidente autosospeso della Fondazione Fiera – che avrebbe addirittura desiderato «un ufficio nell'Arcivescovado» – si è chiesto in questi giorni chi siano stati i mandanti: «A chi Pazzali non ha potuto dire di no? » . Se lo chiedono pure gli investigatori che stanno indagando su un possibile «secondo livello».
    Sarebbero state almeno 767 le vittime conteggiate dai carabinieri nelle ultime informative, da cui emergono nuovi dettagli. Come la conversazione intercettata sulla eventuale nomina di Beniamino Lo Presti come ad di Trenord. Il governatore lombardo Attilio Fontana avrebbe detto: «Nel caso, mi dimetto». O ancora, parlando delle consulenze effettuate per Eni – uno dei clienti del gruppo, che ha spiegato di non essere mai stato al corrente degli illeciti – Calamucci sosteneva: «Montiamo tutta la pantomima, non lo sapeva nessuno, solo Descalzi e Speroni…». Sono parole dell'hacker ma, a differenza del capo degli affari legali, l'ad della compagnia, Claudio Descalzi non è indagato.
    «Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci e undici! Poi rimetti anche gli elastici! » , diceva ancora Calamucci intercettato, mentre contava «mazzette di contanti», per un totale di 50 mila euro. È parte dei soldi cash che Leonardo Maria Del Vecchio avrebbe pagato alla banda per spiare familiari e fidanzata. Il fratello, Claudio, vittima di un finto dossier su un incontro con una transessuale a New York, ha depositato la nomina del suo avvocato in procura. C'è anche lui nella decina di vittime che si sono già rivolte ai magistrati.
    «Queste indagini pongono il tema della gravità di comportamenti di chi potrebbe utilizzare dati illecitamente acquisiti – ha detto al Senato il ministro Matteo Piantedosi – anche per attaccare gli avversari politici alterando le regole della democrazia».
  3. Umbria, la presidente era indagata per l'uso di fondi Ue
    Inchiesta su Tesei archiviata l'abuso d'uffcio non esiste più

    Troppi interessi in gioco. La governatrice dell'Umbria Donatella Tesei, quota Lega e ricandidata alle prossime regionali, e l'assessora alla programmazione europea, al bilancio e al turismo Paola Urbani Agabiti avrebbero dovuto astenersi dalla votazione sullo stanziamento di fondi europei per lo sviluppo rurale. Almeno questa era la tesi dei magistrati di Perugia che le avevano indagate per abuso d'ufficio. Ma il reato è stato abrogato e la procura ha chiesto l'archiviazione. Accolta dal giudice. La vicenda risale al 2021, quando la Regione predispone un bando dopo la pandemia per lo sviluppo di filiere agricole e circa tre milioni di fondi vanno all'azienda Urbani Tartufi. Un vero e proprio impero, con 14 sedi, 5 marchi e 300 dipendenti. La sede principale è a Sant'Anatolia di Narco, paesino di 564 abitanti. Urbani Tartufi ne è il fiore all'occhiello. Qui l'intreccio di conoscenze. L'azienda è gestita dal marito dell'assessora regionale. E lì lavora il figlio della presidente Tesei. In procura a Perugia arriva un esposto anonimo. E le indagini del nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza prendono il via. Gli accertamenti hanno riguardato due delibere di programmazione economica della Regione. Per i bandi si sono costituite associazioni temporanee di scopi e per quella del settore tartufo si sono messe insieme un centinaio di aziende tra cui quella del marito dell'assessora.
    «L'indagine era iniziata da tempo e già questo dimostra ancora una volta la correttezza dell'operato della mia amministrazione», dichiara la presidente, mentre la Lega alza il tiro e parla di «macchina del fango a orologeria» alla vigilia del voto. L'avvocato Nicola Di Mario, che assiste l'assessora Agabiti, aggiunge: «Anche se non fosse stata disposta l'abrogazione dell'abuso d'ufficio, la contestazione sarebbe risultata del tutto infondata».
    Il Pd attacca, M5s chiede chiarimenti. Il ministro Giorgetti, ieri ad Assisi per inaugurare la sede della Lega, commenta: «Penso che gli umbri sapranno valutare il lavoro fatto da Tesei». Caso archiviato. Non la querelle politica, a pochi giorni dal voto per il rinnovo di giunta e consiglio regionale.

 

 

 

31.10.24
  1. Uragano
    Mario Tozzi
    Mediterraneo
    Probabilmente si è trattato di un effetto "goccia fredda", una massa d'aria che si è separata dal flusso globale delle correnti che si muovono da Ovest verso Est e, questa volta, è atterrata in Spagna. Una prossima volta potrebbe investire l'Italia, un'altra la Turchia. Quello che è certo è che si tratta di una perturbazione meteorologica a elevatissima energia, come quelle che dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro, segnati come siamo da una crisi climatica senza precedenti. Il maggior contenuto energetico rispetto alle perturbazioni del passato spiega il fatto che in sole otto ore sia caduta, a Valencia, la stessa quantità d'acqua che, normalmente, cadeva in dodici mesi. Ma è l'avverbio "normalmente" che deve ormai essere abbandonato, in un contesto in cui non c'è più nulla di normale, se inteso come la regolarità di un certo tipo di clima a certe latitudini, il regolare alternarsi delle stagioni come le conoscevamo un tempo. Per questo ha pochissimo senso continuare a confrontarsi con il passato più lontano e si deve, invece, prendere come riferimento cosa è accaduto negli ultimi venti o trent'anni. La ricorrenza secolare dell'energia di certi eventi è spazzata via da quanto sta accadendo negli ultimi anni, un'accelerazione senza precedenti nel riscaldamento globale.
    Non siamo più di fronte ai fiumi ingrossati che esondano in pochissimo tempo (flash flood), che pure ci erano diventati famigliari, ma di fronte a una impressionante distesa di fango in movimento che ammanta ogni lembo di territorio e si scatena dove trova intoppi o infrastrutture chiaramente commisurate in altri tempi per altri climi. Anche in Spagna si è costruito molto e spesso in aree di pericolosità idraulica, ma le immagini dall'alto dell'Andalusia, specialmente se comparate con quelle delle isole Baleari dell'estate appena trascorsa, permettono di indicare chiaramente che qui caditoie e tombini, pulizia dei fiumi e nutrie c'entrano poco, qui l'unico territorio che c'entra è quello inesplorato in cui ci stiamo addentrando da un punto di vista climatico. Come conferma ciò che sta avvenendo lungo il margine settentrionale del Sahara e nella penisola arabica: alluvioni dovunque, con punte di 200 mm di pioggia in 48 ore per luoghi che ne registravano appena due in mesi.
    Decine di morti, danni che possiamo già stimare, globalmente, in miliardi di euro che hanno un solo responsabile, le attività economiche dei sapiens che hanno portato al record di concentrazione di CO2 in atmosfera e al record negativo di copertura glaciale sul pianeta Terra. Le notizie terribili che provengono dal clima che cambia violentemente dovrebbero spingere verso un'azione immediata e decisa l'umanità che, invece, continua a cullarsi nell'illusione che sarà il libero mercato a proporre soluzioni, quando è chiaro che è il problema. Il clima non ha confini, a prescindere da chi abbia contribuito di più (e, nel tempo, noi europei siamo senz'altro al primo posto), e necessita accordi internazionali obbligatori, non liberi, con organismi terzi di controllo, non basati sulla fiducia. Non c'è spazio per le vecchie soluzioni di adattamento, perché il clima cambia così velocemente che rischiano di diventare obsolete prima di essere messe in opera. Bisogna agire sulle cause, azzerare le emissioni clima alteranti, ma oggi, non nel 2050, perché non sappiamo come ci arriveremo.
    E in questa situazione catastrofica dobbiamo ancora perdere tempo con economisti senza scrupoli, pennivendoli della peggior risma, briganti e malfattori, mercanti di dubbi a un tanto al chilo che ci raccontano che, invece, le cose vanno bene e tutto dipende dal Sole o dai cicli di Milankovitch e dunque noi sapiens non possiamo farci un granché. E che Annibale aveva attraversato le Alpi e la Groenlandia era verde: un campionario di sciocchezze smentite dall'intera comunità scientifica di specialisti sul clima. Sulle cause dell'attuale crisi climatica la discussione fra gli scienziati si è chiusa da tempo con l'attribuzione delle responsabilità all'uomo, e si riaprirà solo con nuovi dati. Che al momento non ci sono. Ma restano i negazionisti, quelli che hanno come unico obiettivo prendere tempo per accumulare ancora profitti (questa l'unica ragione). Quando non sono ignoranti sono in malafede, ma comunque sono tutti correi, e a loro vanno assommate le enormi perdite di tempo, i tentennamenti, le incertezze, le politiche di contrasto deboli o inesistenti, così come i danni e le vittime. Almeno avessero, ora, il pudore di tacere. —
  2. Nei primi nove mesi capacità a 64,6 GW
    Enel, sempre più energie rinnovabili nel 2024 In Italia la produzione è in aumento del 19%
    Sempre più energia verde, in Italia e nel mondo. A spiegarlo è Enel, che ha pubblicato i risultati operativi di gruppo al 30 settembre 2024. Si conferma l'impegno verso la decarbonizzazione: a livello globale la capacità rinnovabile di Enel arriva a 64,6 GW - in aumento rispetto ai 58,5 GW dei 9 mesi del 2023 - e la produzione di energia da fonti rinnovabili sale del 13% a parità di perimetro. La produzione di energia elettrica ad emissioni zero del gruppo ha raggiunto l'84% del totale, in crescita rispetto al 73% dei nove mesi del 2023. Analoga la traiettoria di sostenibilità che emerge dai dati specifici sull'Italia, dove la produzione di energia elettrica da rinnovabili è in aumento del 19,8% rispetto ai primi nove mesi dello scorso anno. L'impegno per la decarbonizzazione del Paese si riflette anche nel peso crescente delle rinnovabili nel mix energetico. L'elettricità proveniente da fonti verdi è arrivata a coprire il 73,4% della produzione complessiva di Enel in Italia, anche in tal caso in incremento se paragonato al 49,5% dello stesso periodo del 2023.
  3. Le indagini, nessuna "clonazione" della mail di Mattarella L'ipotesi: la banda dei dossier aveva una talpa nel Cnaip
    Il pm: "A rischio interessi vitali di istituzioni e collettività" Oggi al via gli interrogatori

    monica serra
    milano
    Lo scrive il pm Francesco De Tommasi: «Le azioni commesse dal gruppo di via Pattari 6 mettono in pericolo interessi vitali delle istituzioni e della collettività».
    Per giustificare la necessità di fermare la presunta centrale di spionaggio con sede dietro al Duomo, aggiunge: «Significative sono le operazioni poste in essere per schermare le attività delittuose e allargare gli ambiti in cui condurre i traffici illegali di dati riservati, con il rischio che gli stessi possano finire senza autorizzazione "nelle mani" di agenzie straniere – agli atti l'incontro con due presunti 007 israeliani, ndr. – e che all'estero possa essere creata e detenuta una banca dati destinata a conservare le informazioni di volta in volta esfiltrate abusivamente». Tant'è che è stata creata una società "clone", la «Equalize Ltd a Londra» proprio dove, per l'accusa, «attraverso un gruppo di «ragazzi» coordinati da «Monica», il sodalizio avrebbe gestito gli accessi diretti al Ced Interforze e quindi alla banca dati Sdi»
    Ma c'è di più. Perché secondo quanto emerge dall'informativa dei carabinieri, la banda avrebbe avuto anche una talpa che girava «informazioni» drenate dal Cnaip, il Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture della polizia postale. «Ti faccio un esempio – diceva l'hacker Nunzio Calamucci – qua c'è il server del Ced… I miei ragazzi sono quelli che hanno fatto l'infrastruttura e fanno la manutenzione! È quello il trucco! La piattaforma attinge facendo il giro... perché il server ce l'abbiamo a Londra?... Perché se lo fai Italia su Italia, ci mettono le manette...».
    Grazie a tecnologie di altissimo livello, nella Equalize di Enrico Pazzali, il presidente autosospeso di Fondazione Fiera Milano e solo indagato, sarebbero riusciti a inoculare trojan sui cellulari delle vittime, a intercettare conversazioni, a schedare manager, imprenditori e politici. E tra gli strumenti a disposizione spunta anche «l'Usb Killer» pronta all'uso in caso di indagini e perquisizioni. All'apparenza una normale chiavetta che, inserita in un pc, sarebbe in grado di generare «sovraccarichi ad alta tensione danneggiandone irrimediabilmente i componenti e rendendo impossibile il recupero dei dati».
    Sempre grazie all'informativa, è possibile chiarire che non c'è stata alcuna «clonazione» della mail del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, come si legge nella richiesta di misura. I nuovi atti permettono di spiegare che in realtà si sarebbe semplicemente trattato di un'operazione del gruppo per far dimettere l'ad di una società, la Linea Verde. Operazione che sarebbe passata anche dall'invio a «vari indirizzi», da un «account di posta interno all'azienda», di una serie di mail, che apparivano inviate da un «dipendente anonimo» che voleva denunciare delle «irregolarità» all'organismo di vigilanza. Mail inviate, tra gli altri, anche all'indirizzo di Mattarella».
    Oggi la parola passa agli indagati ai domiciliari col braccialetto elettronico. Il gip Fabrizio Filice interrogherà il superpoliziotto in pensione Carmine Gallo e l'hacker Nunzio Calamucci, legato ad Anonymous. Entrambi sono ritenuti «capi dell'organizzazione» con Giulio "John" Cornelli. Ma saranno sentiti anche Massimiliano Camponovo, «principale addetto all'esfiltrazione dei dati», e i due appartenenti alle forze dell'ordine «infedeli» interdetti dal gip: un poliziotto del commissariato di Rho e un finanziere in servizio alla Dia di Lecce. —
  4. Il direttore dell'ospedale nel Nord della Striscia: "Una catastrofe". Primo discorso di Qassem, nuovo capo di Hezbollah: "La resa, mai"
    L'urlo dei disperati a Beit Lahia "Ho sepolto mio figlio nel cortile"
    Hussam Abu Safiyeh
    Nello Del Gatto
    Gerusalemme
    «Siamo sotto pressione e abbiamo chiesto a tutti di condividere con noi che c'è una guerra di sterminio in corso ora contro i cittadini nel Nord di Gaza e contro il sistema sanitario». Non usa mezzi termini il dottor Hussam Abu Safiyeh, direttore dell'ospedale Kamal Adwan a Beit Lahia, nel Nord della Striscia di Gaza. L'area è da oltre tre settimane assediata dall'esercito. Dei 400 mila rifugiati che qui avevano trovato riparo, oltre 50 mila sono già scappati. Secondo le autorità locali, sono più di mille le vittime dell'assedio. Tra queste anche il figlio del direttore dell'ospedale. E lui rincara la dose: «l'ho dovuto seppellire nel cortile dell'ospedale. È una guerra ingiusta, una guerra di sterminio contro i nostri figli, la nostra gente e i nostri bambini nel Nord di Gaza. Abbiamo bisogno di delegazioni mediche urgenti, soprattutto chirurghi. Non ne abbiamo nessuno. Abbiamo anche bisogno di ambulanze per raccogliere i feriti che sono sparsi in giro, sotto le macerie. Molti moriranno. Siamo talmente in difficoltà in ospedale che, chiunque lo raggiunga, muore». Il Kamal Adwan è stato anch'esso sotto assedio. L'esercito lo ha occupato per diversi giorni e tutta l'area della cittadina del Nord di Gaza è stata dichiarata zona disastrata. Solo qui sono state uccise 350 persone secondo il municipio locale.
    Il dottore parla di situazione catastrofica, dove non arriva nulla neanche cibo, acqua o altro tipo di aiuto. «L'ospedale – continua – è pieno di cadaveri. E quelli che non lo sono lo saranno presto. Non abbiamo nulla. Sono rimasti solo due pediatri. Ci arrivano continuamente pazienti feriti e non sappiamo come gestirli». Una situazione, questa, denunciata anche dal capo dell'organizzazione Mondiale della Sanità, Ghebreyesus che ha spiegato anche che l'ospedale è stato pesantemente danneggiato negli ultimi attacchi.
    Situazione difficile anche sull'altro fronte di guerra, in Libano. Dopo aver emanato un ordine di evacuazione, l'esercito israeliano ha colpito ripetutamente la città orientale di Baalbek. Decine di migliaia quelli che hanno lasciato la storica città libanese, patrimonio Unesco. Ore dopo l'avviso, un raid ha colpito una raffineria a Douris, nei pressi di Baalbek che, secondo i militari israeliani, si trovava in un compound militare dell'Unità 4400 di Hezbollah. Altri attacchi israeliani sempre nella valle della Bekaa, hanno provocato 26 vittime secondo il ministero della salute. I raid si sono verificati a Sohomor, Bednayel e Mazraat Beit Salibi.
    Dal Paese dei Cedri, per tutto il giorno, sono piovuti su Israele razzi e droni. Secondo i media locali, Netanyahu in una riunione avrebbe detto che gli obiettivi in Libano sarebbero stati raggiunti e si dovrebbe ora cercare di tradurli in un accordo per porre fine ai combattimenti. Domani gli inviati della Casa Bianca, Brett McGurk e Amos Hochstein, saranno in Israele per discutere dei due fronti.
    Ieri si è anche registrato il primo discorso di Naim Qassem come segretario generale di Hezbollah. Il nuovo leader del gruppo sciita ha promesso di seguire i «piani di guerra» del predecessore Hassan Nasrallah. «Vogliono che ci arrendiamo, ma non accadrà, anche se lo scontro è doloroso» ha detto. «Se Israele decide di fermare la guerra, acconsentiremo alle condizioni che vanno bene a noi. Finora, nessuna proposta accettabile è stata messa in discussione» ha spiegato Qassem. E a proposito dell'attacco alla residenza del premier israeliano, il segretario generale di Hezbollah ha minacciato che, dopo aver colpito la casa di Netanyahu, «questa volta è sopravvissuto ma potrebbe ancora essere ucciso. Magari da un israeliano mentre tiene un discorso».

 

 

 

30.10.24
  1. Tra i presunti clienti dell'agenzia anche Eni e Ilva: le informazioni usate come merce di scambio Il patto con gli 007 israeliani: "Dobbiamo fermare il finanziamento degli oligarchi russi alla Wagner"
    "Quegli incontri con il Mossad e il report per la Chiesa" Gli spioni: i pc sono dei servizi
    Il summit con gli israeliani
    Gli affari internazionali
    monica serra
    milano
    Sono le 8,48 dell'8 febbraio del 2023 e l'ex carabiniere del Ros con un passato anche al Sismi, Vincenzo De Marzio, entra nella centrale dei dossieraggi di via Pattari 6. Con lui ci sono due 007 israeliani. O meglio, come si legge nella maxi informativa dei carabinieri, «due uomini non identificati che rappresenterebbero un'articolazione dell'intelligence dello Stato di Israele».
    In ufficio è presente anche il presidente di Fondazione Fiera Milano Enrico Pazzali. Lui però non partecipa all'incontro che dura tutta la mattina per discutere di una possibile «partnership», un «do ut des», con l'accesso alle rispettive «fonti dati» ma anche la possibilità di ottenere un incarico per operazioni «cyber»: il monitoraggio degli attacchi di hacker russi, il contrasto ai mercenari del «Wagner Group», l'intercettazione dei movimenti bancari: «Dobbiamo fermare il finanziamento degli oligarchi russi all'armata Wagner! » .
    In cambio, propongono alla banda informazioni per Eni e sull'ex legale esterno Piero Amara (quello dei verbali sulla fantomatica loggia Ungheria). La compagnia petrolifera è uno dei «clienti più importanti» di Equalize per il pm che indaga su Stefano Speroni, il capo degli affari legali della società che, però, sottolinea di non essere mai stata al corrente delle attività illecite condotte dal gruppo dall'ex superpoliziotto Carmine Gallo. Nel suo archivio ci sarebbero anche «atti riservati di Eni».
    Ad annunciare i due ospiti l'hacker Nunzio Calamucci: «Ci hanno dato quaranta kappa fino a oggi, attraverso Enzo.. .mi hanno proposto un lavoretto da un milione! Metà dei dati li hanno dati al Vaticano, l'altra metà gli servono per combattere Wagner! » . Il contatto con loro è De Marzio: «Ho chiesto a Enzo: ma dove ca… li hai conosciuti questi? Mi fa... e sai quando ero giù mi fa, ho fatto due anni a Tel Aviv in Ambasciata... e loro lavoravano con me! ». Sempre loro - a detta di Calamucci - lo avrebbero «introdotto nell'Opus Dei».
    Quando si mette al lavoro è Calamucci a spiegare che si starebbe occupando di un report commissionato dalla Chiesa: «I dati mi servono per andare contro l'oligarca… il braccio destro di Putin, la Chiesa chiede quello. La aiutiamo la Chiesa contro la Russia o no? » . Gallo risponde: «Se ci paga… è stato sempre gratis». Scherzano: «Pro bono per il Papa?». Un lavoro che, sempre stando alle intercettazioni, sarebbe stato concluso: «Gli ho ricostruito tutto, compresi gli asset, le proprietà, le banche e tutti i documenti originali che ci hanno chiesto, perché si vede che li devono sanzionare o qualche cag…ta del genere…».
    Grazie alla «rete di contatti di primissimo livello» che «funge da schermo, da ombrello», «l'Insospettabile» Pazzali si muove con disinvoltura in ogni ambiente istituzionale. Addirittura viene notato aggirarsi nel corridoio della Dda di Milano, mentre è in corso un incontro degli investigatori con il pm Francesco De Tommasi sull'indagine in corso sulla banda.
    E ancora, più volte vengono annotati dai carabinieri nell'informativa presunti legami tra i componenti del gruppo e i servizi segreti. Non solo si ipotizza che Gallo abbia lavorato per un loro «gruppo di intelligence». Ma, è sempre un'intercettazione di Calamucci a spiegare: «Guarda che l'Aise è stata trasferita… tutti nostri computer sono i computer usati che hanno lì…tutti i computer che usano li quei ragazzi sono i Lenovo che danno a noi usati».
    Tra l'Iron app israeliana e la piattaforma Beyond, sono di «altissimo livello» tecnologie e sistemi informatici usati dal gruppo di via Pattari che avrebbe avuto tra i suoi clienti anche Ilva in amministrazione straordinaria e il gruppo di lottomatica Gamenet. Quando era iniziata a circolare la voce di una possibile indagine su Pazzali, quasi un anno prima dell'operazione della Dda di Milano, un sms anonimo è arrivato sul cellulare del manager: «Domani arriva avviso garanzia» da un cellulare che apparteneva a un «marocchino inesistente». Lui ha iniziato a preoccuparsi: «Avrà perso tre chili ieri sera... non ha dormito un ca…, ha vomitato tutta la notte, è andato in Guardia di Finanza... la Finanza gli ha detto... se fosse vero è peggio ancora…». Alla fine si è scoperto che l'autore era Calamucci «per rendere ancora più necessario il ruolo della sua Mercury in Equalize» mentre Pazzali voleva ridurne gli utili.
    Negli enormi archivi della banda c'era di tutto. Anche un elenco con i nomi dei magistrati italiani: «Quindi i prefetti li abbiamo caricati, i magistrati te li ho mandati ora, prova a guardare se ti è arrivata la mail». Gli investigatori ritengono che il gruppo «sia in grado di rilevare i dati presenti in specifici file Excel», un sistema a «pesca» che permette le ricerche su tutti i nominativi. Intercettato mentre osservava l'elenco, l'hacker Calamucci «nomina i pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari e ancora l'ex procuratore Francesco Greco». —
  2. Le manovre politiche di Pazzali "Schedate i fedelissimi di Moratti"
    Milano
    «C'è un sacco di gente, guarda se conosci qualcuno. Se c'é qualcuno d'interessante da verificare». «Sì, sì, li guardo tutti». È il 27 ottobre del 2022 ed Enrico Pazzali, presidente da lunedì auto-sospeso di Fondazione Fiera Milano (estranea ai fatti), figura chiave nell'inchiesta sugli spioni milanesi, chiede al suo socio, l'ex superpoliziotto Carmine Gallo di fare uno screening del consiglio direttivo della lista Lombardia Migliore di Letizia Moratti. Il motivo? L'ex assessore alla Sanità si è candidata a presidente della Lombardia contro il governatore leghista Attilio Fontana, ovvero il politico che insieme al sindaco di Milano Beppe Sala ha nominato Pazzali ai vertici di Fondazione Fiera.
    Il manager, secondo quanto contenuto nelle oltre tremila pagine di informativa del nucleo investigativo dei carabinieri di Varese, sarebbe affamato di informazioni da usare nella battaglia politico-elettorale. Nei mesi precedenti al voto del febbraio 2023 le ricerche si concentrano sugli uomini più vicini a Moratti. Si fanno accertamenti alla banche dati di polizia ma il finanziere Giuliano S. (in servizio alla Dia di Lecce e interdetto dal gip), che lavora per Equalize, fa anche una interrogazione Sdi generando una «ricerca globale» sul Tiziano Mariani, grande consigliere di Moratti. Qual è l'obiettivo? «Anche grazie alle informazioni ottenute nell'agosto 2022 su Mariani - si legge nell'informativa -, Pazzali approccia quest'ultimo per ottenere informazioni sulla campagna elettorale della Moratti e ne discute con Paolo Sensale (il portavoce di Attilio Fontana, non indagato) che sta curando le rilevazioni statistiche delle intenzioni di voto per le regionali».
    In un altro colloquio registrato dagli investigatori Pazzali fa anche valutazioni politiche. «Adesso non si può negare che la Meloni stia facendo bene…il tema vero è quello che ci sta intorno». Pazzali, poi, critica l'ipotesi (che forse avrebbe fatto desistere Moratti dal candidarsi) di farla ad delle Olimpiadi Milano Cortina. Anche sulla scelta di sfidare Fontana, però, è tranchant. «Letizia non doveva abbassarsi a questa roba qua» dice parlando proprio con Mariani.
    Ma questa è solo una delle tante pagine in cui la politica milanese, lombarda e nazionale incrocia le attività di Equalize. Pazzali avrebbe utilizzato le notizie raccolte dagli hacker che lavorano per lui come olio per le sue relazioni. C'è la ricerca di informazioni su Simona Gelpi - «mi arriva dalla Ronzulli, mi fa un po' paura» dice Pazzali a Gallo - e ci sono le ricerche su Ignazio La Russa e sui suoi figli, sul cui mandante si sta interrogando lo stesso presidente del Senato. Idem su Matteo Renzi. Pazzali fa un'interrogazione alla piattaforma Beyond che fa infuriare i collaboratori perché mette a rischio la sicurezza del gruppo. «Metti caso che io gli do rosso a Matteo Renzi, che ancora è in fase di trattativa della condanna...quello...» si lamentano.
    L'attività è trasversale agli schieramenti. Del resto, come spiega il capo degli hacker Samuele Calamucci al suo collaboratore Giulio Cornelli, «Lo Zio (uno dei nickname di Pazzali, ndr) anche se palesemente non lo dimostrerà mai….è sponsorizzato da Ignazio La Russa, Santanchè, Fontana, da tutta la parte, cioè da Silvio Berlusconi... Avendo lo sponsor di centrodestra i contatti sono settanta per cento centrodestra, trenta il resto». Le informazioni poi, come testimonierebbe una telefonata fra Pazzali e il ministro del Turismo Daniela Santanchè, avrebbero anche scopi molto concreti come cercare di bloccare le nomine dei «rivali».
    La politica, anche se non direttamente collegata alla raccolta informazioni, è sempre al centro dei discorsi degli indagati. Francesco Barletta, ex socio della Equalize, ma soprattutto ex consigliere di Leonardo e oggi vice presidente di Sea (anche lui autosospeso), credendo di essere in un luogo sicuro confida a un amico che la nomina di Matteo Salvini al Viminale nell'esecutivo Meloni sarebbe stata stoppata dagli 007 americani «in quanto sarebbero potuti emergere dossier sui finanziamenti della Federazione Russa alle organizzazioni politiche italiane». Storia che in queste ore, a Palazzo Chigi, avrebbe suscitato più di una risata.
    Oltre alle «spiate» politiche, naturalmente, ci sono poi quelle fatte esclusivamente per «fare il grano». Una delle vicende ricostruite nei dettagli dagli investigatori riguarda il banchiere Matteo Arpe che, insieme al fratello Fabio, si sarebbe rivolto a Equalize per scoprire a quanto ammonta il patrimonio dell'ultima moglie del padre. Notizie «da usare in sede di negoziazione extragiudiziale sull'eredità». Durante una videocall Calamucci spiega come Equalize sia in grado di arrivare ad acquisire dati bancari degli ultimi trent'anni.
    Nel mirino degli hacker, poi, c'è il mondo dello sport. Pochi giorni dopo aver conquistato l'oro olimpico a Tokyo tocca al velocista Marcell Jacobs. «Le analisi forensi», scrivono i carabinieri, «hanno permesso di accertare l'interessamento in intercettazioni illecite a carico di Jacobs e del suo staff» da parte di due indagati, Lorenzo Di Iulio e Gabriele Pegoraro. A commissionare le intercettazioni, per conto di un avvocato padovano in corso di identificazione, è Carmine Gallo. Ed è sempre Gallo che, parlando al telefono con Calamucci, racconta anche del possibile incarico per una bonifica. «Sono andato con Andrea De Donno (altro collaboratore esterno di Equalize, anche lui indagatio), perché…questo qua è il security manager della Roma Calcio». m. ser.
  3. I giovani scappano, a votare vanno i vecchi La mia Liguria non sa guardare al domani
    Visto che sono un incallito sinistrorso e un fiero erede dell'irriducibile gente Apua, ho diverse buone ragioni per non essere contento di come sono andate le elezioni in Liguria, ma più cogente è senz'altro lo smacco di un'orrida certezza, vedranno ancora i popoli d'Europa galleggiare, a pagamento, sui loro sacri fiumi la plastica rappresentazione del macchiettistico indecoro a cui si è ridotta l'idea stessa di Liguria, il mortaio gonfiabile, il più grande del mondo, e questo è un record che nessuno oserà contrastare, che già ha solcato il Tamigi al grido di "Pesto Master Piece o f Liguria".
    Era un'idea di Toti naturalmente, il presidente re dell'avanspettacolo, ma a Bucci piaceva un sacco, lui per il pesto ci va matto, e così quell'affare galleggerà a tempo indeterminato sulla nostra vergogna, finché alla fine dei tempi si sgonfierà e non si troveranno i soldi per mandare qualcuno a ridargli una gassata. E pensare che a me Marco Bucci mi è davvero simpatico; questo texano prestato all'inflessione genovese, questo cowboy del fare che fa il John Wayne al galoppo del ponte Morandi, come il grande John onesto ma onesto per davvero, e come il grande condottiero di mandrie di manzi e carovane di pionieri coltiva la sua onestà nel mezzo di saloon affollati da fuorilegge, salutando, se necessario, con un distaccato cenno e giocando una mano di poker solo se c'è da incastrare il baro. E comunque lui i saloon non li bazzica, lui ha da fare.
    Eppure non credo che Marco Bucci abbia vinto le elezioni essendo l'uomo del fare; infatti nella città dove sta ancora esercitando il suo secondo mandato di sindaco, e dove ha fatto e ha garantito che molto farà, ha perso, nettamente perso. Forse perché va bene il fare, a me compreso piace moltissimo fare e veder fatto, ma forse al verbo fare va aggiunto qualche straccio di complemento, cosa fare, come farlo e perché farlo, e quello scampolo di cittadini che ha avuto ancora voglia di esercitare la sua sovranità nell'urna, ha molto da ridire sui complementi. Intorno al fare un inciso sul metodo Morandi. Che si regge su tre pilastri. Il primo, è che il crollo del ponte ha subito assunto, e giustamente, lo status di tragedia nazionale, e la nazione intera, il governo e lo stato e l'opinione pubblica, se ne è presa carico, Genova non è mai stata lasciata da sola alla propria tragedia. Secondo, due giorni dopo il crollo il titolare di uno dei più grandi studi di architettura del mondo, Renzo Piano, se ne stava curvo su un blocco di carta a disegnare e disegnare e disegnare il ponte che sarebbe stato, non richiesto e non convocato se non dall'imperativo morale che alberga nel suo cuore; in tempi non immaginabili in una normale e non kantiana temperie, del suo lavoro ne ha fatto dono alla nazione. Terzo, il ponte San Giorgio è stato costruito in tempi record grazie alla deroga da praticamente tutti i lacci, laccioli e lacciacci di carattere normativo e burocratico. L'eccezione dalla norma può mai diventare la norma? Sarebbe bello allora che il metodo Genova fosse stato applicato, ad esempio, alle tre alluvioni di Emilia Romagna; non che non fosse richiesto dalle comunità, ma evidentemente la nazione, almeno nella parte di governo e stato, ha pensato che no, che le regole, andavano rispettate e meglio ancora complicate, aggiungendo non lacci ma nodi scorsoi che hanno dato i loro perversi frutti ben descritti anche da questo giornale.
    Almeno tecnicamente la vittoria a Marco Bucci gli è stata consegnata dal principato di Imperia. La ridente città di Imperia è sommariamente e impropriamente allegata alla regione, in realtà è proprietà della nobile e vetusta dinastia Scajola, quello della meravigliosa attestazione di insindacabilità nel «a mia insaputa». Imperia è dedita senz'altro al fare, propriamente al fare i propri interessi, di qualsivoglia natura, ed è sempre stato così, connaturato alla casata che presto, si vocifera, si unirà in federazione alla casata Grimaldi di Monaco in una nuova e stimolante prova di europeismo dei principati. Sia chiaro, in nome dei propri interessi il principato si è proficuamente concubinato con partner di vario colore senza star lì a spaccare il capello in quattro su questioni ideologiche o etiche; gli affari sono affari, e come non è stato Toti il primo a salire sulla ben salda passerella della barca di Spinelli, così con la casata hanno a suo tempo intessuto buone relazioni anche i passati regimi vetero comunisti. E qui c'è una ragione, una delle ragioni, per quello che conta pur onorevole, della sconfitta di Andrea Orlando. Troppi vecchi elettori di sinistra, e i loro nipoti a cui si sono dedicati nella pratica memoriale, ricordano con dolore, con astio, con disincanto, come la sinistra che per decenni ha retto la regione e le sue città, abbia presto dimenticato di governare per dedicarsi al potere. Potere non è sinonimo di governo, nella fattispecie ligure, è gestione delle rendite di posizione, è infine immobilismo, ostracismo verso i non sodali, malgoverno in nome degli interessi particolari avverso all'interesse generale. Ricordano la disinvoltura con cui la sinistra non ha governato, non ha voluto governare, gli appetiti che hanno consunto e disfatto l'incalcolabile patrimonio naturale riducendo la regione a un mostruoso anfiteatro di cemento, a un forsennato e suicida estrattivismo turistico coronato nella gestione Toti, cinica fino all'insensatezza. Ricordano l'abbandono delle periferie al degrado persino umano, l'incapacità anche solo di immaginare una soluzione progressiva alla grande crisi dell'economia industriale, il mai contrastato avvilimento della dignità di una lunga storia di aristocrazia operaia e artigiana. La supponenza, la strafottenza di coloro che si ritenevano il potere un diritto acquisito ab aeternum. Andrea Orlando non era dei loro, se no altro per anagrafe, ma non è abbastanza diverso per chi sarebbe stato attratto da un radicale mutamento fisiognomico, da una voce davvero nuova, mai ancora ascoltata ma persistente in ciò che rimane di una qualche attrattiva per i potenziali elettori di sinistra, quelli che si astengono per sfinimento, avvilimento, incredulità, l'idea, l'ideale, il disegno, il progetto. Che paesaggio intendi ricreare perché io trovi il mio posto per viverci con dignità e promettenza? In verità questo non è un problema di Orlando, ma di tutto il personale che si riterrebbe pensante nel campo progressista. Ci sono le parole d'ordine, anche ossessive, ma il grande disegno affascinante, convincente, coinvolgente, aggregante al suono di progressisti d'Italia unitevi, l'avete mai sentito, mai visto? Non basta il fare e nemmeno il dire, ci vogliono i complementi.
    Ma c'è una ragione che si impone sulle altre, e lascio perdere le solite divisioni, bisticci eccetera. La Liguria è vecchia, è la regione più vecchia d'Italia e magari del mondo. I pochi giovani sono invitati a sloggiare, o invitati a restare con il miraggio di abboffarsi delle opportunità di un'economia d'accatto, c'è un gran bisogno di camerieri, di guardaporta per gli affitti brevi, aiutocuochi e lavandai, frullatori di pesto, roba così. Restano i vecchi e i vecchi non hanno un domani, hanno solo l'oggi, arrivare a sera sani è salvi è già un progetto. Per questo non mi ha stupito il risultato elettorale, sono loro che vanno a votare e votano per arrivare a sera senza troppe noie e inciampi. Votano loro e chi ha degli interessi per farlo, non interesse, dico interessi. Interessi che in Liguria sono di norma piuttosto meschini. I balneari, tanto per dire, i detentori di ciò che resta delle rendite di posizione, tutta roba che ha a che fare con la vecchiezza morale e mentale se non fisica. Faccio solo un esempio, ed è esempio luminoso. Monterosso al Mare, la perla delle Cinque Terre, ha rifiutato un finanziamento milionario per la realizzazione di uno scolmatore del torrente che attraversa il paese e ha scatenato l'alluvione micidiale dell'11. La ragione del rifiuto sta negli interessi altrimenti lesi e compromessi dell'industria del turismo che avrebbe avuto per un paio di anni lo scomodo dei movimenti di macchinari ingombranti, e rumorosi e sporcaccioni, oltre, ci mancherebbe, gli interessi dei confinanti lo scolmatore che verrebbero infastiditi o addirittura alienati di preziosissimi metri quadri di proprietà. Per i bravi cittadini di Monterosso il domani non esiste, fatta eccezione per quello che si troveranno in tasca domani. E questi del grande disegno non sanno proprio che farsene. Concludo con un'invocazione per il nuovo presidente Marco Bucci. La scorsa settimana l'ho ascoltata alla trasmissione radiofonica Un Giorno da Pecora rispondere alla domanda se tifa per la Harris o Trump, «io sto con Trump»; mi permetta presidente di farle notare come l'idea del fare di Trump sia un filo difforme dai principi sanciti in questo Paese riguardo alla costituzionalità, alla legalità, alla fedeltà e all'onore nell'agire di una carica pubblica. Mi rassicuri pertanto che nella disgraziatissima mancata elezione al suo secondo mandato non intenda scatenare la prima guerra civile di Liguria. —el feudo degli Scajola "Abbiamo fatto vincere il candidato migliore"
    Marco Sodano
    imperia
    Se di Scajola bisogna parlare, dal punto di vista politico, si deve tornare a Ferdinando. Nato a Frascati nel 1906. Riassumiamo: iscritto al Partito Popolare, amico di Alcide De Gasperi. Il regime fascista lo inserì nella lista dei sorvegliati. Nel 1936, dopo la laurea in Economia, si stabilì a Costarainera (Imperia). Quattro i figli: Alessandro, Maurizio, Maria Teresa e Claudio. Ebbe un ruolo nella lotta di Liberazione in Liguria e poi fu eletto primo segretario provinciale Dc. Nel 1946 entrò nel consiglio comunale di Imperia. Fu nominato sindaco (1951) e rieletto in consiglio comunale. Morì il primo giugno 1962. Tra i figli di Ferdinando merita una menzione anche il più anziano, Alessandro, (1939, Frascati), sindaco di Imperia e deputato Dc tra il 1979 e il 1987.
    Inquadriamo adesso Marco, figlio di Alessandro e nipote di Claudio (è suo zio), oggi cinquantacinquenne e attuale assessore della Regione Liguria. «Mi sono dedicato molto alla vita politica, è il mio modo per mettermi al servizio degli altri». Lo ha fatto spesso: militante di Fi, in consiglio comunale poi ancora capogruppo (Fi), assessore e vicesindaco a Imperia. «Ho fatto la gavetta tra gli Azzurri, a partire dal basso». Eletto per in Regione Liguria nel 2010, è stato consigliere regionale d'opposizione. Nelle giunte Toti è stato invece assessore regionale all'Urbanistica della Liguria. «Ferdinando – spiega Marco –, va ricordato come capostipite politico. I modi, la passione, gli intenti, il desiderio di mettersi al servizio degli altri e la determinazione, nel senso di crederci e di impegnarsi sempre al massimo per gli altri». Dicono di Marco: la sua forza è l'empatia, la capacità di ascoltare gli altri, di mettersi nei loro panni e di spendere un sorriso per tutti. Gran lavoratore, serio e preparato.
    C'è poi Claudio, nato nel 1948 e oggi sindaco di Imperia, lo è stato quattro volte. Ministro della Repubblica, amico di Silvio Berlusconi, nei suoi ruoli di governo lo stesso Berlusconi lo ha nominato ministro in diverse occasioni: dello sviluppo economico, delle attività produttive, del programma, dell'Interno in diversi governi Berlusconi. Più volte chiamato a rispondere in Tribunale in quanto politico: è stato assolto per la famosa vicenda della casa romana vista Colosseo (quella dell' "a sua insaputa") e altre tre volte. Sei volte archiviato, tre prescritto, chiamato a testimoniare sul Mose. Ad oggi condannato per procurata inosservanza nel Caso Matacena, due anni, primo grado.
    «Mio zio Claudio è un grande politico», dice Marco. «Da lui e da mio padre ho imparato molto, per esempio la capacità di dare il massimo sempre con determinazione e coraggio. Mi piace lavorare, studio le cose nei dettagli, voglio essere concreto». Marco è anche psicologo clinico e psicoterapeuta, ha compiuto i suoi studi tra Torino e Siena.
    È anche, a buon diritto, uno dei protagonisti della vita politica della Liguria dell'ultima tornata elettorale: alle Regionali di domenica e lunedì è risultato primo eletto di Forza Italia con 6308 voti che lo proiettano verso un altro ruolo importante. Primo eletto di Forza Italia e di tutto il centrodestra. Confermando praticamente gli stessi voti presi quattro anni prima con una lista civica e dimostrando che le persone votano lui, la persona, non tanto i simboli. D'altra parte ha intercettato milioni di fondi per l'entroterra e non solo, interpretando la pancia della gente ed essendo costantemente presente. «Ho contribuito a scegliere il candidato migliore e poi lavorato molto per e con lui», ha detto Claudio lunedì sera. Lo direbbe anche Marco. Ultimo dettaglio: A 14 anni, da "primino", fu in consiglio d'Istituto al liceo. —
  4. La strage
    bambini
    dei
    Fabiana Magrì
    Senza cibo e cure, la sopravvivenza di 100 mila persone è a rischio, nel Nord di Gaza. È la denuncia della protezione civile palestinese a cui si aggiunge l'allarme del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite. La mancanza di scorte alimentari e mediche, con l'avvicinarsi dell'inverno, può portare con sé «conseguenze catastrofiche» per oltre il 90% della popolazione, mette in guardia il Wfp.
    «Come sopravviveremo senza farina?», si chiede Om Sohay, un palestinese nella Striscia in contatto con la Bbc Arabic, all'indomani della decisione della Knesset, il parlamento di Gerusalemme, di mettere al bando l'Unrwa dalle aree sotto il controllo di Israele. La maggior parte dei rifugiati e degli sfollati «dipende» dall'agenzia delle Nazioni Unite, racconta Ghada Oudah al programma Newsday di Bbc World Service.
    È un diluvio di preoccupazioni, moniti e accuse durissime, quello piovuto su Israele, mentre da tre settimane i raid di Tsahal stanno rivoltando ogni angolo di Jabalya, Beit Lahia e Beit Hanun, per «reprimere i tentativi di Hamas di riorganizzarsi», ribadiscono i portavoce militari. Nella notte tra lunedì e martedì un attacco aereo ha centrato una palazzina di cinque piani a Beit Lahia. Hamas conta i morti, «almeno 93» e centinaia di feriti. Che non hanno potuto ricevere cure – denuncia il ministero della Salute di Gaza – poiché i dottori sono stati costretti a evacuare l'ospedale Kamal Adwan: «i casi critici, senza intervento, soccomberanno al loro destino e moriranno». Il direttore della struttura, Hussam Abu Safiya, ha aggiunto che «quasi tutto il personale medico è stato arrestato. Sono rimasti pochi infermieri e un paio di dottori che devono prendersi cura di 150 pazienti». A fine giornata, fonti mediche citate dalla testata qatariota Al-Jazeera contano 132 morti nel Nord dell'enclave palestinese. L'esercito israeliano si dissocia dal bilancio «impreciso» e insiste che i dati forniti dalle fonti della fazione palestinese siano gonfiati, «come è stato dimostrato in diversi eventi precedenti». E il Cogat (l'ente israeliano di coordinamento con i territori palestinesi) precisa che «88 pazienti, per lo più bambini, oltre a operatori sanitari e personale, sono stati trasferiti in altri ospedali attivi nella Striscia» e che «il trasferimento è stato effettuato su richiesta di Tsahal, in coordinamento con la comunità internazionale e i funzionari del ministero della Salute» di Gaza.
    Ci prova la Bbc a fare chiarezza. Incrociando le immagini girate sul campo, individua la posizione del raid israeliano. Tuttavia non arriva a identificare quale edificio sia stato colpito. Sono troppe le macerie per raggiungere la certezza. Dall'indagine, la testata britannica riesce a determinare che «due video mostrano quelli che sembrano essere 13 corpi avvolti in coperte».
    Sui minori, vittime a Beit Lahia, si inserisce l'Unicef: ci sarebbero «anche 20 bambini» morti. Per la direttrice generale dell'agenzia Onu, Catherine Russell, sono loro che a Gaza «stanno pagando con le loro vite e il loro futuro» e «colpirli è diventato una scandalosa normalità nella Striscia».
    L'Unicef si spinge a dire che la decisione di Israele di bloccare l'Unrwa potrebbe causare la morte di un numero maggiore di bambini e rappresentare una forma di punizione collettiva. Anche gli Stati Uniti sono «profondamente turbati». Il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller assicura che le autorità statunitensi parleranno con il governo israeliano per approfondire il «come» intendano attuare la legge. Una norma che «pone rischi per milioni di palestinesi». Om Yousef, un palestinese di Gaza, ha espresso a Bbc Arabic la sua preoccupazione e parla di «decisione sbagliata perché veniamo curati tramite l'Unrwa e i nostri figli vengono istruiti nelle loro scuole».
    Gli Stati Uniti pretendono da Israele che si faccia carico della crisi umanitaria a Gaza. «Respingiamo qualsiasi tentativo di far morire di fame i palestinesi», ha ribadito l'ambasciatrice americana all'Onu, Linda Thomas-Greenfield in sede di Consiglio di Sicurezza. E quindi deve consentire l'ingresso di cibo, medicine e altri aiuti in tutta la Striscia e «in particolare nel Nord».

 

 

 

29.10.24
  1. PER CHI LAVORA VERAMENTE LA SOGEI ?   un archivio da 800mila dati ottenuti introducendosi illecitamente all’interno di una serie di banche dati nazionali, anche su commissione. A fare luce su una rete articolata di professionisti dello “spionaggio digitale” è la procura di Milano, che ha indagato 60 persone tra hacker, consulenti informatici, agenzie private di intelligence ed esponenti delle forze dell’ordine. Quello che si è aperto di fronte agli inquirenti, stando alle parole del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo, che ha partecipato alla conferenza stampa del Procuratore generale di Milano, Marcello Viola, è “un gigantesco mercato delle informazioni riservate”. L’inchiesta della Procura di Milano arriva a pochi giorni di distanza dal caso di presunta corruzione che ha riguardato i vertici di Sogei, società controllata dal Mef, che a catena ha impattato anche su Tim ed Ntt Data.

    L’inchiesta di Milano
    A eseguire l’ordinanza del Gip Fabrizio Felice sono stati i militari del Nucleo investigativo dei carabinieri di Varese: agli arresti domiciliari sono finiti l’ex poliziotto Carmine Gallo e altre tre persone, mentre sono stati interdetti per sei mesi dalla professione un maresciallo della guardia di finanza in forza alla Dia di Lecce e un agente di polizia del commissariato di Rho. L’inchiesta ha inoltre portato al sequestro di tre società di investigazioni private.

    Le accuse su cui gli inquirenti procedono sono di associazione a delinquere dedita all’accesso abusivo a sistema informatico, intercettazioni illegali, falsificazione di comunicazioni informatiche, rivelazione di segreto, favoreggiamento ed estorsione.

    Le indagini hanno portato anche al sequestro dell’archivio dell’ex poliziotto Carmine Gallo, sopratutto cartaceo, di cui si sente parlare nelle nelle intercettazioni e che sarebbe stato custodito un un garage.

    Le richieste dei clienti
    L’organizzazione individuata nel corso delle indagini si metteva a disposizione di clienti che erano disposti a pagare per ottenere informazioni riservate che gli indagati potevano ottenere “forzando” l’accesso a banche dati private.

    Tra i soggetti che si sarebbero messi in contatto con l’’organizzazione per chiederne i servizi le indagini hanno individuato tra gli altri Leonardo Maria Delvecchio, figlio del fondatore di Luxottica, il banchiere Matteo Arpe e un manager di Barilla.

    Tra le richieste che venivano indirizzate all’organizzazione c’erano ad esempio l’ottenimento di informazioni o il “monitoraggio” dell’attività di persone specifiche, anche per motivi sentimentali, la richiesta di dati che avrebbero potuto rivelarsi utili per la risoluzione di controversie o ancora la necessità di capire quali fossero stati i canali informativa che avessero consentito a un giornalista di arrivare a pubblicare uno scoop. Ma più in generale a rivolgersi al gruppo sono studi legali o imprese che vogliono perseguire tramite l’accesso a informazioni riservate un vantaggio per la propria attività.

    Le modalità d’azione
    Secondo la ricostruzione del pubblico ministero della Dda Francesco De Tommasi e del sostituto della Dna Antonio Ardituro al centro della vicenda ci sarebbe la società Equalize srl, fondata proprio da Carmine Gallo, passato alla sfera delle investigazioni private dopo 40 arri di carriera in polizia. La società di business intelligence, risulta dalle indagini, arrivava a fatturare quasi 2 milioni di euro, con utili da 648mila euro, che l’ex poliziotto avrebbe spartito con un’altra figura chiave dell’inchiesta, Enrico Pazzali, presidente di Fondazione Fiera Milano, già manager di Eur, Vodafone, Regione Lombardia, Sogei e Poste Italiane.

    Secondo quanto emerso dall’inchiesta Pazzali, identificato come il “numero uno” di Equalizer, avrebbe utilizzato la società per “danneggiare l’immagine dei competitors” o “avversari politici” suoi e di “persone a lui legate”. Tra i bersagli dell’attività illecita ci sarebbero stati, secondo quanto appurato dagli inquirenti, figure di primo piano del mondo economico e imprenditoriale italiano, come ad esempio Giovanni Gorno Tempini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti. Nelle 518 pagine della procura compaiono inoltre tra le vittime il presidente del Milan Paolo Scaroni, io giornalisti Giovanni Dragoni e Giovanni Pons, in forze rispettivamente al Sole24ore e a Repubblica.

    Dagli atti dell’inchiesta emergono inoltre presunti dossier su cittadini russi. Samuele Calamucci, hacker del gruppo, intercettato parla di un “report” su un “famoso oligarca russo” e in altri passaggi i pm scrivono che si è cercato di accertare l’identità del russo e l’unico elemento è “una vicenda che vede coinvolti dei cittadini russi-kazaki (Victor Kharitonin e Alexandrovich Toporov)” e “la costruzione di un hotel a Cortina d’Ampezzo e la gestione di svariati resort di lusso”. Un accesso abusivo, poi, avrebbe riguardato Vladimir Tsyganov e Oxana Bondarenko, attivi nel settore moda.

    I passaggi dell’indagine
    Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti negli ultimi giorni del 2023 gli indagati avrebbero iniziato a sospettare di essere finiti nel mirino di un’inchiesta. Il 26 dicembre, infatti, Carmine Gallo e l’hacker Nunzio Samuele Calamucci vengono a conoscenza del fatto che la vigilanza attiva sulla rete informativa di Heineken Italia “si è accorta dell’installazione del ‘tools’ d’intercettazione sulla propria rete informatica, rilevandola come un attacco alla sicurezza dell’infrastruttura”.

    Da quel momento inizia un’attività che gli inquirenti definiscono “frenetica” di distruzione di tracce e prove: chat di telegram e altri servizi di messaggistica, documenti cartacei, informazioni riservate ottenute hackerando alcune delle principali banche dati nazionali, pari a “Ottocentomila Sdi”, almeno “15 terabyte”.

    I prossimi passi
    Dopo i dettagli resi noti nel fine settimana, le indagini della procura di Milano proseguono e si indirizzano ad accertare se siano avvenute vendite di dati al di fuori dei confini nazionali, dal momento che gli indagati, secondo la ricostruzione degli investigatori, avevano rapporti che spaziavano dalla criminalità organizzata ai servizi segreti, anche all’estero.

    Sono intanto in programma nei prossimi giorni, a partire da giovedì 31 ottobre, gli interrogatori di garanzia, davanti al gip di Milano Fabrizio Filice, delle persone destinatarie di una misura cautelare, di cui quattro agli arresti domiciliari: tra loro Carmine Gallo in qualità di ad di Equalize e i tecnici della sua squadra, Nunzio Calamucci, Massimiliano Camponovo e Giulio Cornelli.

    Butti: “Istituire l’Agenzia del dato“
    Sul caso dei dossier illegali è interviene Alessio Butti, sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega all’innovazione tecnoliogica: “In Italia scontiamo un ritardo di consapevolezza su quella che è la cultura del dato – afferma a margine di un evento a Milano – E lo stiamo scoprendo ora, ovviamente constatando questi danni. Quindi io penso che la cosa migliore sia costituire una sorta di agenzia del dato, che sovrintenda ovviamente tutto ciò che riguarda la qualità del dato ma anche al fatto che questo dato non possa essere sottratto o non possa essere indagato da soggetti che non hanno alcuna competenza”. “Allora anche in questo caso la tecnologia ci viene in aiuto. Io penso che il riconoscimento biometrico facciale, ad esempio per i soggetti che devono accedere a determinate banche dati sia fondamentale – ha concluso – così come sia fondamentale garantire un controllo rispetto al flusso dei dati. Cioè bisogna capire chi entra in un sistema e poi che cosa ne fa”. “Su questo stiamo lavorando – conclude – e non escludo che nelle prossime settimane, nei prossimi mesi ci sia già una risposta tecnica e legislativa”.

    Il caso Sogei
    E’ della scorsa settimana il “caso Sogei”, emerso dall’ indagine della Procura di Roma avviata da alcuni pm capitolini, tra cui Paolo Ielo, per corruzione e turbativa d’asta, che ha portato all’arresto, tra gli altri, di Paolino Iorio, ex dg di Sogei, braccio informatico del Tesoro, e dell’imprenditore Massimo Rossi.

    Secondo l’ipotesi accusatoria formulata dai pm capitolini Gianfranco Gallo e Alessandro Picchi, il procuratore speciale di Tim avrebbe ricevuto “in due occasioni” denaro “non dovuto” dall’altro indagato “per compiere atti in violazione degli obblighi inerenti al suo ufficio e comunque in violazione degli obblighi di fedeltà”.

    In particolare, il procuratore di Tim avrebbe ricevuto 50 mila euro il 22 febbraio 2024 e una somma non quantificata il 15 maggio 2024. I due procuratori sono emersi come “soggetti di interesse investigativo” durante un atto di indagine della guardia di finanza con riferimento all’imprenditore Massimo Rossi, arrestato in una diversa inchiesta giudiziaria assieme all’ex Dg Business di Sogei, Paolino Iorio.

    Un segmento dell’inchiesta ha inoltre riguardato “due soggetti, rispettivamente procuratori delle società quotate Tim e Ntt Data Italia, per l’ipotesi di corruzione tra privati”, si legge in una nota delle Procura. “Le perquisizioni sono eseguite presso i domicili dei soggetti nonché taluni uffici delle menzionate società – prosegue la nota – Il provvedimento in questione è stato emesso nell’ambito della fase delle indagini preliminari allo stato delle attuali acquisizioni probatorie ed è doveroso sottolineare che sino a un giudizio definitivo vale la presunzione di non colpevolezza degli indagati”. A finire nel registro degli indagati, in questo caso, Simone De Rose, dirigente di Tim, ed Emilio Graziano, procuratore di Ntt Data Italia.

    De Rose in Tim è responsabile dal 2019 nell’ambito della funzione Procurement per gli acquisti It e Ict Business. Nel dicembre 2021 era stato nominato ad interim responsabile della funzione Procurement.

    L’inchiesta è un segmento di quella, avviata da alcuni pm capitolini tra cui Paolo Ielo, per corruzione e turbativa d’asta che ha portato all’arresto, tra gli altri, di Paolino Iorio, ex dg di Sogei, braccio informatico del Tesoro, e dell’imprenditore Massimo Rossi. Secondo l’ipotesi accusatoria formulata dai pm capitolini Gianfranco Gallo e Alessandro Picchi, il procuratore speciale di Tim avrebbe ricevuto “in due occasioni” denaro “non dovuto” dall’altro indagato “per compiere atti in violazione degli obblighi inerenti al suo ufficio e comunque in violazione degli obblighi di fedelta’”. In particolare, il procuratore di Tim avrebbe ricevuto 50 mila euro il 22 febbraio 2024 e una somma non quantificata il 15 maggio 2024. I due procuratori sono emersi come “soggetti di interesse investigativo” durante un atto di indagine della guardia di finanza con riferimento all’imprenditore Massimo Rossi, arrestato in una diversa inchiesta giudiziaria assieme all’ex Dg Business di Sogei, Paolino Iorio.
  2. Gli indagati hanno cercato di far sparire i documenti, ma in un garage sono state trovate "migliaia di cartelle" Adesso si segue la pista estera: il gruppo aveva appoggi anche in Inghilterra, sequestrato un server in Lituania
    Trovato l'archivio delle spie "Con il cellulare criptato Gallo parlava ai Servizi "

    milano
    In un cassetto della scrivania del superpoliziotto in pensione Carmine Gallo, per anni colonna portante dell'Antimafia milanese, era custodito anche un cellulare criptato. Ne è convinto il pm Francesco De Tommasi. E ancora lo cercano i carabinieri del Nucleo investigativo di Varese che, nel pomeriggio di venerdì, quando sono scattati arresti e perquisizioni non lo hanno trovato. Si legge, infatti, nella richiesta di misura cautelare che «il capo indiscusso» della presunta organizzazione, finito ai domiciliari col braccialetto elettronico, «ha anche la disponibilità di un telefonino criptato, che usa per le comunicazioni più riservate relative alle attività criminose del gruppo».
    Viene annotata in particolare la sintesi di una conversazione del 4 ottobre del 2022 «con agenti dei Servizi segreti», sottolinea il pm. È Gallo a spiegare al telefono «che tipo di servizi offrono e che tipo di accertamenti e consultazioni riescono a fare» alla Equalize. Si vanta che «rispetto ai loro sistemi, lo Sdi non è nulla». Poi, si legge ancora negli atti, Gallo «mostra con ogni probabilità il cellulare agli interlocutori» presenti in ufficio, spiegando che si tratta di «un telefono fuori rete» che non utilizza sistemi di messaggistica come WhatsApp e Signal «in quanto non sicuri».
    «La complessità delle contestazioni richiede l'adozione delle più opportune cautele nel primario interesse dell'amministrazione della giustizia. Gallo chiarirà la sua posizione non appena ci sarà la piena discovery di tutti gli atti d'indagine, a oggi depositati», annunciano i suoi avvocati Antonia Augimeri e Paolo Simonetti, sottolineando che l'ex superpoliziotto ripone «piena fiducia nel percorso processuale che vedrà riconfermata la sua storia di onore e impegno verso le istituzioni».
    Giovedì, sarà interrogato dal gip Fabrizio Filice con gli altri indagati, mentre da tempo il pm Francesco De Tommasi ha presentato l'appello al Riesame contro il rigetto delle misure cautelari che aveva richiesto. In tutto sedici: il carcere, tra gli altri, per Gallo e il braccio destro Nunzio Camillucci, i domiciliari per «lo zio bello» Enrico Pazzali, presidente di Fondazione Fiera.
    Nonostante la pulizia fatta negli uffici della centrale dello spionaggio quando la banda capisce di essere a rischio, «così siamo a posto, non dobbiamo avere nulla qua», parte dell'archivio è stato sequestrato nel garage della segretaria di Gallo. «Quasi quindici, sedicimila schede personali di soggetti, ma non solo soggetti mafiosi, anche non mafiosi» e «la mappa delle famiglie calabresi in Germania, che me la sono presa dai tedeschi quando sono andato li per Duisburg, un attimo che si sono distratti». «Tantissimo materiale» come un «database che non ce l'ha nessuno... tutti i sequestri di persona, i tentati sequestri di persona dal Sessanta ad oggi».Montagne di atti e documenti che saranno analizzati assieme ai dispositivi informatici del gruppo, da un pool di tecnici dei carabinieri del Ros che dovrà scandagliare ogni singolo dato ritenuto illecito.
    Non basta. Tanto materiale si trova anche in Inghilterra e in Lituania. Nel Regno Unito c'era una società «gemella» mentre la scelta di un Paese dell'Est era nata per aggirare eventuali inchieste giudiziarie. La piattaforma Beyond, a disposizione della banda «è collegata a due server centrali, uno situato a Londra e uno in Lituania». In un'intercettazione, è Calamucci a svelare: «Noi abbiamo un server fisico che è qua... E poi il data center. Ho fatto delle unità di backup, una nella sede di Londra e un altro in Lituania, ti dico la verità perché era il posto più economico per comprare i server».
    Calamucci spiega a Pazzali che «la collocazione di server all'estero è finalizzata a rendere più difficili eventuali indagini da parte degli inquirenti italiani» si legge negli atti. «La Guardia di Finanza cosa mi chiederà se viene qua a rompermi i co…ni? Una copia del server italiano, una copia del server in UK e una copia del server in Lituania. Noi, poi noi qui con questo di Milano, gli UK e in Lituania diciamo che è un peccato che non lo troviamo...». Chiarisce Calamucci: «Prendi e fai una rogatoria, vai a vedere, quando arrivi in Lituania...». Gallo è lapidario: «Poi nessuno andrà in Lituania a vedere...».
    Non è così. La procura diretta da Marcello Viola ha infatti sequestrato il server in Lituania e sta valutando l'ipotesi di una rogatoria in Inghilterra
  3. Il presidente cede alle pressioni interne. Al suo posto deleghe a Corritore, già dg del Comune
    Pazzali si autosospende da Fiera Milano l'imbarazzo di Fontana che lo aveva difeso

    Francesca Del Vecchio
    Milano
    Enrico Pazzali si autosospende dalla presidenza della Fondazione Fiera Milano. Dopo l'inchiesta sui dossier illegali fabbricati dalla società Equalize di cui era azionista al 95% e su pressione di più parti politiche - «Mi sarei aspettato un passo indietro», dice il capogruppo al Senato Pd Francesco Boccia - lo ha comunicato al comitato esecutivo della Fondazione ieri sera, in una seduta anticipata di 12 ore rispetto a quanto atteso. Il board era stato convocato straordinariamente già ieri mattina da remoto per una informativa da parte dello stesso Pazzali (durata 4 ore) che, assistito dai suoi legali, aveva illustrato la situazione giudiziaria. Nella riunione il manager aveva di fatto preso tempo, senza tentare di minimizzare la portata dell'inchiesta e pur non essendoci stata una formale richiesta di dimissioni. Ma il comitato era stato chiaro: «Va tutelata l'immagine dell'Ente». Che il clima dalle parti di Largo Domodossola fosse teso, comunque, lo si intuiva già dai cancelli insolitamente sbarrati e dalla circospezione di vigilanti e addetti all'ingresso.
    In serata, poi, dopo 12 ore di «approfondimenti», l'accelerazione: così, intorno alle 21, Pazzali ha formalizzato davanti al comitato quello che nell'ambiente vicino ai vertici era dato come l'unico esito possibile, precisando di «volersi concentrare sulla sua difesa». A prendere le sue deleghe, per il momento, sarà il vicepresidente vicario Davide Corritore, un passato da presidente della partecipata del Comune di Milano MM, da vice in Sea (compagnia che gestisce il traffico aeroportuale milanese) e da direttore generale del Comune con Giuliano Pisapia.
    Quanto all'ormai ex presidente, la rete di protezione nei suoi confronti aveva cercato di reggere il più possibile, a partire dal presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana - che di Pazzali aveva voluto la nomina - e che nell'unica dichiarazione a 48 ore dalla scoperta dell'indagine aveva ribadito «stima» nei confronti del manager e di essere «all'oscuro» delle attività che svolgeva. Massimo riserbo, invece, dalle parti di Palazzo Marino, dove il sindaco Beppe Sala - che concorda la nomina del presidente della Fondazione Fiera insieme al governatore - non si è espresso. Pare, comunque, che tra Fontana e Sala ci sia stato qualche contatto ma che la situazione resti sospesa. Anche perché, il Tribunale del Riesame dovrà decidere se accogliere o meno la richiesta della Dda di predisporre una misura cautelare anche per Pazzali, inizialmente ritenuta non necessaria. E se la posizione del manager fino a ieri alla guida della Fondazione è fin troppo complessa, delicata è anche quella politica di Attilio Fontana: il governatore leghista, pur essendo estraneo all'indagine, ha sponsorizzato una figura invisa al suo partito. Dalle parti di via Bellerio, già sabato mattina si era registrata una certa freddezza non senza imbarazzi. Da Matteo Salvini, invece, nessun commento. Solo la stringata nota del partito che ribadisce l'intenzione di una proposta in Parlamento «di incremento delle pene per gli spioni».
    Quanto agli altri nel centrodestra - milieu a cui Pazzali era più vicino - solo generiche richieste di accertamenti da parte della magistratura. Lo chiede esplicitamente, invece, il presidente del Senato Ignazio La Russa: «Pazzali dica chi gli ha chiesto un dossier su di me. Me lo deve
  4. Ros, Sismi e Palazzo Chigi I curriculum di lusso degli spioni
    monica serra
    milano
    Nome in codice «Tela», originario di Salandra, in provincia di Matera, Vincenzo De Marzio è un carabiniere in pensione. Anche lui, per l'accusa, fa parte della banda che dalla centrale dietro al Duomo, per «clienti top», ha spiato migliaia di persone, tra politici e imprenditori. De Marzio non è un carabiniere qualsiasi. Nell'Arma dal 1984, al Ros milanese dalla sua nascita, con una breve pausa tra il settembre del 2002 e il settembre del 2003, quando ha prestato servizio al Sismi, i servizi segreti italiani, a Roma, alla Presidenza del consiglio dei ministri. Super esperto di terrorismo internazionale, «uno dei primissimi a occuparsene in Italia», come ha sottolineato Armando Spataro, all'epoca procuratore aggiunto milanese, in aula, quando lo ha citato come testimone al processo sul rapimento dell'imam Abu Omar. Nella vecchia registrazione ancora nell'archivio di Radio Radicale il magistrato e gli avvocati gli pongono poche domande, soprattutto sui suoi rapporti con l'allora capocentro della Cia a Milano, Bob Lady: «Solo qualche caffè e scambio di informazioni», «Ho partecipato all'open house a casa sua con il resto dell'ufficio a Natale del 2002». Tutte le risposte sono brevi e concise: «Si», «No», «Non so, non ero a Milano in quel periodo».
    Parla poco Tela, anche nelle intercettazioni che i carabinieri di Varese hanno raccolto negli uffici dell'Equalize sequestrati su richiesta della Dda nell'inchiesta per associazione per delinquere, accesso abusivo ai sistemi informatici, rivelazione del segreto d'ufficio, e intercettazione abusiva. Con la sua società di investigazione privata Neis Agency, De Marzio è solo indagato, il gip per lui ha respinto la misura in carcere richiesta dal pm Francesco De Tommasi, che invece lo ritiene «estremamente pericoloso». Non solo perché «fornisce al gruppo di via Pattari 6 un'enorme mole di dati e informazioni fondamentali (Sdi, verbali, ordinanze, foto...) che ha acquisito e detenuto illecitamente in violazione delle autorizzazioni di cui può aver goduto durante gli anni trascorsi nell'Arma». Ma anche perché, si legge negli atti, sarebbe «comprovata la sua spregiudicatezza nel porre in essere gravi e abusive intromissioni nelle sfere private e più intime delle persone, anche ricorrendo all'esecuzione di intercettazioni» illecite. Come avrebbe fatto ai danni della fidanzata di Del Vecchio Jr, Jessica Ann Sarfaty: «Sto aspettando perché forse devo portare dei registratori a Mario... Sì perché lì da mettere a casa, perché lei non se ne vuole uscire», diceva intercettato.
    Tra ex e attuali appartenenti delle forze dell'ordine – un finanziere della Dia di Lecce e un poliziotto del commissariato di Rho sono stati interdetti – erano in molti a lavorare per l'ex superpoliziotto Carmine Gallo, per l'accusa «capo indiscusso» dell'organizzazione costituita nella società di Enrico Pazzali, l'ammanicatissimo presidente della Fondazione Fiera che, pur non ricoprendo un ruolo diretto «nella materiale esfiltrazione» dei dati usati per i dossieraggi – anche di politici come il presidente del Senato Ignazio La Russa, di Matteo Renzi o di Letizia Moratti – è considerato una delle «colonne portanti» dell'associazione che «per finalità personali» avrebbe sfruttato «le capacità del gruppo». Era lui a dire a Gallo: «Carmine, Attilio mi chie… Fontana (il governatore della Lombardia, totalmente estraneo ai fatti, ndr.) mi chiede se Scaroni ha dei prece… ha delle cose ni corso. Ha fretta di ricevere le informazioni sul conto di Scaroni», il presidente del Milan e dell'Enel.
    Il braccio destro di Gallo era lo «spregiudicato» hacker Nunzio Samuele Calamucci, che per l'accusa è «coinvolto nella rete Anonymous», in grado di violare anche il sistema informatico del Pentagono: «Con loro, che sono più o meno 3 mila persone, condividiamo – diceva – se c'è qualche rottura di palle...oppure dice ci sono dati, li volete? Per dire...questo dice abbiamo trovato 30 account violati a chi interessano?». Geometra con una ditta edile aperta nel 2015, ma anche esperto informatico «in contatto coi servizi», per l'accusa sarebbe stato lui a ideare la piattaforma Beyond e a trovare il modo per bucare le banche dati del Viminale: «I miei ragazzi sono quelli che hanno fatto l'infrastruttura e fanno la manutenzione!» . Racconta Fabrizio Gatti su Today.it di essere stato contattato proprio da Calamucci a gennaio, per la vicenda della squadra Fiore, una rete clandestina con sede in piazza Bologna a Roma, molto simile a quella milanese, che accedeva alle banche dati dello Stato per estrarre notizie riservate su imprese italiane e vip, come del Vecchio Jr. È sempre Calamucci, negli atti, a raccontare che la rete che aveva costruito la banda è vastissima: «La politica la abbracciamo più o meno tutta perché Enrico (Pazzali, ndr.) è destra, Barletta è tutto ambientale di sinistra». Indagato anche lui, Pierfrancesco Barletta, è un ex dirigente di Leonardo-Finmeccanica, oggi vicepresidente del gestore aeroportuale milanese Sea, autosospeso dalla società che gestisce gli scali milanesi con rinuncia ai compensi. Era stato proprio lui a vendere la società a Gallo e Pazzali ma, almeno all'inizio, per l'accusa continuava a lavorare negli uffici dell'Equalize. Vicinissimo all'ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini, avrebbe commissionato alla banda un dossier su una donna e su un chirurgo plastico del Policlinico di Milano, per ragioni private, chiedendo se fosse possibile un'intrusione da remoto nei telefoni, conoscendo solo i numeri: «Mi serve urgentemente, devo fare delle scelte». Alla fine, però, anche lui sarebbe stato spiato dal gruppo.

 

 

 

29.10.24
  1. Il capo della società finita nel mirino cercava informazioni sui figli del presidente del Senato La replica: "Disgustato, conosco Pazzali da anni e l'ho sempre ritenuto una persona per bene"
    Ignazio La Russa
    Report sui La Russa e Renzi Tirata in ballo anche la Lega "Vendiamogli la piattaforma"
    monica serra
    andrea siravo
    milano
    Il presidente di Fondazione Fiera Milano Enrico Pazzali e Ignazio La Russa sono «amici di vecchia data». Ma, per l'accusa, anche sul conto del presidente del Senato il manager avrebbe chiesto un report alla banda degli spioni della sua società dietro il Duomo, attraverso la piattaforma Beyond.
    «Esatto, va bene. Fammi un'altra nel frattempo! Ignazio La Russa. E metti anche un altro, come si chiama l'altro figlio? Come si chiama? Eh. .. Geronimo, come si chiama Geronimo La Russa? Eh... prova Geronimo La Russa, ma non si chiama Geronimo... come si chiama? Antonino? Metti Antonino La Russa. Lui è dell'ottanta... infatti c'è», chiede Pazzali intercettato negli uffici della Equalize di via Pattari 6. È il 19 maggio del 2023 e la data, casualità o no, non è indifferente alla famiglia La Russa. È suggestivo il fatto che nella notte appena trascorsa, dopo una serata all'esclusivo club Apophis, si sarebbe consumata la presunta violenza sessuale della ventunenne che ha poi accusato il terzogenito del parlamentare di Fratelli d'Italia, Leonardo Apache, con un suo amico.
    Solo quaranta giorni dopo, la ragazza ha deciso di denunciare e la notizia dell'inchiesta in procura è finita sui giornali. Eppure, nel dialogo con uno dei tecnici informatici, intercettato dai carabinieri del nucleo investigativo di Varese, spunta anche il nome del più piccolo dei figli di Ignazio. È sempre Pazzali a farlo: «Ok. Leonardo sull'intelligence non ha niente?». Dopo il controllo illecito in banca dati, la risposta è negativa.
    «Sono disgustato dal fatto che ancora una volta i miei figli, Geronimo e Leonardo, debbano pagare la "colpa" di chiamarsi La Russa, se risulterà confermato che anche loro sono stati spiati», commenta il presidente dell'aula di Palazzo Madama. Che si dice sorpreso: «Conosco Pazzali da anni e l'ho sempre ritenuto una persona perbene, e vorrei poter considerare, fino a prova contraria, un amico di vecchia data. Attendo di avere altri elementi prima di un giudizio definitivo assai diverso su di lui. È noto che i suoi attuali ruoli in Fiera non dipendano da FdI e sono stupito più che allarmato dalle notizie di una sua azione di dossieraggio nei miei riguardi».
    Nel gigantesco calderone degli spiati ci sono finiti politici in vita e anche oramai defunti. Un accesso allo Sdi è stato fatto per Filippo Penati, ex presidente della provincia di Milano scomparso nel 2019. A gennaio 2023, invece, è il nominativo di Matteo Renzi a essere «interrogato». Come nel caso precedente, al gruppo non serve più ricorrere all'aiuto di poliziotti e finanzieri infedeli (due sono stati interdetti dal gip). Il controllo viene fatto direttamente dai pc dell'azienda: «Minchia, quello (Pazzali, ndr.) va a fare Matteo Renzi, ca… però». È l'hacker Nunzio Calamucci a spiegare che c'è il rischio di essere scoperti e che Renzi possa reagire: «Ci manda qua la finanza, i servizi, i contro servizi!». E il superpoliziotto Carmine Gallo, annota il pm Francesco De Tommasi, «riprende un vecchio concetto in relazione agli "alert" dello Sdi» sui soggetti in vista: «Noi i deputati, i senatori e i consiglieri regionali, non possiamo farli perché c'è l'alert». Lo tranquillizza Calamucci: «No, nel nostro caso non c'è l'alert! Le mie interrogazioni non le fa un poliziotto, le fa direttamente... I miei ragazzi sono quelli che hanno fatto l'infrastruttura (del Viminale, ndr.) e fanno la manutenzione! È quello il trucco».
    Anche il leader di Italia Viva è intervenuto: «Forse oggi bisogna fare una riflessione in più, anche oltre l'aggressione che io sto subendo: in un mondo in cui i dati sono il nuovo petrolio, dobbiamo avere il coraggio di affermare che la violazione dei telefonini o dei computer è un reato gravissimo. E che la pubblicazione di dati illegittimi è un crimine».
    Per l'accusa, tra i potenziali clienti della Equalize ha rischiato di esserci anche la Lega, con la possibilità di accedere alla piattaforma Beyond. «Allora, ascolta una cosa... io come cliente ho la Lega... l'hai già proposto? », domanda Andrea De Donno, un collaboratore esterno, a Gallo. Quest'ultimo subito lo ferma: «No, alla Lega non l'ho proposto perché, per la semplice ragione che c'è Pazzali, che è collegatissimo a Fontana». La vicinanza di Pazzali con il governatore – sottolineano gli inquirenti – potrebbe «generare una serie di problemi reputazionali legati a un possibile conflitto d'interessi». De Donno prova ad aggirare l'ostacolo, offrendosi di fare da schermo: «Lo fornisco io, lo compro da te e lo vendo a lui! ». Da Gallo arriva un nuovo e definitivo stop all'operazione: «Tu non puoi venderlo! Tu lo puoi solo tenere a noleggio da noi... tu puoi essere un agente». —
  2. L'esperto elettronico di BitCorp, ha eseguito intercettazioni telematiche sia per i clienti che per gli inquirenti
    Indagato come spia e perito delle procure Il doppio ruolo dell'ingegnere Pegoraro
    Giuseppe legato
    Sul sito della società per cui lavorava come apprezzatissimo ingegnere informatico prima di finire nelle maglie della procura di Milano e prima ancora di quella di Torino, Gabriele Pegoraro, nato a Vicenza 48 anni fa, è presentato regalmente: «L'anima creativa del team tra genio e sregolatezza. Ingegnere elettronico "old school", ha operato trasversalmente nel corso degli anni spaziando dal settore bancario a quello delle telecomunicazioni. Ha invertito la notte per il giorno ed è appassionato di missioni impossibili». Sulle sue competenze nulla quaestio, of course. E però nelle pieghe dell'inchiesta della Dda di Milano si affaccia «una luce sinistra» su di lui «e anche sulla società».
    Perché per i magistrati è Pegoraro, già amministratore unico della ML Multiservices Srl, ma soprattutto Chief innovation officer della società d'intercettazioni BitCorp «a eseguire intercettazioni telematiche per diversi clienti in riferimento ed effettuare copie di dispositivi telefonici in favore del gruppo di Equalize (che per inciso si autoaccusa nelle intercettazioni di aver scaricato 350 mila Sdi, banche dati in uso esclusivo alle forze dell'ordine)». Il problema è che «esegue le stesse operazioni per conto di diverse procure della Repubblica». Da qui la profonda inquietudine dei magistrati di Milano. Lo sa bene uno dei principali indagati Nunzio Samuele Calamucci, informatico di Equalize (società sotto sequestro): «Tanto lui (Pegoraro ndr) è uno che le fa pure per la procura».
    Bitcorp, non indagata, ha lavorato più volte per i magistrati milanesi. E tra la corposa mole di fatture elettroniche emesse dal 2019 al 2023 dalla Bitcorp (3,3 milioni di euro) ne figurano diverse a beneficio del «ministero dell'Interno dipartimento di pubblica sicurezza, del Comando delle forze speciali, della procura della Repubblica di Genova, dell'ufficio giudiziario di Milano (importi per prestazioni offerte rispettivamente di 891 mila euro e 57 mila euro), di Torino (24.750 e 36.750) e della Direzione investigativa antimafia (Dia) con tre fatture per un totale di 35 mila euro».
    Nota a margine, ma nemmeno tanto: Pegoraro, stavolta in prestito a un'altra delle società perquisite, la Skp di Milano, era già finito nei guai a Torino (a giorni inizia il processo) per aver ricevuto incarichi di spionaggio sulla multinazionale della malta e del cemento Kerakoll. Un manager della ditta aveva commissionato indagini a un altro degli attuali indagati a Milano, Fabio Rovini (anche lui indagato a Miano nel procedimento odierno e contemporaneamente imputato a Torino). E Rovini risponde al cliente che «colui che si sta occupando dell'indagine invasiva indicata è l'ingegner Pegoraro». Negli atti è riportata la sua mail.
    «Attenzione – ammoniscono gli inquirenti torinesi – perché Pegoraro è lo stesso che questa polizia giudiziaria ha nominato ausiliario di polizia giudiziaria (nell'indagine su Arciere, ndr) e lo ha incaricato il 31 maggio 2021 di svolgere le attività di ingegneria sociale rivolte alla realizzazione del cosiddetto "Trojan" da iniettare nel telefono di un ex carabiniere oggetto di indagine».
    Tentativi richiesti dalla procura con parere favorevole del gip, andati avanti (senza successo) per mesi fino a ottobre 2021. Di nuovo la doppia faccia, di nuovo spione e consulente della procura. Almeno in ipotesi d'accusa. —
  3. il sistema
    i nomi finiti nell'inchiesta
    "La rete ha legami con clan e 007 a rischio la sicurezza nazionale"
    monica serra
    milano
    Nell'enorme archivio della banda degli spioni c'erano anche «dati classificati», top secret. Come un documento di 43 pagine riconducibile all'Aisi, il servizio segreto italiano interno «riservato» e risalente al 2008-2009 sulle «reti del Jihad globale». I carabinieri del Ros, con i colleghi di Varese, lo hanno trovato quando l'hacker Nunzio Calamucci ha collegato una sua chiavetta a un pc della società di via Pattari 6 controllato da un Trojan della procura. Dentro c'erano anche 52.811 interrogazioni Sdi del Ced interforze del Viminale. Molte erano «riconducibili» a un ex carabiniere indagato. «Con i report che abbiamo noi in mano possiamo sputtanare tutta l'Italia», diceva Calamucci intercettato.
    Per il pm Francesco De Tommasi, «il principale punto di forza dell'organizzazione criminale è proprio la rete relazionale di altissimo livello» su cui possono contare «lo zio bello» Enrico Pazzali, presidente di Fondazione Fiera Milano a capo della società di intelligence, e il socio Carmelo Gallo, ex colonna portante dell'Antimafia milanese. Non solo con persone «appartenenti ai più elevati ranghi delle istituzioni pubbliche, estranee ai fatti e all'oscuro delle dinamiche criminose interne a Equalize». Ma anche in altri ambienti come «quello della criminalità mafiosa e quello dei servizi segreti, pure stranieri, che spesso promettono e si vantano di poter intervenire su indagini e processi, per bloccare iniziative giudiziarie».
    Non è un caso che Calamucci – legato anche ad Anonymous («Con loro condividiamo...), che è stato in grado di violare il sistema informatico del Pentagono – si vantava: «I cialtroni saltano, noi abbiamo la fortuna di avere clienti Top in Italia (per l'accusa, come Barilla, Erg, il banchiere Matteo Arpe, Del Vecchio Jr, la giudice Carla Romana Raineri, ex capa di gabinetto di Raggi)». Ma anche «contatti tra i servizi deviati e i servizi segreti seri, di quelli lì ti puoi fidare un po' di meno, però, il sentiamo, fanno chiacchiere, sono tutte una serie di informazioni…». Dati sensibili e riservati che, ipotizza la procura diretta da Marcello Viola, potrebbero essere finiti anche all'estero.
    E non è un caso neanche che, quando il gruppo discuteva di effettuare autonomamente i «positioning» cioè la localizzazione dei cellulari delle vittime, lo stesso Calamucci proponeva: «Allora, domani mattina prima di venire qua passo in Regione a chiedere! Vedo cosa... cosa c'è in sconto e te lo faccio sapere!» . Per il pm, un chiaro «riferimento agli uffici dei servizi segreti che sono nello stesso palazzo, dove evidentemente l'hacker vuole verificare la possibilità di acquistare a prezzo ribassato l'apparecchiatura».
    Per l'accusa, la banda che aveva bucato anche i database del ministero dell'Interno, che sosteneva di aver «clonato» un account email del presidente Sergio Mattarella, e che era in grado di «tenere in pugno» cittadini e istituzioni, di «condizionare in modo pregiudizievole dinamiche imprenditoriali e procedure pubbliche, anche giudiziarie» e di «mettere a rischio la sicurezza nazionale», rappresenta «un pericolo per la democrazia di questo paese». I
    Il suo «capo indiscusso», l'ex superpoliziotto Gallo, viene definito una persona «tentacolare, spregiudicata e senza scrupoli», con «le mani in pasta ovunque» che «intrattiene rapporti con diverse personalità di rilievo, oltre che con diversi pregiudicati, anche per associazione mafiosa».
    Per l'accusa, infatti, l'ispettore in pensione è «pronto a scendere a patti con esponenti della criminalità milanese». Tant'è che «per ottenere la disponibilità di un posto auto a San Siro per ragioni di rappresentanza» era intenzionato «a contattare il capo ultrà dell'Inter Vittorio Boiocchi», poi freddato a colpi di pistola e con 26 anni di carcere alle spalle.
    Ma la rete che aveva costruito la banda è vastissima: «La politica – dicevano – la abbracciamo più o meno tutta perché Enrico (Pazzali, ndr.) è destra, tutto ambientale di destra, (l'ex socio, ndr.) Barletta è tutto ambiente di sinistra, quindi bene o male...il centro è quello...». Il gruppo intratteneva rapporti anche «con ex vertici delle forze dell'ordine e dell'amministrazione degli Interni, divenuti poi security manager o membri dei cda di aziende private». Diceva Calamucci: «Adesso c'è il nuovo... il vice... l'ex prefetto di Como! Che è entrato come security manager... perché tutte le ex cariche di un certo livello entrano nel Cda di qualcosa, e noi… spaziando dai carabinieri alla polizia all'esercito… abbiamo un ventaglio di ex cariche che diventano nostri clienti... l'ex questore di Como fa morir dal ridere, è entrato come security manager in Bennet». Era stato proprio lui, per l'accusa, a mettere in contatto Equalize con Barilla.
    Ma il gruppo poteva contare anche su contatti nei giornali per spifferare qualche notizia che gli faceva comodo: «Chiamiamo Roberto, Dagospia… lui sa davvero che ci sono queste foto … quando tu gli dai una notizia, lui la pubblica ed è una delle testate più temute dalla gente… lo rispettano tutti come un dio...». —
  4. Il procuratore di perugia e le indagini sul furto di email
    Cantone: "I processi non sono sicuri"
    «Ci siamo lanciati in questo mondo del processo penale telematico o comunque di tutta una serie di meccanismi che riguardano via internet le attività giudiziarie senza però metterle in sicurezza. Noi ormai tante attività le facciamo direttamente a distanza e poi scopriamo che i meccanismi non sono affatto sicuri. Io, per esempio, ho letto che le mie email sarebbero state in qualche modo violate da questo hacker di cui si occupa la procura di Napoli». Lo ha detto il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone. «Noi con la posta colloquiamo, parliamo di vicende giudiziarie. I nostri sistemi dovrebbero essere garantiti al cento per cento. Forse noi abbiamo buttato troppo il cuore oltre l'ostacolo, senza renderci conto prima di quali potevano essere i problemi», ha aggiunto Cantone. «Si tratta di due indagini che per quello che io so non hanno alcuna attinenza fra di loro», sono ancora parole del magistrato. Non ci sono collegamenti, almeno che mi risultino».
    Gli effetti delle riforme che riguardano la giustizia - ha infine spiegato Cantone a margine degli incontri di CasaCorriere in corso a Napoli - poi finiscono per riverberarsi sui cittadini, per cui è evidente che parlando di democrazia e potere non si possa non parlare di giustizia». «Questo - ha concluso - è un momento particolare nel quale ci sono tantissime riforme in corso, forse anche troppe. Io concordo con quello che ha detto il presidente della Cassazione, forse su questi temi ci sarebbe stato bisogno di un fermo biologico».
  5. "Bibi e Khamenei usano la guerra per nascondere la crisi del potere"
    Azar Nafisi
    Francesca Paci
    Roma
    La notizia del raid israeliano sull'Iran raggiunge Azar Nafisi insieme a quella del duplice premio ricevuto a Roma dalla versione cinematografica del suo bestseller "Leggere Lolita a Teheran", un film diretto dal regista israeliano Eran Riklis e interpretato da attori iraniani. La domanda è quale delle due immagini rappresenti meglio il presente, se la guerra o la letteratura. La risposta, ammette la grande scrittrice iraniana in esilio, è tanto esistenziale quanto irreversibile.
    Da oltre un anno si evoca la guerra incombente. Il raid israeliano sull'Iran chiude la partita pareggiando i conti o sposta la palla in un campo nuovo, più estremo?
    «Sia il premier israeliano Netanyahu che la Guida suprema Khamenei usano la guerra per nascondere i rispettivi problemi interni e le piazze che, a Tel Aviv come a Teheran, rifiutano la loro leadership. L'attacco di venerdì notte fotografa la situazione: nessuno dei due governi è in posizione di forza, entrambi hanno paura del passo successivo ma non possono arretrare. Gli ayatollah sono certamente più in difficoltà, da una parte devono mostrare i muscoli contro il nemico di sempre ma dall'altra sono terrorizzati dall'escalation perché la popolazione, stanca e disillusa, non reggerebbe. Netanyahu digrigna i denti perché se finisse la guerra dovrebbe affrontare la giustizia e magari la prigione ma anche lui ha una serie limitata di mosse, rivendica le vittorie militari per non fare i conti con la frustrazione della sua gente. È uno stallo molto pericoloso».
    Il mese scorso il premier israeliano si è rivolto agli iraniani invitandoli a sollevarsi e offrendo il suo aiuto. Come l'hanno presa e come hanno preso l'attacco?
    «Dipende dall'interlocutore, c'è chi accetterebbe tutto pur di voltare pagina. La maggior parte degli iraniani però, non si fida: siamo stati traditi troppe volte. Se qualcuno come Netanyahu si propone, io, prima di considerarlo, mi chiedo come si comporti a casa propria, come governi. E viste le manifestazioni oceaniche degli israeliani contro di lui, visto il trattamento riservato ai palestinesi... credo che non ci sia davvero nulla da accettare. No, gli iraniani devono contare solamente su loro stessi».
    Da vent'anni "Leggere Lolita a Teheran" è la chiave di volta per capire l'altro Iran, quello delle persone. Cosa aggiunge oggi a quella missione la sua versione cinematografica diretta da un regista israeliano e interpretata da attori iraniani?
    «La mia protesta è da sempre contro il governo che ignora il proprio popolo. Per questo parlo degli iraniani che chiedono una vita dignitosa e non degli ayatollah che cercano la guerra. Iran e Israele sono due Paesi in cui i politici vogliono combattere mentre le persone ambiscono a stare in pace. Ho scelto Eran Riklis dopo aver visto il suo film "Il giardino dei limoni", dove una donna palestinese sfida il ministro degli esteri israeliano che vuole distruggerle gli alberi per ragioni di sicurezza. Eran è contro la guerra, sostiene la soluzione due popoli per due Stati, condivide con me la convinzione che la cultura debba oltrepassare i limiti che spesso la politica impone alle nostre vite».
    Com'è cambiato l'Iran da quando a Teheran leggeva Lolita alle sue studentesse?
    «Vorrei che il film funzionasse da sprone come allora funzionò il libro. La situazione è molto peggiorata, le iraniane e gli iraniani hanno votato a più riprese confidando nel riformismo e hanno avuto in cambio più repressione, più violenza, più dolore. Di vivo c'è oggi solo il movimento delle donne, quelle che dopo l'assassinio di Mahsa Amini hanno bruciato le illusioni e non si sono più voltate indietro. Sono le ragazze che leggevano Lolita nelle cantine e sono uscite alla luce del sole togliendosi l'hijab. Il movimento "donna vita libertà" è la più letale spina nel fianco del regime ma non è l'unica, anche i sostenitori della teocrazia sono stanchi e il film racconta bene questa zona grigia. I regimi totalitari divorano tutti i loro figli, tutti».
    Gli iraniani gioiscono suoi social delle umiliazioni ricevute dal regime ma ripetono di non voler essere liberati da forze esterne. Cosa può fare per loro l'occidente?
    «La maggioranza degli iraniani non vuole invasioni straniere né esportazione di democrazia. Vogliamo una transizione pacifica come pacifica è l'opposizione delle donne: il regime spara e noi balliamo. L'occidente, a parte selezionare sanzioni che non colpiscano il popolo, può ascoltarci. Quando emigrai mia madre mi raccomandò di parlarvi di noi, di spiegarvi che se ci aveste lasciati soli il regime avrebbe vinto. Ascoltateci. Sosteneteci con la musica, la cultura, i sit-in come faceste con Mandela».
    Quelle piazze ci sono in realtà, ma sono riservate alla causa palestinese, al massimo alla pace in Ucraina a costo della resa di Kiyv.
    «Lo so purtroppo, nessuna manifestazione per le donne iraniane. Alle mie conferenze c'è sempre qualcuno che mi accusa di essere occidentalizzata e di non rispettare la cultura che poi sarebbe la mia. Dovrei rispettare la lapidazione delle adultere, le spose di 9 anni, lo stupro della libertà? La libertà non è né occidentale né orientale, gridavano le mie compagne già all'indomani della rivoluzione khomeinista. E forse l'occidente dovrebbe ascoltarci un po' di più per ricordarsi chi è. A Teheran Hannah Arendt e Vaclav Havel sono vere e proprie star mentre voi sembrate aver dimenticato: non è il momento di trascurare i valori fondativi della democrazia con le nubi che si addensano sul voto americano».
    Vincerà Donald Trump?
    «Nessuno lo sa ed è una prospettiva terrea. Ma anche se vincesse Kamala Harris dovremmo interrogarci su come siamo arrivati a questo punto, come una delle principali democrazie si sia affidata così tanto a quell'uomo».
    Pare che ci siano divisioni nel regime iraniano e che l'ala razionale avrebbe eletto il presidente Massoud Pezeshkian. Eppure da quando è in carica ci sono state oltre 250 esecuzioni. Non c'è alcuna possibilità di riformare la Repubblica islamica?
    «Aprirsi alle riforme per il regime iraniano significherebbe concedere un po' di libertà, ma non funziona così. Avere un po' di libertà è come dire di essere un po' incinta: o aspetti un bambino o non lo aspetti. Il modello per noi è il crollo dell'Urss nei Paesi dell'est Europa, inghiottiti nel proprio vuoto di radici».
    Israele ha decapitato molti proxy iraniani, da Hamas a Hezbollah. Quante divisioni ha ancora l'Iran?
    «Gli iraniani irridono il regime a suon di barzellette che raccontano l'humor nero con cui si sopravvive all'angoscia. La teocrazia crollerà, ma come siamo arrivati a questo? In Iran, nella Russia di Putin, nell'America che spera in Trump. Come abbiamo fatto a bypassare tutte le lezioni della Storia? » .
  6.  fischi alla cerimonia del 7 ottobre secondo il calendario ebraico. A Doha riprendono i negoziati per il rilascio degli ostaggi
    Netanyahu contestato dai parenti delle vittime "Vergognati". L'offerta di Al Sisi per la tregua

    Fabiana Magrì
    Due parole. «Mishpachot iacharot» («famiglie care»). Poi i fischi e le proteste di quei parenti arrivati al colmo del lutto e della rabbia, gelano Benjamin Netanyahu sull'incipit del suo intervento alla commemorazione (secondo il calendario ebraico) per le vittime del massacro di Hamas del 7 ottobre dell'anno scorso. «Vergogna!». Per lunghi minuti il premier resta muto (imbarazzato? infastidito?), in piedi dietro al leggio, a prendersi gli insulti di chi gli grida addosso di aver avuto il «padre assassinato» e il «figlio abbandonato» da 388 giorni, ostaggio di Hamas. Quello che passa per la testa di Bibi (il diminutivo con cui è noto il premier) sotto lo sguardo di sua moglie Sara, della coppia presidenziale, gli Herzog, e dei massimi vertici militari, non si legge sul suo volto. Dopo che i provocatori vengono allontanati dalle forze dell'ordine, il primo ministro più longevo della storia di Israele, che sta guidando il Paese nella sua campagna militare più lunga di sempre, riprende confidenza e il discorso. Ringrazia e si congratula con «tutti i nostri soldati e comandanti di Tsahal e delle forze di sicurezza» che hanno collaborato all'operazione "Giorni del pentimento" contro l'Iran. Li elenca uno per uno, il capo di Stato Maggiore, il comandante dell'aeronautica, i piloti. Perfino i «meccanici e tutto il personale di terra» e tutto il sistema di intelligence, «il capo, gli uomini e le donne del Mossad». Esprime gratitudine anche agli Stati Uniti, «per lo stretto coordinamento e supporto». Netanyahu dà "kavod" (onore e rispetto, in ebraico) a tutti. Tranne a uno. Il ministro della Difesa, la sua spina nel fianco Yoav Gallant, il ribelle, la voce controcorrente nel suo esecutivo, l'illicenziabile. L'unico rappresentante del governo attuale con cui l'amministrazione Biden sente di parlare la stessa lingua. E quando tocca a Gallant intervenire alla cerimonia di Stato, la distanza tra i due si manifesta ancora una volta. Certo, anche il capo della Kirya conferma che, con il suo attacco «preciso, letale e sorprendente» all'Iran, lo Stato ebraico ha inviato il messaggio chiaro che «il lungo braccio di Israele raggiungerà chiunque tenti di farci del male». E sostiene, a testa alta davanti alla platea, che Hamas ed Hezbollah sono stati scossi nelle fondamenta e non rappresentano più «uno strumento efficace nelle mani dell'Iran». Tuttavia, in funzione anti Bibi, sottolinea che non tutti gli obiettivi possono essere raggiunti tramite la forza militare. «Riportare gli ostaggi alle loro case richiede dolorosi compromessi», sancisce Gallant. E lo dice nel mezzo degli sforzi compiuti da Usa, Egitto e Qatar per ricomporre i pezzi dei colloqui tra Israele e Hamas e raggiungere un'intesa per un cessate il fuoco, più o meno temporaneo, e per la liberazione degli ostaggi israeliani. Il Cairo ha proposto una tregua di due giorni per consentire lo scambio di quattro rapiti per alcuni palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane. Ma una fonte di Hamas, parlando con il canale saudita Asharq News, preannuncia una proposta di accordo "all in": fine della guerra, ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia, scarcerazione di un certo numero di detenuti palestinesi, rilascio di tutti gli ostaggi israeliani in una volta sola. Di fatto, nessuna novità. Il che fa presagire che anche l'esito della trattativa non sarà diverso, con queste premesse. A nulla ha portato il tentativo di Israele, la scorsa settimana, di offrire un cessate il fuoco di due settimane per riportare a casa cinque ostaggi, presumibilmente vivi. Se la dovranno vedere, in queste ore a Doha, il capo del Mossad, David Barnea, il direttore della Cia, Bill Burns, e il padrone di casa, il primo ministro qatariota, Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani.
    Mentre si deposita la polvere sull'attacco di Israele all'Iran, a sollevarsi sono le prime dichiarazioni che offrono un'indicazione di dove il conflitto nella regione allargata potrebbe andare. Nei suoi primi commenti pubblici dalla notte tra venerdì e sabato, la Guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, tramite l'agenzia di stampa statale Irna, giudica quello di Israele «un errore di calcolo» e suggerisce che gli attacchi «non dovrebbero essere né minimizzati né esagerati». La deterrenza è un potere che non si ripristina facilmente, soprattutto dopo una batosta come quella del 7 ottobre e dopo una guerra di logoramento che va avanti da oltre un anno. Il presidente Masoud Pezeshkian promette una «risposta appropriata». Il segretario alla Difesa Usa, Lloyd Austin, mette in guardia Teheran e invita il regime a «non dovrebbe commettere l'errore di rispondere agli attacchi di Israele». Gli fa eco la vicepresidente e candidata alla casa Bianca, Kamala Harris.

 

 

 

28.10.24
  1. Azionista al 95% di Equalize, Pazzali avrebbe fatto "accertamenti su persone legate a Letizia Moratti"
    Il patron di Fiera Milano vicino a Fontana Lega in imbarazzo: "Dimissioni? È adulto"
    FRANCESCA DEL VECCHIO
    MILANO
    Chi lo conosce da sempre giura di averlo visto raramente senza giacca e cravatta: Enrico Pazzali, finito al centro dell'inchiesta sui dossieraggi milanesi, è uno dei personaggi più influenti della politica e dell'imprenditoria milanese, lui che aveva "teorizzato" il ruolo della Fiera come «strumento di politica industriale del Paese». Ha sempre goduto di apprezzamento bipartisan «per il suo decisionismo e il profilo istituzionale», ma storicamente è più vicino al mondo della destra lombarda. In più occasioni è stato fatto il suo nome per il dopo Beppe Sala (c'è chi dice solo per fargli un torto: pare che i suoi rapporti con la Lega e in particolare con Matteo Salvini non fossero idilliaci). Vicino alla ministra del Turismo Daniela Santanché e al presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, non ha mai nascosto la sua stima per Silvio Berlusconi, tra i primi ad appoggiare un'intitolazione al Cav, dopo la morte.
    Classe ‘64, milanese e bocconiano, un passato da manager in grandi aziende tra Roma e Milano come Poste, Omnitel, Compaq, Shell e Bull, dal 2015 è stato per alcuni anni ad di Eur spa (società di cui è azionista al 90% il ministero dell'Economia e delle Finanze). Dal 2019, nominato dalla giunta di Fontana ed eletto dal Pirellone d'intesa con il Comune di Milano, è il patron della Fondazione Fiera dopo essere stato amministratore delegato di Fiera spa dal 2009 al 2015. È anche consigliere di amministrazione dell'Università Bocconi e presidente del Comitato Bergamo-Brescia 2023. Nel 2020, durante la pandemia, fu uno dei principali sponsor dell'Ospedale in Fiera, la terapia intensiva allestita nei padiglioni del polo fieristico grazie alle donazioni di imprenditori e società civile. Ma è la sua posizione di azionista di maggioranza (al 95%) della Equalize ad essere sotto la lente dei magistrati di Milano. Per i suoi soci è «Zio bello» o «capo» e, stando a quanto emerso dalle carte dell'indagine avrebbe - tra le altre cose - chiesto «accertamenti» su persone «vicine politicamente» a Letizia Moratti, quando era candidata alle Regionali lombarde del 2023 proprio «per favorire Attilio Fontana». Motivo per cui, è proprio il centrodestra ad essere in forte imbarazzo: «Leggeremo le carte», dice il sottosegretario leghista alla Presidenza del Consiglio Alessandro Morelli. Quanto alle dimissioni, «mi sembra abbastanza adulto per fare le proprie valutazioni». Le dichiarazioni sanno già di presa di distanze e, a ben guardare, sono il chiaro segnale di un "doppio standard" dopo che la Lega, su altre inchieste per dossieraggio, aveva urlato allo scandalo. Nessun commento neanche da Forza Italia, né tantomeno dal partito della premier. L'unica tra i Fratelli è Santanchè, che però non si sbilancia nei giudizi: «Non è mia abitudine commentare le accuse». Di dimissioni dalla presidenza della Fondazione, comunque, ancora non vuole parlare nessuno. Bocche cucite sia al Pirellone sia tra gli esponenti della destra cittadina. Quanto al centrosinistra, si registra solo la nota di Pierfrancesco Majorino (capogruppo Pd in Regione) che si augura che Pazzali «possa dimostrare tutta la sua estraneità a una vicenda dai contorni esplosivi».
  2. POTERE SENZA LIMITI : le carte
    Da Scaroni a Moratti e Bonomi "Abbiamo fatto migliaia di report"
    ANDREA SIRAVO
    MILANO
    «Mi arriva, mi arriva dalla Ronzulli, mi fa un po' paura». Tra i committenti della Equalize, la società al centro dell'inchiesta della Dda e della Dna su presunte attività di dossieraggio illegali, ci sarebbe stata anche la senatrice di Forza Italia, Licia Ronzulli (non indagata, ndr). A fare il suo nome è il presidente dell'agenzia di investigazioni Enrico Pazzali quando, nel luglio del 2022, è al telefono con il suo amministratore delegato ed ex poliziotto Carmine Gallo. «Non lo so... no no avrà una quarantina d'anni non lo so… e comunque lavora in Autogrill... guarda che non ci sia mai qualche roba con Berlusconi... qualcosa del genere…», prosegue Pazzali sul nominativo indicatogli da Ronzulli. «Non vorrei che fosse da giovane una delle letterine, quelle robe lì», riflette il presidente di Equalize. Lo blocca subito Gallo che, avendo già un dossier sulle cosiddette "Olgettine", lo assicura che la persona su cui fare il controllo non è di quello «staff lì». L'ulteriore conferma arriverà quando quel nome, pochi giorni dopo, viene inserito nella banca dati Sdi dalla Dia di Lecce, dove opera uno gli appartenenti alle forze dell'ordine infedele.
    Appare «inquietante» – per gli inquirenti – invece una conversazione intercettata in cui Calamucci lascia intendere a Gallo di aver intercettato un indirizzo email assegnato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un aspetto che le indagini devono ancora riscontrare. A rivolgersi a Gallo e ai suoi esperti informatici, oltre che politici, ci sono avvocati, giudici, imprenditori e manager di grandi aziende come Barilla, Eni, Egr e Heineken. Ognuno con il proprio tornaconto. Chi per screditare e rovinare l'immagine di un proprio avversario, in campo familiare o professionale. Chi per controllare in modo opaco cosa succede sotto il tetto della propria azienda. C'è Fulvio Pravadelli, direttore generale della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, che dà mandato a Equalize di cercare informazioni contro Alex Britti da usare nella causa di separazione tra la figlia e il cantautore. Un accesso allo Sdi viene fatto pure su Giuseppe Bivona, grande accusatore dei vertici di Mps. Il più attivo di tutti – come emerge dagli atti d'indagine – sembra essere comunque Pazzali. «Se ti faccio vedere i report di Enrico, ne ho fatti a migliaia di report a Enrico», dice Nunzio Samuele Calamucci, braccio destro di Gallo, anche lui agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico.
    La mole di richieste senza che ci sia un ritorno economico fa storcere il naso nel gruppo. «Report gratis non ne escono più a nessuno», ammonisce Calamucci. «Neanche per il presidente», annuisce Gallo. Tra gli obiettivi individuati da Pazzali c'è Paolo Scaroni. Il suo profilo come quello di Pazzali ad agosto 2022 è tra quelli papabili per il ruolo di amministratore delegato di "Milano – Cortina 2026". La competizione sulla carta vede in vantaggio l'attuale presidente del Milan e del cda di Enel. Da qui la richiesta di Pazzali a Gallo di fare una verifica sullo Sdi alla ricerca di informazioni compromettenti che possano escludere Scaroni dalla "corsa". Il successivo ottobre, il presidente di Equalize si muove anche per «mettere in cattiva luce l'immagine di Letizia Moratti», candidata alla presidenza di Regione Lombardia. «Comunque c'è un sacco di gente, guarda se conosci qualcuno! Se c'è qualcuno d'interessante da verificare!», afferma riferendosi ai componenti del consiglio direttivo di Lombardia Migliore, lista che promuoveva la candidatura dell'ex sindaca ed ex ministra.
    Tra le centinaia di informazioni procacciate illegalmente, di cui veniva a conoscenza, Pazzali alcune le utilizza con amici e conoscenti per portare avanti i suoi interessi. Lo fa, ad esempio, con Daniela Santanché, ignara delle attività illecite, quando cerca di screditare Guido Rivolta, uomo di fiducia di Giovanni Gorno Tempini, vicino ad entrare nello staff della premier Giorgia Meloni. Dell'attuale presidente di Cdp la banda era riuscita a bucare il cellulare per spiare le sue chat Whatsapp. Tra le parole chiave viene inserito anche l'ex presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Non da Pazzali, ma direttamente da Gallo e Calamucci, si approccia una giudice di Corte d'appello di Milano per far fare degli accertamenti bancari sul marito. «Lei praticamente sta per allontanare il marito... quindi gli sta depredando tutte le imprese, tutti gli immobili e poi lo farà mettere con l'amministratore di sostegno». La sua posizione è stata trasmessa alla Procura di Brescia, competente sulle toghe milanesi. A livello aziendale sarebbero state, tra le altre, le multinazionali Barilla ed Erg ad andare alla Equalize per controllare in modo illecito alcuni rispettivi dipendenti. «C'è la possibilità a ritroso di avere conferma di questo sospetto», chiede un security manager dell'azienda alimentare di Parma. L'obiettivo era sapere chi avesse fatto trapelare notizie sull'avvicendamento del ceo. Nel caso di Egr, a Gallo e ai suoi, viene chiesto di installare un software per monitorare l'attività sui pc di lavoro per scoperchiare «una presunta attività di "insider trading"» da parte di alcuni dipendenti. Quando parlano della pratica Egr spunta anche un presunto problematico report fatto per Eni. «Quella di Eni tra l'altro è neanche dipesa da noi, perché son loro che l'hanno depositata lì in un altro modo, cioè è andata proprio nel modo sbagliato da parte del cliente», si giustifica Calamucci.
  3. L'imprenditore, figlio 29enne del patron di Luxottica, è indagato per le richieste alla Equalize L'accusa: utilizzati trojan e informazioni riservate per controllare i famigliari e la fidanzata
    "Un finto dossier sul sesso per Del Vecchio junior contro il fratello Claudio"
    Calamucci su Del Vecchio
    La risposta degli hacker

    monica serra
    milano
    Il 24 maggio del 2023, negli uffici dell'Equalize di via Pattari, arrivano i "tuttofare" di Leonardo Maria Del Vecchio, il figlio ventinovenne del patron di Luxottica, perquisito e indagato in concorso con l'associazione. Nell'agenzia di intelligence di Pazzali e del superpoliziotto in pensione Gallo lo conoscono già, è un cliente «fidato» e abituale, anche se trovano il modo di evitare che fatturi direttamente alla società perché «se questo mi finisce sul giornale ca… ci viene fuori il mal di testa che sai».
    Marco Talarico, «addetto alla gestione patrimoniale» del manager, alle spalle qualche guaio giudiziario, e Mario Cella, capo della Security, hanno bisogno di alcuni lavori che – subito gli viene chiarito – sono «illegali». L'obiettivo è trovare gli «scheletri nell'armadio» della fidanzata dell'imprenditore, «questa benedetta Jessica, era anche innamorato di questa ragazza qua… che è innamorata di quell'altro» ma anche e soprattutto dei suoi fratelli: «una questione molto, molto più delicata». Dopo la morte del padre, il 27 giugno del 2022, Del Vecchio Jr, che ha ereditato le quote della cassaforte di famiglia, «si sente ricattato dai fratelli». Per questo si rivolge agli hacker professionisti. «Leonardo – spiegano – ha ereditato le quote della cassaforte di famiglia… diciamo che è già la seconda assemblea che fanno e Leonardo si ritrova praticamente ricattato ai fini di governance dell'azienda, dove ci sono ogni membro della famiglia che vuole una cosa diversa... ognuno per ottenerla sta tra virgolette ricattando qualcun altro… Per esempio uno può essere un po' più sensibile a un dividendo più importante, l'altro invece vuole mettere nel board un uomo di sua fiducia... e parlando con Leonardo m'ha detto che lui vorrebbe... ci sono due persone che vorrebbe monitorare, la prima è suo fratello maggiore che è Claudio Del Vecchio e la seconda è un consulente che sta vicino a una delle sue sorelle, Paola Del Vecchio».
    Non è la prima volta che alla Equalize viene commissionato un lavoro di questo tipo. Dice infatti Nunzio Calamucci, uno dei presunti capi della banda: «Vi parlo in tutta franchezza... noi abbiamo già fatto un'operazione simile in Luxottica… era un responsabile dell'ufficio acquisti... abbiamo guardato per mesi il telefono e non abbiamo trovato nulla... abbiamo fatto un accertamento patrimoniale su lui e abbiamo scoperto come intascava le retrocessioni... è stato poi allontanato penso con una lauta buonuscita, per non esplodere sui giornali!».
    Così gli viene chiesto di «inoculare un trojan sui cellulari». La risposta: «Il trojan è illegale in Italia però con voi lo facciamo perché abbiamo un rapporto particolare. Non lo faremmo con un altro cliente che potrebbe rappresentare un pericolo». Così, dalla banda fermata ieri dalla Dda di Milano, il manager ottiene molte informazioni su tutti i fratelli, illecitamente "esfiltrate" dalle banche dati dello Sdi, del Punto Fisco, dell'Inps. Dove però non arrivavano le sofisticate tecnologie usate dalla banda, arrivano i report fasulli costruiti ad arte per accontentare il cliente. Come quello sul fratello Claudio Del Vecchio: dopo numerose ricerche sui suoi spostamenti a New York incrociate ai locali gay della città, il gruppo fabbrica un finto rapporto redatto nel 2018 dalla polizia americana in cui «si dava atto di un controllo eseguito in quella città nei confronti di Claudio Del Vecchio mentre era in compagnia di un "travestito", Ralph A Thompson, registrato sul National sex offender website del Dipartimento di Giustizia americano».
    Anche sul cellulare della promessa moglie, la modella Jessica Ann Serfaty, Del Vecchio vorrebbe inoculare un trojan. Calamucci non riesce ad accontentarlo. Così gli invia dei report falsi con «chat e altri contenuti di conversazioni telematiche e informatiche». Ne simula addirittura «l'intercettazione mediante captatore informatico di conversazioni apparentemente intercorrenti» tra lei «e David Blaine, illusionista di fama mondiale». Spiegava Calamucci intercettato «a me Del Vecchio non piace ma può essere un affare della vita... perché questo mi ha detto non ho limiti di budget pago faccio disfo… ci ha dato anche un altro lavoro da 20 kappa da fare così "d'emblèe" che era un lavoro da 5». Stando alle imputazioni, Del Vecchio Jr, per la sua avvocata Maria Emanuela Mascalchi, «sembrerebbe essere piuttosto persona offesa». Per questo il manager «attende serenamente lo svolgimento delle indagini in modo da dimostrare la propria totale estraneità ai fatti e l'infondatezza delle accuse ipotizzate contro di lui».
  4. Dopo la morte del fondatore l'azienda macina record in Borsa ma i rampolli litigano sull'eredità
    Quella feroce dinasty degli occhiali per spartirsi un tesoro da 40 miliard
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    Francesco Spini
    Milano
    Liti, veti incrociati, cause legali. La storia di spionaggi e dossier scoperchiata nelle ultime ore, e che chiama in causa uno degli eredi Del Vecchio, Leonardo Maria, complica la Dinasty di Agordo. Mentre il capolavoro di Leonardo Del Vecchio, il colosso dell'occhialeria EssilorLuxottica, macina record arrivando a tagliare il traguardo, agognato dal patron scomparso due anni fa, dei 100 miliardi di capitalizzazione in Borsa, la faccenda dell'eredità si avviluppa. Tra i sei eredi del Cavaliere di Agordo l'accordo resta lontano e i veleni delle ultime ore rischiano di intorbidire ulteriormente le acque.
    Per capire questa storia fatta di miliardi e potere, occorre tornare ai giorni dell'apertura del testamento di Leonardo. Il fulcro di un impero da circa 40 miliardi è la Delfin, cassaforte lussemburghese che custodisce gli interessi finanziari della famiglia, a partire dal 32% di EssilorLuxottica, ma anche partecipazioni importanti e "pesanti" come quelle in Mediobanca, Generali, Unicredit. La finanza che conta. Le quote di Delfin sono suddivise tra i sei figli – Claudio, Marisa e Paola Del Vecchio (figli della prima moglie di Leonardo, Luciana Nervo), Leonardo Maria (figlio di Nicoletta Zampillo), Luca e Clemente (la cui mamma è Sabina Grossi) –, la vedova Nicoletta Zampillo e l'altro suo figlio Rocco Basilico. Ciascuno ha il 12,5% che suppergiù significa avere in mano 4-5 miliardi di euro.
    Ma nelle quattro pagine del testamento pubblico accompagnato da tre postille olografe Leonardo Del Vecchio fa di più. Destina le proprietà immobiliari (case, ville, i relativi oggetti d'arte) alla moglie. Non si dimentica nemmeno di destinare la sua riconoscenza ai suoi più stretti collaboratori, in primis al "delfino" Francesco Milleri, oggi numero uno di Essilux e presidente di Delfin, quindi al fidato ad della stessa finanziaria, Romolo Bardin. A quest'ultimo sono state indirizzate 22.222 azioni, a Milleri, oggi numero uno di EssilorLuxottica – sono destinate 2.148.148 azioni, più o meno lo 0,5% del capitale.
    Il punto, però, è che quattro eredi di Leonardo – Luca, Clemente, Paola e Claudio – hanno accettato con beneficio di inventario, e di fatto hanno bloccato l'esecuzione del testamento. Gli ingranaggi si sono bloccati su diversi aspetti. L'inventario ha rilevato circa 460 milioni di passivo a fronte di un attivo patrimoniale di circa 200 milioni, tra crediti vantati verso Delfin, conti correnti, la maxi-barca che fu del patron e altro. La differenza avrebbe dovuto essere stata pagata dagli eredi ma questi non sono ancora riusciti a trovare un accordo, in particolare sul versamento delle tasse sul passaggio delle quote di Essilux a Milleri e Bardin. A Milleri è già stata versata una quota di azioni, pari a 400 mila. Il resto deve ancora arrivare.
    Il tempo però è passato, gli affari sono andati bene, a Essilux guarda ora con interesse anche Mark Zuckerberg di Meta, e da 340 milioni il pacchetto destinato al top manager vale ora 500 milioni, ben di più. Ergo: gli eredi devono metterci più soldi per riconoscere i titoli. L'impasse è inoltre determinata dal fatto che alcuni figli, di cui si sono create cordate trasversali, vorrebbero legare l'accordo anche a una modifica del sistema di governo di Delfin. Del Vecchio, per esempio, ha stabilito che nessun componente della famiglia (forse conoscendone il grado di litigiosità) debba far parte del consiglio di amministrazione di holding, retto da 5 consiglieri guidati dal presidente Milleri e dall'ad Bardin. Sono in carica a tempo indeterminato e, pur dovendo tenere informati i soci, gestiscono partite delicate come la gestione delle quote in Generali e Mediobanca, dove sono secondi e primi azionisti. Cambiare le regole si può, ma serve un voto all'unanimità. E di unanimità tra tali eredi finora se ne è vista poca. Non sono neppure riusciti a votare sulla distribuzione dei dividendi, per cui servono due terzi di voti a favore, altrimenti viene corrisposto il minimo statutario del 10% dei profitti. Per cambiare anche queste norme bisogna trovare una sintesi. Che oggi è una chimera. L'un contro l'altro schierati fratelli ed eredi corrono divisi alla meta. In fondo al tunnel c'è anche la decisione del giudice, chiamato da Milleri a dirimere la questione relativa allo stato di graduazione sull'inventario stabilito da alcuni eredi. Un guazzabuglio, in cui esplode la bomba Leonardo Maria Del Vecchio.
  5. Bezos ferma l'endorsement per Harris critiche e sospetti sul Washington Post
    inviata a washington
    Che una cosa del genere possa accadere al Washington Post, uno dei quotidiani con la migliore reputazione del mondo, è insieme una sorpresa e uno scandalo. Perché sotto la sua testata ha il motto: "Democracy dies in darkness", la democrazia muore nell'oscurità. Perché a metà degli anni '70 ha portato alla resa della presidenza corrotta di Richard Nixon grazie al Watergate, riuscendo a resistere alla pressione del potere (lo ha fatto l'allora editrice Katherine Graham, per capire con quanta forza basta rivedere The Post di Steven Spielberg). Perché in quella redazione, ieri in subbuglio come non accadeva da molto tempo, nessuno si sarebbe mai aspettato che il proprietario Jeff Bezos, uno degli uomini più ricchi del mondo, potesse decidere di impedire all'editorial board del giornale di pubblicare l'endorsement già scritto per Kamala Harris a pochi giorni dalle presidenziali americane. Dimostrando così la fragilità di quelle che ci ostiniamo a considerare inossidabili democrazie. La permeabilità agli interessi degli oligarchi: Bezos come Musk. La pervasività del messaggio che Donald Trump sta diffondendo in tutti gli Stati Uniti: o siete con me, o siete «the enemy within», il nemico interno che una volta presidente io schiaccerò con ogni mezzo (ha evocato anche l'esercito. E no, non era una battuta).
    Non solo più fonti confermano che lo stop è arrivato dall'editore in persona causando un'accesa discussione all'interno dell'editorial board. E portando all'annuncio del mancato endorsement non da parte del direttore editoriale, ma dell'amministratore delegato, William Lewis. Oltre a questo, nello stesso giorno, cioè venerdì, i dirigenti di Blue Origin, la compagnia aerospaziale di Bezos, hanno incontrato Donald Trump dopo il suo discorso a Austin, in Texas. Lo ha rivelato l'Associated Press. Facendo aumentare a dismisura i sospetti su una scelta interessata e tutt'altro che indipendente.
    Robert Kagan, storico, politologo, importante editorialista del Post, conservatore ma da sempre ostile alla politica di Trump, si è dimesso parlando di «una sorta di inchino preventivo davanti a chi pensano sia il probabile vincitore delle elezioni. Chiunque faccia parte dell'economia americana quanto Bezos vuole avere un buon rapporto con chiunque sia al potere». E poi, alla Cnn: «Possono dare mille ragioni per cui stanno facendo una cosa del genere, ma penso che dovremmo vederla chiaramente per quel che è: l'inizio del modo in cui Trump controllerà i media, in particolare quelli in mano alle grandi aziende. Perché tutta l'America delle multinazionali si sta inginocchiando davanti a lui».
    Si difende, Lewis, dicendo che questo è per il Washington Post un modo per tornare alle origini. Non aveva appoggiato alcun presidente prima del 1976, questo dimostra la fiducia che ha nei suoi elettori e nella loro capacità di capire da soli cosa fare. Dimentica però di dire, Lewis, perché le cose nel 1976 erano cambiate. Dopo la scoperta del Watergate e e dopo quegli anni di battaglia col potere, il giornale decise di dire da che parte stava: la prima volta, inevitabilmente, con Jimmy Carter. Le ultime due, contro Donald Trump.
    Così oggi 16 editorialisti scrivono un articolo per prendere le distanze parlando di un «terribile errore» che «rappresenta un abbandono delle convinzioni editoriali fondamentali del giornale che amiamo. Questo è il momento in cui l'istituzione deve rendere chiaro il suo impegno nei confronti dei valori democratici, dello Stato di diritto e delle alleanze internazionali, e della minaccia che Trump rappresenta per loro. Non c'è contraddizione tra l'importante ruolo del Post come giornale indipendente e la sua pratica di fornire endorsement politici, sia per orientare i lettori che per dichiarare i principi in cui crede». Per poi concludere: «Un giornale indipendente potrebbe un giorno scegliere di tirarsi indietro dal dare l'appoggio presidenziale. Ma questo non è il momento giusto, quando un candidato sostiene posizioni che minacciano direttamente la libertà di stampa e i valori della Costituzione».
    Ma soprattutto – in mezzo a una pioggia di abbonamenti disdetti da intellettuali e celebrities (c'è anche Mark Hamil, il Luke Skywalker di Star Wars) – parlano proprio gli autori del Watergate, Bob Woodward e Carl Bernstein: «Rispettiamo la tradizionale indipendenza della pagina editoriale, ma questa decisione a 9 giorni dalle elezioni presidenziali del 2024 ignora le schiaccianti prove giornalistiche del Washington Post sulla minaccia che Trump rappresenta per la democrazia. Sotto la proprietà di Jeff Bezos, l'attività di informazione del Washington Post ha utilizzato le sue abbondanti risorse per indagare rigorosamente sul pericolo e il danno che una seconda presidenza Trump potrebbe causare al futuro della democrazia americana e ciò rende questa decisione ancora più sorprendente e deludente». Se la democrazia muore nell'oscurità, non bisogna lasciare agli oligarchi - a nessuno di loro - il potere di spegnere la luce.
  6. FINALMENTE Il wsj: ipotesi di riciclaggio. Il fondatore: voci senza fondamento
    Indagine su Tether, criptovalute in subbuglio

    Tether è sotto indagine negli Stati Uniti per presunta violazione delle norme anti riciclaggio. Lo rivela il Wall Street Journal che cita fonti vicine alla procura distrettuale di Manhattan, che sta valutando che la criptovaluta sia stata utilizzata per finanziare attività illegali come traffico di droga, terrorismo e cyber attacchi. Inoltre il Dipartimento del Tesoro, aggiungono le fonti, starebbe pensando di imporre sanzioni contro Tether a causa dell'uso diffuso della sua criptovaluta da parte di «individui e gruppi sottoposti a sanzioni da parte degli Stati Uniti», tra cui Hamas e alcune aziende russe, tra cui diversi commercianti di armi.
    Tether è una criptovaluta stabile. È ancorata al dollaro americano, il che vuol dire che ogni Tether vale un dollaro. Fondata da due italiani, Tether oggi fa girare più di 190 miliardi di dollari al giorno, con una capitalizzazione al momento intorno ai 120 miliardi. È un architrave fondamentale dell'ecosistema cripto. Il fondatore di Tether, Paolo Ardoino, savonese, 40 anni, smentisce la ricostruzione del quotidiano. «È assolutamente irresponsabile che il Wsj scriva articoli con affermazioni avventate ma con tanta sicurezza quando nessuna autorità è intervenuta per confermare queste voci », ha detto Ardoino.
    «L'articolo - prosegue il fondatore - sorvola anche sui ben documentati ed estesi rapporti di Tether con le forze dell'ordine per reprimere i cattivi attori che cercano di abusare di Tether e di altre criptovalute»

 

 

 

 

27.10.24
  1. MAFIA PADRONA :    Misure cautelari personali e sequestri emessi dal gip del Tribunale di Frosinone sono in corso di esecuzione nei confronti di un gruppo di persone gravemente indiziate di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione per l'aggiudicazione di appalti di lavori pubblici finanziati col Pnrr e per l'accoglienza dei migranti.

    E' l''esito di un'attività di indagine diretta dall'ufficio di Roma della Procura europea. A eseguire i provvedimenti investigatori della Polizia di Stato della Squadra Mobile di Frosinone e del Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine di Roma .



    Fra gli indagati appartenenti all'organizzazione criminale, destinatari di arresti domiciliari e di misure interdittive, come il divieto di concludere contratti di collaborazione con la pubblica amministrazione., figurano imprenditori e professionisti delle province di Frosinone e Napoli, nonché funzionari e dipendenti di un Comune del frusinate. L'inchiesta rappresenta uno dei primi risultati delle attività investigative coordinate dalla Procura europea sul reato di corruzione legato a fondi Pnrr.
  2. Indagine della Dda, sei misure cautelari : "Rubavano informazioni riservate da banche dati strategiche" . Nella banda poliziotti, un finanziere e un giudice
    Arrestati gli hacker di Stato: "Spiati politici"

    Giuseppe Legato
    Monica Serra
    C'è anche un ex poliziotto, Carmine Gallo, con una società che si occupava di investigazione privata, tra i quattro arrestati finiti ai domiciliari col braccialetto elettronico. Interdittive sono state emesse invece nei confronti di un poliziotto in servizio e un finanziere. Tutti sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata all'accesso abusivo ai sistemi informatici e corruzione. Informazioni delicatissime che avrebbero riguardato anche politici, dati segreti e oggetto di indagini conservate nelle banche dati strategiche nazionali, come Sdi, Serpico, Inps, Anpr, Siva.
    Informazioni investigative ma anche fiscali e sanitarie "esfiltrate" con l'aiuto di hacker e consulenti, poi rivendute – sembrerebbe anche ai media – o usate per scambi di favori. Tra le persone coinvolte dalle indagini ci sarebbe anche un giudice milanese. La sua posizione, per competenza territoriale, è stata stralciata e inviata a Brescia.
    Per tutta la giornata di ieri la Direzione distrettuale antimafia di Milano, guidata dal procuratore Marcello Viola e la Direzione nazionale antimafia, diretta dal collega Giovanni Melillo, hanno coordinato perquisizioni e sequestri condotti dai carabinieri del nucleo investigativo di Varese in Italia e all'estero.
    Le indagini sarebbero nate da un filone di un'inchiesta antimafia anche se agli indagati non sarebbe contestata l'agevolazione mafiosa.
    Da quel che emerge, sono diverse le società di investigazione finite al centro delle indagini. Alcune sarebbero state anche sequestrate.
    Nell'inchiesta sarebbero coinvolti anche alcuni "esperti" informatici in forza a due società di consulenza lombarda utilizzata da più procure italiane in indagini tecnologicamente complesse incaricati da più uffici giudiziari di inoculare virus informatici (i cosiddetti "Trojan") nei cellulari di alcuni indagati. Almeno fino a poco tempo fa uno di questi lavorava per la Skp di Milano (ieri perquisita), ed era finito sotto la lente dei magistrati di Torino in un'inchiesta su presunti spionaggi industriali (tra i quali alcuni dipendenti della Kerakoll il colosso emiliano leader nella produzione di malte e collanti per l'edilizia) insieme ad altri due "procacciatori di affari" legati in qualche modo al gruppo.
    Un'indagine dai retroscena inquietanti. Perché quando i magistrati piemontesi danno incarico di inoculare un trojan sul cellulare di un indagato (un ex appartenente alle forze dell'ordine), l'operazione non va a buon fine. I riscontri dell'informatico ritardano ad arrivare ed è lì che gli inquirenti si insospettiscono. Riusciranno a ritroso a ricostruire – o almeno ad ipotizzare – che lo stesso "esperto" all'epoca in forza alla Skp avrebbe ricevuto la richiesta di "spiare" un colonnello dei carabinieri in forza alla procura del capoluogo e un brigadiere accedendo «abusivamente ai loro profili WhatsApp». Non due persone qualunque. Ma gli investigatori che avevano nominato l'informatico come "ausiliario di polizia giudiziaria" per poter contare sulle sue competenze in tema di «captatori informatici su smartphone».
  3. Medici senza frontiere
    Strage di bimbi a Khan Younis l'Onu: "Crimini atroci al Nord" No di Hamas alla tregua breve
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    Fabiana Magrì
    Elenchi, appunti, versetti coranici e conteggi. Sui fogli vergati a mano, strappati da un block notes con il logo dell'azienda palestinese Al Arqam Trading for Printing, Yahya Sinwar ha lasciato istruzioni ai suoi uomini sulla gestione degli ostaggi israeliani catturati il 7 ottobre del 2023.
    Il quotidiano palestinese Al-Quds ha pubblicato ieri le fotografie di tre pagine di carta attribuite al capo dei capi di Hamas. Li ha presentati come «le volontà del martire Sinwar ai combattenti e i dettagli scritti di suo pugno sui detenuti». Negli appunti, il regista del massacro nei kibbutz, nelle basi militari e al festival Nova – 1200 vittime israeliane e 251 persone rapite – si raccomanda di «prendersi cura della vita dei prigionieri nemici e tenerli al sicuro, poiché sono un'importante merce di scambio» per liberare i prigionieri palestinesi. Uno dei fogli svela la posizione – il centro di Gaza, la City e Rafah – di alcuni gruppi di ostaggi, senza farne i nomi ma con accuratezza di compilazione e dettagli sulle età, il sesso, le parentele di ciascuno. E con la suddivisione tra civili e soldati e tra persone di nazionalità straniera o con una seconda cittadinanza. Ci sono anche, sui fogli ritrovati, i nomi di 11 donne che furono rilasciate nella tregua di novembre.
    Dopo l'uccisione, lo scorso 16 ottobre, del leader assoluto di Hamas, sono ripresi i voli da un capo all'altro del Medio Oriente da parte dei capi delegazione di Israele e dei mediatori. Da un lato, riferisce Afp citando una fonte del gruppo, la fazione palestinese «ha espresso la sua disponibilità» e ha discusso con gli egiziani «idee e proposte» per un cessate il fuoco purché Israele si ritiri dalla Striscia, consenta il ritorno degli sfollati e consentire l'ingresso di aiuti umanitari a Gaza. Ma è presto – se così si può dire a un anno dalla prima e unica tregua di questo conflitto – per essere ottimisti. Perché un'altra fonte di Hamas, Osama Hamdan, ha dichiarato al notiziario Al-Mayadeen che non c'è stato alcun ammorbidimento. Anche il Canale 12 israeliano ha registrato la stessa rigidità da parte di Khalil al-Hiya, negoziatore per Hamas, che ha escluso di accettare una nuova proposta israeliana di un breve cessate il fuoco (10-12 giorni) in cambio del rilascio di 5 ostaggi e del lasciapassare per i suoi leader.
    Sebbene gli ingranaggi della diplomazia cerchino di rimettersi in movimento, non senza difficoltà, la guerra procede a ritmo incalzante. Tanto nella Striscia – dove il bilancio di Hamas dei morti ha raggiunto quota 42.800 – quanto in Libano – qui i morti sono oltre 2.500 –, con l'incognita dell'annunciato attacco israeliano all'Iran e le voci di una possibile azione preventiva iraniana. Teheran si sta preparando a una guerra con Israele, ma allo stesso tempo cerca di evitarla, secondo funzionari iraniani citati dal New York Times.
    Il Nord dell'enclave palestinese sta vivendo «il momento più buio», ha avvertito l'Onu, accusando Israele di «crimini atroci». Tsahal ha circondato l'ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia perché ritiene che vi si nascondano «terroristi e infrastrutture con armi». Uno sviluppo che il capo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha definito «profondamente inquietante». Negli scontri armati tra forze israeliane e miliziani palestinesi a Jabalia, l'esercito ha riportato la perdita di tre soldati.
    Medici Senza Frontiere ha invece denunciato l'uccisione di un membro del suo staff, Hasan Suboh, durante le operazioni militari notturne israeliane a Khan Younis, nel Sud di Gaza. Qui, secondo il ministero della Sanità di Hamas, l'attacco di Tsahal ha causato almeno 33 morti (la tv qatariota Al Jazeera ne riporta 38, citando fonti mediche locali), tra cui 14 bambini.
    Altrettanto violento è il confronto bellico tra Israele ed Hezbollah in Libano. Due morti e venti feriti è il bilancio dei soccorritori nell'attacco con razzi sul centro commerciale della cittadina araba di Majd al-Khorum, nel Nord dello Stato ebraico, rivendicato dal Partito di Dio. L'uccisione di 3 giornalisti in un attacco aereo israeliano su Hasbaya, nell'Est del Libano vicino al confine con la Siria è un «crimine di guerra» per il ministro dell'Informazione libanese.
  4. occupazione silenziosa
    Georgia

    Inviata a Khurvaleti
    Una mattina come tante la contadina georgiana Valia Vanishvili si è svegliata prima del solito con una strana sensazione. Ha aperto la porta di casa, nel villaggio di Khurvaleti, e ha scoperto che nella notte era stata inghiottita dalla Russia. Lei, il marito, le galline, l'orto, il frutteto, l'albero di melograno, la cuccia del cane, tutto era diventato russo. Nella notte i soldati avevano spostato il confine che divide l'Ossezia del Sud occupata e la Georgia, mangiandosi altra terra e innalzando una barriera di filo spinato con un cartello: «Confine di Stato, passaggio vietato». Dal 2020 Valia, che ha da poco compiuto 89 anni, vive grazie ai pacchi di cibo e medicinali che la guardia di frontiera georgiana e la figlia Nana, che vive a Tbilisi, le lanciano oltre il muro. Lei ormai esce poco, parla con un filo di voce dalla finestra, perché, dice «i russi sono nervosi». È vero: basta avvicinarsi troppo alla barriera che dal nulla spuntano soldati in mimetica, passamontagna e mostrine russe, il fucile puntato direttamente alla faccia.
    Nei 26 villaggi georgiani lungo la linea di demarcazione, tra cui Khurvaleti, l'occupazione russa avanza di qualche metro alla volta, nel cuore della notte, sempre in silenzio. Spesso inizia con una linea tracciata attraverso un campo, nastri sugli alberi che stabiliscono il confine, poi si scavano i fossati, i fossati diventano recinti, i recinti barriere di filo spinato. Quindi si materializza un cartello che sancisce il nuovo "confine" e torrette di guardia. I georgiani la chiamano «occupazione strisciante» e non in senso metaforico.
    Khurvaleti si trova al limite meridionale dell'Ossezia del Sud, regione separatista occupata dalle truppe russe dopo la "guerra dei cinque giorni" con la Georgia nel 2008, in quella che si è rivelata una prova generale per l'Ucraina. Da allora, quando i carri armati di Vladimir Putin entrarono nel Paese, i soldati russi hanno lentamente e silenziosamente invaso i territori dei loro vicini, spostando le linee di demarcazione militarizzate sempre più in profondità nel territorio georgiano. Valia Vanishvili, è una delle poche persone che continuano a vivere qui. Suo marito, Data, è morto nel 2021 e le ha lasciato un testamento in cui le chiedeva di non lasciare la casa. Valia resiste anche per lui: «Non possono uccidermi, e allora aspettano che muoia per prendersi la mia terra». Ogni tanto qualche georgiano sparisce nel nulla, qualcuno viene ucciso, come Tamaz Ginturi, del villaggio di Kirbali, che voleva solo pregare nella sua chiesa, poco fuori il villaggio, assorbita anche lei dall'occupazione in una notte come tante altre. Il 6 novembre le truppe russe lo hanno arrestato e poi gli hanno sparato. «Queste sono le persone più coraggiose della Georgia», ha detto ieri la presidente filoeuropeista Salome Zourabichvili, riferendosi a tutti i georgiani che si rifiutano di abbandonare terra e case per resistere all'avanzata russa. La vita, per loro e per Valia, è sempre più difficile: il punto di attraversamento più vicino è a 50 chilometri, ed è aperto 10 giorni al mese o secondo il capriccio degli occupanti. Una visita a un parente dall'altra parte della linea di demarcazione è un viaggio di andata e ritorno di 200 chilometri.
    Un tempo un villaggio densamente popolato, Khurvaleti è ora quasi deserto. La maggior parte delle case sono abbandonate, le finestre murate, le porte oscillano appese a cardini precari. Chi poteva se n'è andato: «Questo posto era pieno di gente», dice il poliziotto della guardia di frontiera, senza togliere gli occhi da un gabbiotto azzurro a 10 metri dalla casa di Valia: «Lì stanno i soldati russi e quelli dell'Fsb». Avverte di non stare troppo vicino alla barriera, e chiede a Valia di non uscire di casa: non potrebbe comunque, perché senza forze e malata: «Dopo l'invasione dell'Ucraina, Mosca ha spostato truppe ed equipaggiamento al fronte, ma quelli rimasti sono più nervosi». Ci sono pochi soldati nelle due basi militari costruite sulle colline su entrambi i lati di Khurvaleti, ma i georgiani temono che se la Russia dovesse vincere in Ucraina, le forze di Putin torneranno per dare un altro morso alla Georgia, forse per inghiottire l'intero Paese. «La Russia è già qui – dice l'agente –, controlla Ossezia del Sud e Abkhazia, un quinto del nostro territorio».
    Per questo, e per l'atmosfera incandescente e violenta del Paese, le elezioni in programma oggi, rappresentano una scelta che non prevede scale di grigi tra il governo in carica che tira verso Mosca e le opposizioni, che provano a orientare la barra verso l'Unione europea, in linea con il desiderio dell'80% dei georgiani. «Quelli rimasti sulla linea di demarcazione – spiega Ketevan, vicina di casa di Valia, ma ancora dalla parte georgiana del filo spinato – sono ormai vecchissimi come noi. Non resisteremo a lungo». Ricorda ancora i separatisti, i carri russi nel 2008, il periodo sovietico, la fame: «Siamo nelle mani dei giovani, della loro forza nuova: noi cosa possiamo fare se non continuare a coltivare la terra e aspettare?».
    Gli analisti militari hanno stimato che se i russi attaccassero dall'Ossezia del Sud, potrebbero tagliare la principale autostrada della Georgia in pochi minuti e raggiungere Tbilisi in un paio d'ore. Con le truppe di Mosca impantanate in Ucraina, tuttavia, la comparsa di carri armati russi nelle strade della capitale non è una minaccia immediata: «Il punto è che la Russia stia già prendendo il controllo del nostro Paese di nascosto – dice un militare georgiano – rubandoci la terra e la democrazia da sotto il naso senza nemmeno bisogno di carri armati».
  5.  La rabbia degli operai "Nessuna fatalità ignorati gli allarmi"
    Niccolò Zancan
    inviato a Bologna
    «Adesso basta», dice il sindaco Matteo Lepore. «Questo è un giorno di lutto e di sciopero. Noi staremo vicini alle famiglie dei lavoratori. Ma vorremmo che il mondo delle imprese rispondesse a questa ennesima tragedia sul posto di lavoro con qualcosa di diverso dalle solite pacche sulle spalle».
    Piove. Piove ancora. Continua a piovere su questi operai e su questi fiori al cancello della fabbrica. Bologna sta vivendo giorni tremendi. Non aveva ancora finito la conta dei danni della quarta alluvione negli ultimi due anni, quando tutti hanno sentito l'esplosione che ha ucciso due lavoratori e ne ha feriti undici nello stabilimento della Toyota Handling alla periferia di Borgo Panigale. La pioggia è una costante. C'è un nuovo allarme meteo. Qualcuno parla della partita del Bologna contro il Milan allo stadio Dall'Ara che dovrà essere rimandata per ragioni di prudenza, e qualcun altro invece parla della pioggia che è caduta sulla fabbrica nei giorni scorsi. C'è tantissima gente fuori dai cancelli. Sono venuti senza bandiere e senza striscioni. Sciopero. E lutto. «È successo anche qui, è successo anche a noi», dice un'operaia in lacrime. E mentre lo dice, viene giù ancora.
    Lavoravano a ritmo continuo. Producevano carrelli elevatori. La fabbrica non ha mai chiuso, nemmeno in quei giorni. L'inchiesta sull'esplosione che ha ucciso Fabio Tosi e Lorenzo Cubello, entrambi operai nel settore della logistica, si concentra su un punto preciso dello stabilimento. È la zona dei compressori. Sono come dei giganteschi boiler che alimentano l'impianto di climatizzazione della fabbrica. Sono piazzati fuori, ma molto vicini al capannone della logistica. Da lì è partita l'esplosione. Erano le 17.20 di mercoledì 23 ottobre. Proprio in quel momento, secondo diversi testimoni, è stato acceso per la prima volta l'impianto di riscaldamento.
    «Le cose da capire sono tante», dice il delegato per la sicurezza e sindacalista delegato Uilm Pino Sicilia. Lui ha perso due amici l'altro giorno, due compagni di lavoro. Ha tenuto la mano di Lorenzo Cubello mentre moriva. «La prima cosa che vorremmo sapere è questa. C'entra l'alluvione con l'esplosione? Intendo dire, c'entra tutta l'acqua caduta fra sabato e domenica con un possibile cortocircuito che ha fatto saltare il compressore?».
    Tutti ricordano che i locali sotterranei si erano allagati. E le tute, poi. «Molte tute da lavoro lunedì sono state portate al lavaggio perché erano fradicie di pioggia. La fabbrica continuava a produrre. È vero, non è stata questa la zona più colpita dall'alluvione. Ma ci chiediamo se tutta quella pioggia possa avere causato l'incidente».
    Mentre gli operai circondano i cancelli come per un ultimo abbraccio ai due compagni morti nell'esplosione, all'ingresso principale si presenta l'amministratore delegato Michele Candiani: «La nostra squadra di primo soccorso è entrata in azione immediatamente. Sono stati dei leoni, così coraggiosi. Hanno prestato subito soccorso e ho saputo che una persona si è salvata proprio grazie a loro, al loro intervento. Quindi, quello che vi dico, è che dopo l'esplosione ho visto un'evacuazione dello stabilimento molto ordinata, fatta da lavoratori addestrati. Ho visto la comunità Toyota, perché noi siamo una comunità, stringersi e sorreggersi l'un con l'altro». Gli domandano quando riaprirà la fabbrica: «Noi vorremmo farlo il prima possibile, ma deciderà la magistratura». Arrivano altre domande, l'amministratore delegato dice: «Oggi è la giornata del rispetto verso questi due poveri ragazzi che sono finiti così».
    Prima del disastro. Alla Toyota era in corso una vertenza sindacale sul tema della sicurezza. Discutevano di numeri di lavoratori necessari per tempi di produzione, discutevano di attrezzature antinfortunistiche e di ergonomia nella linea produttiva. Quello che è successo è stato qualcosa di totalmente diverso. All'esterno un gigantesco generatore è scoppiato per qualche ragione non chiara. Come una bomba, ha devastato il reparto più vicino, quello della logistica. «Non possiamo accettare l'idea della fatalità», dice Massimo Mazzeo di Fim Cisl. «Perché era proprio lì? Era segnalato nella mappa dei rischi aziendali? E ancora: la pioggia dell'alluvione può avere avuto un ruolo?», si domanda il sindacalista Pino Sicilia.
    Fra gli operai, ce n'è uno che un tempo aveva suonato con Lucio Dalla e scritto canzoni per Gianni Morandi. Si chiama Bracco Di Graci, da 25 anni lavora alla Toyota. Era lì dentro, fino a quindici minuti prima dell'esplosione. Dice questa frase senza appello, in quanto a esattezza: «Un'azienda si ripara, la vita no».
  6. SI TROVANO I SOLDI PUBBLICI PER TUTTO INACCETTABILE RITARDO Piano da 5 milioni per l'edilizia popolare, si tratta di appartamenti che erano inagibili. Gli ultimi lavori finiranno nel 2026
    Ristrutturazioni in 440 alloggi Atc Prime assegnazioni in lista d'attesa

    Pierfrancesco caracciolo
    Sono 440 nell'area metropolitana di Torino, di cui 250 nel capoluogo. È il numero degli alloggi popolari sfitti che Atc, nei prossimi mesi, metterà a disposizione delle famiglie in lista d'attesa. Si tratta di appartamenti vuoti perché alle prese con problemi strutturali e, di conseguenza, dichiarati inagibili. L'agenzia per la casa, a partire dal 2021, ha iniziato a ristrutturarli, operazione che chiuderà alla fine del prossimo anno.
    Gli interventi di restyling sono finanziati con 5 milioni, risorse in arrivo da tre fonti: il Pnrr, il fondo Cipess (comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile) e quello ex Gescal. Le prime assegnazioni sono partite nei giorni scorsi, quando sono state ultimate le ristrutturazioni. Andranno avanti fino al 2026, dopo la fine degli ultimi lavori e il rilascio degli attestati di agibilità.
    L'operazione permetterà ad Atc di coprire il 5% del fabbisogno di appartamenti nell'area metropolitana di Torino. Sono infatti 8.559, a oggi, le famiglie che hanno fatto domanda per una casa popolare salvo non essere state ancora accontentate (di queste, 6.038 nel capoluogo piemontese). I 440 di cui sopra non sono gli unici alloggi popolari sfitti perché in condizioni strutturali precarie. A questi, nell'area metropolitana, se ne aggiungono 1.182, la metà a Torino. Resteranno vuoti ancora per un po' perché Atc, al momento, non ha le risorse per ristrutturarli. Il tutto, su un patrimonio immobiliare di edilizia sociale che a Torino e provincia conta 28.422 appartamenti, di cui 17.869 nel capoluogo.
    Il piano straordinario di ristrutturazione rientra in una più profonda operazione e di riqualificazione dell'edilizia sociale di Torino e provincia, a cura di Atc. Si tratta di un maxi progetto da 500 milioni di euro, avviato nel 2021, che si chiuderà il prossimo anno. Con queste risorse, in gran parte in arrivo dal bonus al 110, è in corso la ristrutturazione di 200 stabili Atc, per un totale di 7 mila alloggi. Si tratta di lavori di diversi tipi, che coinvolgono infissi interni ed esterni, caldaie, cappotti termici, ascensori e barriere architettoniche.
    Il piano è stato presentato ieri in corso Dante. Sono intervenuti Luigi Brossa, direttore generale Atc, Emilio Bolla, presidente dell'ente, il vicepresidente Fabio Tassone e l'assessore regionale alle politiche della Casa Maurizio Marrone. I lavori di riqualificazione, negli stabili coinvolti, produrranno un risparmio energetico del 50%, che si tradurrà in un dimezzamento dei costi in bolletta per gli inquilini. All'atto pratico, ogni famiglia risparmierà circa 500 euro all'annoa donna: "senza lavoro, non so dove andare"
    L'odissea di Caterina "Bassa in graduatoria ora dormo per strada"

    Da un rifugio di fortuna all'altro. Spesso per strada, qualche volta nei dormitori, più raramente a casa di amici. Sono scandite dalla ricerca di un posto in cui dormire le giornate di Caterina P. , 49 anni, e del figlio di 21. È così dal dicembre 2023, data in cui entrambi erano stati allontanati dal loro alloggio in via Stradella, quartiere Madonna di Campagna. Lo scorso agosto madre e figlio avevano presentato domanda per fare ingresso in una casa popolare, salvo scoprire di aver imboccato una strada in salita. Entrambi maggiorenni, sono stati inseriti in graduatoria, ma con un punteggio basso. Per il momento, è stato spiegato loro, dovranno aspettare. Un'attesa che, ragionevolmente, sarà tutt'altro che breve.
    Caterina, separata da oltre un decennio, fino al 2020 aveva lavorato al Golden Palace hotel. Era addetta alle pulizie delle camere, con contratto a gettone. Poi era arrivato il Covid. Le attività dell'albergo dei vip si erano fermate. E lei era rimasta senza lavoro. Dopo aver ricevuto i primi ristori del governo, era andata a caccia di un nuovo impiego, senza trovarne uno stabile. Una buona fetta del denaro familiare, inoltre, veniva giocoforza destinato al figlio, che nel frattempo si stava diplomando. Per diverso tempo, in queste condizioni, per loro era stato impossibile pagare le spese condominiali. Così era arrivato il pignoramento dell'alloggio, su input dell'amministratore di condominio. E per loro, dieci mesi fa, la strada.
    Il figlio, dopo di allora, è stato costretto a interrompere gli studi. «Di tanto in tanto va a dormire dal padre, altre dagli amici o dalla ragazza» racconta Caterina. Per la mamma è più complicato. Per tre mesi si è rifugiata nel dormitorio del Cottolengo. Poi, quando le temperature si sono alzate, ha scelto i portici del centro. «Perché ho atteso otto mesi prima di fare domanda per un alloggio popolare? Mi avevano assicurato – spiega – che sarei rientrata tra gli aventi diritto a un appartamento nell'ambito del piano per le persone in emergenza abitativa». Ma le cose non erano andate così. E ora? «Piove quasi tutti i giorni, le giornate sono sempre più fredde. E io non so dove andare.

 

 

26.10.24
  1. UN GOVERNO CHE NON RAPPRESENTA PIU' IL PAESE : Il ministro e l'uomo di Fazzolari
    una faida tra nomine e parenti
    ilario lombardo
    roma
    Bisogna prendere un bel respiro per entrare in questo ennesimo racconto familiare dentro il partito monolite di Giorgia Meloni. Bisogna intrecciare i nomi e tenerli a mente per ricostruire una vicenda che ha assunto i contorni di una faida. La famiglia è la matrice della gestione del potere della premier, della scelta della sua classe dirigente e della rete di fedelissimi. Il ministero della Cultura è un osservatorio perfetto di questa mescolanza di sangue e cosa pubblica, di appartenenza e finanziamenti, di cognomi che si ripetono e consulenze che si sommano.
    Partiamo da uno di questi cognomi: Merlino. Emanuele Merlino è il figlio di Mario, militante Avanguardia Nazionale, coinvolto e indagato – poi assolto - nell'inchiesta su Piazza Fontana. Emanuele – che nella sua biografia risulta essere attore, sceneggiatore e scrittore - è stato il coordinatore del dipartimento Cultura di Fratelli d'Italia nel Lazio, poi promosso a capo della segreteria tecnica di Gennaro Sangiuliano. È l'uomo di collegamento tra il Mic e Palazzo Chigi. Quando Giovanbattista Fazzolari, il risolvi-grane che Meloni ha voluto in una stanza accanto alla sua, deve chiamare per capire cosa sta succedendo al ministero è il numero di Merlino che digita. Ad Alessandro Giuli è bastato varcare la porta del suo nuovo ufficio, appena preso il posto di Sangiuliano, per capirlo. Per capire che non avrebbe avuto vita facile, che sarebbe stato controllato, indebolito, commissariato. È questo il senso di quel «lasciatemi lavorare» pronunciato l'altro ieri di fronte al sottosegretario Alfredo Mantovano. A Palazzo Chigi, Giuli non incontra né Fazzolari, né Meloni. Ma parla con il referente dei Pro-Vita, i crociati anti-gay che hanno infiammato il partito contro Giuli dopo la scelta di Francesco Spano come capo di gabinetto.
    Merlino riferisce ogni cosa a Fazzolari, come faceva durante il feuilleton estivo tra Sangiuliano e la sua amante, Maria Rosaria Boccia. Ma fa anche altro. Gestisce da ministro-ombra le stanze del MiC, cerca di imporre nomi e si fa artefice di un repulisti che Giuli, in gran parte, subisce. Sono due fonti che raccontano alla Stampa quanto segue. Una è del ministero, un'altra è del partito. Giuli non sceglie Spano a caso. Ha lavorato con lui al Maxxi, si è trovato bene e, nonostante le radici politiche opposte, si fida. Ma sa perfettamente che cosa provocherà la sua nomina, e come torcerà le budella di Fazzolari e di gran parte di FdI che, a partire da Meloni, lo aveva combattuto quando sotto il governo Renzi fu costretto a dimettersi da presidente dell'Ufficio nazionale contro le discriminazioni. Giuli porta con sé due persone dal Maxxi. Uno è Spano, l'altra è Chiara Sbocchia, dal primo ottobre capo della segreteria al posto di Narda Frisoni, che rimarrà fino a dicembre come consigliere per le pubbliche relazioni. Così Giuli aveva costruito il suo fortino, mentre la paranoia da spie che attanaglia Palazzo Chigi dopo il pasticcio di Sangiuliano travolgeva funzionari e dirigenti. Vengono fatti fuori, trasferiti o ridimensionati Antonio Di Maio (ex segretario particolare), Gianluca Lopes (del cerimoniale), Renato Narciso, Dario Sigfrido Renzullo, Maria Veronica Izzo, Carla Costante.
    La purga ministeriale è affidata a Merlino e a Stefano Lanna, un dirigente del gabinetto che Sangiuliano stimava molto, al punto da volerlo promuovere direttore generale degli Archivi italiani, un tentativo che frana di fronte al no della Corte dei Conti. Giuli vede che Merlino e Lanna si muovono in asse, con un'autonomia lasciata in eredità dal predecessore. I sospetti diventano quotidiani. Le ragioni dei dissidi vanno ricercati nelle nuove nomine. A dicembre scade il mandato di Andrea Petrella, portavoce di Sangiuliano. Per sostituirlo, Giuli si orienta su Fabio Tatafiore, direttore della comunicazione di Utopia, società con cui ha lavorato al Maxxi. Merlino, invece, insiste su un'altra formula: vorrebbe far salire di grado all'ufficio stampa Salvatore Falco, giornalista già in forza allo staff, e affidare la comunicazione a Michele Bertocchi, il social media manager autore dello scivolone su Napoli «fondata due secoli e mezzo fa» pubblicato sul profilo di Sangiuliano. Come testimoniano le chat che abbiamo potuto vedere, Bertocchi ha continuato a lavorare sui social, nonostante il ministro ne avesse annunciato le dimissioni.
    Sta di fatto che a Giuli non va giù di non avere il controllo sul proprio ministero. Chi sopravvive al reset è automaticamente considerato manovrato da Palazzo Chigi. E così Giuli cerca di limitare Merlino e Lanna, per inviare un messaggio a Fazzolari. Lanna è il fratello di Luciano, giornalista in varie testate di destra, ex Secolo d'Italia, nominato da Sangiuliano direttore del Centro per il libro il 21 dicembre del 2023. Ma la rete familiare del clan Meloni è molto più estesa. Al MiC c'è anche Claudia Ianniello, anche lei intoccabile per volontà di Meloni: è la sorella di Giovanna, portavoce storica della presidente del Consiglio, ed è pure la moglie di Paolo Quadrozzi, altro storico collaboratore dell'ufficio stampa, finito alle dipendenze di Mantovano a Palazzo Chigi.
    Tutti si conoscono da tempo, tutti in qualche modo incrociano le loro biografie di militanti della destra romana, cresciuti assieme fino alla conquista del governo. La parentopoli è ampia e trasversale, perché lo stesso Giuli ha una sorella, Antonella, che con la famiglia Meloni lavora da tempo. Prima come portavoce di Francesco Lollobrigida, ormai ex cognato della premier, poi come assistente di Arianna, sorella di Meloni ed ex moglie di Lollobrigida, mansione di partito che Giuli (sorella) svolge mentre è inquadrata come dipendente dell'ufficio stampa istituzionale della Camera dei Deputati. Due giorni fa è stata beccata dai cronisti in Transatlantico a urlare contro Federico Mollicone, deputato di FdI, presidente della commissione Cultura, un altro che non ama Giuli (fratello) . La faida è una degenerazione del familismo. E qui nessuno ne sembra immune.
  2. LA MELONI NON E' PIU UNA CALAMITA DI VOTI :   Ranucci di Report: "Mostreremo come ha gestito il museo, ma la fonte non è Sangiuliano" Nel dossier la milit anza in organizzazioni neonaziste e gli incarichi a gente di famiglia
    "Curatori cacciati su due piedi e nomine vicine ai vertici Fdi Un altro caso Boccia al Maxxi"
    irene famà
    roma
    Militanza in organizzazioni neonaziste e saluti romani, incarichi ai familiari, sgambetti per favorire gli amici degli amici. «La vicenda Spano è una piccola parte di quello che racconteremo domenica a Report». Il giornalista Sigfrido Ranucci a "Un Giorno da Pecora" lo dice chiaro: «C'è un altro caso che riguarda il ministro Giuli». E in vista della trasmissione su RaiTre annuncia un'inchiesta a 360 gradi sul ministero della Cultura. Questioni di eleganza, di opportunità politica. E non solo.
    Proprio la gestione del Maxxi, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, sembra essere al centro della puntata che stila un bilancio dei due anni di presidenza di Alessandro Giuli. «Il problema è: in base a quali requisiti è stato nominato ministro della Cultura? Mostreremo alcune cose che ha fatto in passato e come ha gestito il Maxxi», annuncia Ranucci. Si parlerà del crollo dei biglietti delle sponsorizzazioni, della gestione dei progetti lasciati in eredità dalla precedente amministrazione, di un finanziamento da due milioni e mezzo di euro per un progetto di rigenerazione urbana con la Sony rimandato indietro per organizzare una mostra sul Vittoriale degli Italiani. Evento, dicono i ben informati, finanziato dal ministero delle Imprese con due milioni di euro ed esposto al Maxxi per cinque giorni.
    «Sveleremo un nuovo caso Boccia», dice il conduttore. Che aggiunge: «Sangiuliano non c'entra, non è una nostra fonte». E ancora. «Forse chi non ama Giuli in Fratelli d'Italia, ora lo amerà ancora meno. .. Mostreremo alcuni episodi in cui ha avuto anche un certo ruolo all'interno di questo secondo caso Boccia». E c'è un altro evento, in cui il ministro Giuli sembra aver ricoperto una posizione centrale. Si tratta della mostra sul Futurismo, in programma a dicembre alla Galleria nazionale d'arte moderna (Gnam) di Roma e al centro delle polemiche da più di un mese. Avrebbe dovuto essere il più grande evento culturale del governo Meloni, per ora pare caratterizzato da rivalità e interessi interni. C'era un curatore, Gabriele Simongini, a cui nel 2022 diede l'incarico l'allora ministro Gennaro Sangiuliano. Insieme al co-curatore Alberto Dambruoso e al comitato scientifico, si mise subito al lavoro. Poi venne esautorato. Perché? Il suo curriculum, pare, non era considerato all'altezza. Secondo l'inchiesta di Report, dietro questa scelta ci sarebbero in realtà forti pressioni da parte di alti dirigenti di Fratelli d'Italia che avrebbero favorito un famoso gallerista molto vicino al partito. Visto in alcune occasioni, così raccontano, a fare il saluto romano.
    L'attuale ministro della Cultura ha sempre difeso il suo «pedigree di destra, con nonno monarchico che andò a Salò». Parole sue. E la puntata di Report ricostruisce anche la sua militanza giovanile nell'organizzazione neonazista Meridiano zero con un'intervista al fondatore Rainaldo Graziani, figlio dell'esponente di Ordine Nuovo Clemente Graziani.
    Al centro dell'inchiesta, poi, l'ormai nota vicenda di Francesco Spano, avvocato pisano di 47 anni, sino all'altro ieri capo di gabinetto del Mic. Dopo solo dieci giorni, è stato costretto alle dimissioni: mentre era segretario generale del Maxxi, suo marito, l'avvocato Carnabuci, sposato pochi mesi fa, fu riconfermato tra i collaboratori retribuiti. Non è la prima volta che Spano finisce al centro della bufera. E pure nel 2017, per una vicenda di finanziamenti svelata da Le Iene (la Corte dei conti sancì successivamente la legittimità degli atti), era stato costretto alle dimissioni. Faccende passate: così deve aver pensato Giuli. Che, sin dal suo insediamento, l'ha voluto al suo fianco. Nonostante le critiche.
    Ed è in questo contesto che si inserisce un'altra querelle. Il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto attacca la trasmissione di RaiTre: «Ha pompato il presunto scandalo "al maschile" utilizzando in modo deliberato una unica leva: la morbosità omofoba». Immediata la risposta di Ranucci: «Non sa di cosa sta parlando». —
  3. MODELLO ITALIANO PER LA TOYOTA: L'esplosione dal climatizzatore "Un solo boato ed è saltato tutto"
    I punti chiave

    monica serra
    inviata a bologna
    «È stata una bomba, è successo tutto in quattro minuti»: Pino Sicilia, responsabile per la sicurezza della Uilm, è stato tra i primi operai a soccorrere i colleghi. Trattiene le lacrime mentre racconta: «È stato il finimondo. È saltato tutto: pareti, uffici, reti». Non ci sono state fiamme, non c'è stato alcun preavviso in questo capannone devastato della Toyota Material Handling di Borgo Panigale, alle porte di Bologna, che da una vita produce carrelli elevatori. Alle 17,20 di mercoledì pomeriggio, solo uno scoppio tremendo che non ha lasciato scampo.
    In base ai primi accertamenti, tutto sarebbe partito da una componente del grande impianto di climatizzazione all'esterno del capannone. Era collegato a un grosso tubo, uno scambiatore che ora non c'è più: si sarebbe disintegrato nello scoppio. Secondo una prima ipotesi, quel tubo si sarebbe caricato di energia al punto da saltare in aria. In un istante. L'onda d'urto ha divelto il cemento e distrutto quello che ha incontrato. La parete del capannone davanti è precipitata addosso agli operai del secondo turno. Pezzi di muro, vetri e altri detriti sono stati trovati anche a decine di metri di distanza.
    All'arrivo dei vigili del fuoco per l'operaio trentasette Lorenzo Cubello non c'era più nulla da fare. Il suo corpo senza vita è stato estratto dalle macerie, mentre fuori continuavano ad arrivare i colleghi. Quelli del «turno giornaliero» erano usciti mezz'ora prima. «Quelli che abitano qui vicino hanno sentito lo scoppio da casa e si sono precipitati qui» racconta un operaio davanti ai cancelli della multinazionale vicino ai mazzi di fiori in fila, uno accanto all'altro. In fin di vita è stato trasportato in ospedale Fabio Tosi di 34 anni, ma i medici non hanno potuto fare nulla per lui: è morto poco più tardi. Entrambe le vittime lavoravano nel settore della logistica, con la mansione di «asservitori delle linee di produzione», in pratica trasportavano i pezzi da assemblare fino alle linee. Degli undici feriti più gravi, quattro sono ancora ricoverati: uno di loro è in Rianimazione.
    Con i carabinieri, i vigili del fuoco e la Asl, si è tenuto ieri mattina un sopralluogo della procuratrice aggiunta Morena Plazzi e della pm Francesca Rago che hanno aperto un fascicolo d'inchiesta per omicidio e lesioni colpose per ora contro ignoti. «Il primo passo – spiega il procuratore facente funzioni Francesco Caleca – sarà l'autopsia sui corpi delle vittime. Dopo disporremo tutte le consulenze tecniche necessarie». Qualche testimone ha raccontato che i riscaldamenti erano stati attivati per la prima volta proprio mercoledì, ma gli investigatori stanno cercando ulteriori conferme e verificando se la manutenzione fosse in regola. Subito sono state acquisite le immagini delle telecamere di sorveglianza e raccolte le testimonianze degli operai e degli impiegati presenti negli uffici che pure sono stati danneggiati dallo scoppio. Tutta l'area è stata messa sotto sequestro.
    «Mai avuto un sentore, mai un problema così serio. Lo sciopero di due ore a fine turno che avevamo indetto prima della tragedia riguardava altre questioni relative all'organizzazione del lavoro. Questo è uno stabilimento con un alto livello di contrattazione interna e con strutturate relazioni sindacali» spiega Giovanni Verla della Fiom Cgil al termine dell'incontro con l'azienda che si è tenuto nel pomeriggio. I responsabili hanno fatto sapere di avere già attivato la cassa integrazione per tutti e 900 i dipendenti: «Abbiamo chiesto per tutti la continuità salariale con una integrazione del cento per cento dello stipendio. Si sono riservati e ci sarà un nuovo incontro martedì. Al momento ovviamente non sono prevedibili tempi di ripresa».
    Nel frattempo, oggi è stato indetto uno sciopero e non solo davanti alla Toyota Material Handling: «Metalmeccaniche e metalmeccanici della regione incroceranno le braccia, per dire basta alla strage quotidiana di donne e uomini che escono di casa per lavorare e non vi fanno ritorno. La dimensione di questa tragedia ci sconvolge tutti», si legge in una nota congiunta dei sindacati. «Vorrei ricordare che 20-30-40 anni fa il metodo Toyota nel mondo era stato considerato uno dei metodi centrali perché era una delle imprese all'avanguardia con zero infortuni e zero morti. È evidente che occorre un nuovo modello per fare impresa», è il commento segretario della Cgil Maurizio Landini. —
  4. GOVERNO ASSENTE . A QUANDO LA SFIDUCIA ? "La patente a punti non salva i lavoratori È solo burocrazia"
    claudia luise
    «Con la patente a crediti si fa solo sicurezza di carta». Bruno Giordano è un magistrato di lunga esperienza, oggi lavora alla Corte di Cassazione. Ha insegnato Diritto della sicurezza del lavoro all'Università di Milano e ha ricoperto la carica di direttore dell'Ispettorato nazionale del lavoro. Analizza criticamente il provvedimento entrato in vigore a inizio mese ricordando la scia di morti sul lavoro da inizio anno: come certifica l'Inail «le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate nei primi otto mesi del 2024 sono state 680, 23 in più rispetto al pari periodo del 2023». L'edilizia resta uno dei settori più colpiti.
    Quali sono gli aspetti critici della patente a credito per le imprese?
    «Non è una misura di prevenzione in materia di sicurezza. È solo un'autocertificazione che devono fare le imprese per lavorare in cantiere. Ribadisco, una mera certificazione di essere in regola con il Durc e con tre obblighi: formazione, documento di valutazione del rischio e nomina del responsabile del servizio di prevenzione».
    Nessun obbligo aggiuntivo?
    «Questi obblighi non sono nuovi, risalgono al provvedimento del 19 settembre del 1994. È una norma che esiste da 30 anni. Non c'è nessun adempimento materiale o organizzativo aggiuntivo, ma solo burocratico. Un'autocertificazione del genere non aggiunge nulla al tema della sicurezza: l'azienda, inoltre, riceve in automatico la patente».
    Non ci sono controlli?
    «I contenuti del certificato dovrebbero essere verificati dall'ispettorato ma si attendono 830 mila domande e per controllarle tutte andando in azienda ci vorrebbero circa 12 anni. È ovvio che si tratta solo di un ping pong di pec. Inoltre il decreto ministeriale di Calderone è stato emesso il 18 settembre e la circolare dell'ispettorato il 24 settembre, quindi cinque giorni prima di entrare in vigore. Un periodo troppo breve per le pmi che devono provvedere all'autocertificazione. Alle imprese, che sono soprattutto piccole o micro, sta costando circa 160 milioni in consulenze».
    Le pene previste per le imprese non in regola sono congrue?
    «Il decreto ministeriale ha aumentato il punteggio da 30 a 100. La morte di un lavoratore porta alla decurtazione di 20 punti. Inoltre la decurtazione avviene solo sulla base di una sentenza definitiva e a volte ci vogliono anche otto anni. È chiaro che così non ha nessuna efficacia deterrente, nemmeno nei confronti delle peggiori aziende che possono aggirare la norma cambiando ragione sociale. E poi tra i requisiti stabiliti non è previsto nulla che riguardi gli appalti e così non si tocca il punto dolente: più si scende nella catena dei subappalti più la sicurezza è precaria. C'è anche un ultimo punto».
    Quale?
    «L'attualità degli obblighi. L'impresa dichiara oggi di avere requisiti ma domani potrebbe non averli più».
    Cosa servirebbe?
    «Una verifica preliminare, una certificazione di qualità delle imprese che sia affidata a controllori esterni. Se voglio la patente di guida devo sostenere un esame e presentare un certificato medico. Nessuno mi permetterebbe di guidare solo sulla base di una mia dichiarazione in cui dico che so farlo».
    Altro?
    «Il 90% degli infortuni avviene nelle Pmi. Queste aziende devono essere aiutate a promuovere la sicurezza dal punto di vista organizzativo e formativo da parte del governo e delle associazioni di categoria».
    Bisogna aumentare gli ispettori?
    «Certo, ma anche elevare la qualità delle ispezioni con un coordinamento tra tutti gli enti preposti. Inoltre serve una strategia mirata di attività ispettive nei settori a maggior rischio. Non è il numero che ci interessa ma la qualità». —
  5. IL PATTO FRA ISRAELE ED IL DIAVOLO: Nord della Striscia sotto assedio. Domenica riprendono colloqui per una tregua
    Gaza, scuola rifugio colpita da un missile "Uccisi nove bimbi"

    Mohammed Obeid
    nello del gatto
    gerusalemme
    Riprenderanno domenica a Doha i colloqui per tregua e liberazione ostaggi da Gaza. La delegazione israeliana sarà guidata dal capo del Mossad David Barnea e incontrerà nella capitale del Qatar il premier locale, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al Thani e il capo della Cia William Bunrs, oltre al nuovo capo dei servizi egiziani Hassan Rashad. Dopo l'uccisione a Gaza del capo di Hamas Yahya Sinwar, Israele ha ripreso i contatti con l'Egitto. La visita del segretario di stato americano Blinken ha spianato la strada.
    Arrivano anche segnali da Hamas. Uno dei membri del suo ufficio politico, Mousa Abu Marzook, è volato a Mosca, dove ha incontrato il vice ministro degli esteri Mikhail Bogdanov. Abu Marzouk ha chiesto alla Russia di impegnarsi per favorire un governo di unità nazionale tra le diverse fazioni palestinesi per il post guerra a Gaza. In cambio, Hamas ha promesso che i primi due ostaggi ad uscire dalla striscia saranno due soldati che hanno la doppia cittadinanza israeliana e russa, Alexander Trufanov e Maxim Herkin. Per questo, secondo media arabi, una delegazione russa sarebbe già arrivata ieri in Israele per discutere i dettagli. Putin ha offerto il suo aiuto per far finire la guerra.
    Che invece continua cruenta nella Striscia di Gaza. Nei venti giorni di violenti combattimenti al Nord, secondo fonti palestinesi, ci sono state più di 700 vittime. In un attacco israeliano a Nuseirat, nel centro della Striscia, contro l'ex scuola Shuhadaa divenuta rifugio di sfollati, sono state uccise 17 persone tra le quali, secondo Al Jazeera, nove bambini, mentre 52 sono rimaste ferite. Secondo il portavoce del governo di Gaza, questo è il 196mo centro dove hanno trovato rifugio gli sfollati a essere colpito dall'inizio della guerra.
    L'esercito ha spiegato di aver colpito la scuola di Nuseirat poiché un gruppo di Hamas vi operava dall'interno per pianificare e portare a termine attacchi contro le truppe e Israele. I militari riferiscono di aver preso misure per mitigare i danni ai civili nell'attacco e accusa Hamas di usare siti civili per il terrore.
    Nel Nord sotto assedio, la situazione più difficile si registra all'ospedale Kamal Adwan, che secondo il direttore Hussam Abu Safia, è stato attaccato dalle truppe israeliane. I palestinesi denunciano che le stazioni di desalinizzazione e pompaggio dell'acqua sono ferme a causa della mancanza di carburante. Circa 400.000 sono i rifugiati nella zona, alcune decine dei quali hanno cominciato a lasciare l'area. Nessun camion di aiuti sarebbe entrato da settimane.
    Dati che l'esercito respinge. Secondo il Cogat, l'ufficio dei militari che si occupa dei Territori palestinesi, il 22 ottobre sono entrati 104 camion con aiuti umanitari, 20 dal valico settentrionale, gli altri a Kerem Shalom, a Sud. Martedì sono entrate anche sei cisterne di carburante. Altri 36 camion sono entrati dall'ingresso 96 che porta direttamente al Nord. Oggi dovrebbe partire da Genova la nave che trasporterà la prima fornitura dei 15 camion di aiuti che l'Italia spedisce nella Striscia nell'ambito del suo programma Food for Gaza.
    Secondo la rete saudita Al-Arabiya, l'inviato speciale degli Stati Uniti Amos Hochstein e il presidente del parlamento libanese Nabih Berri hanno concordato una bozza di accordo per un cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah basato sulla risoluzione Onu 1701. Il fronte resta però molto caldo, con gli attacchi israeliani sul Libano e centinaia di razzi lanciati verso Israele. Quattro i militari israeliani morti nel sud del paese dei cedri. —
  6. IL PATTO DEI BRICS : acqua
    dell'
    Il ricatto

    taipei
    Lo chiamano il monte Everest dei fiumi. È il corso d'acqua più alto al mondo, con una media di quattromila metri. Corre tra Tibet e Himalaya, prima di fare una drammatica inversione a U e scendere vertiginosamente di 2700 metri attraverso tunnel e canyon, confluendo nel Brahmaputra. Il fiume in questione si chiama Yarlun Tsangpo e potrebbe presto diventare il fulcro di una disputa tra i due Paesi più popolosi della terra: Cina e India. Nei giorni scorsi, è stato annunciato un accordo per la gestione della sezione occidentale dell'enorme confine conteso, utile a spianare la strada al primo bilaterale ufficiale in 5 anni tra Xi Jinping e Narendra Modi. Al summit dei Brics di Kazan, il presidente cinese e il premier indiano hanno detto di voler normalizzare i rapporti. Ma la sensazione è che non sarà semplice evitare acque burrascose, anche a causa proprio delle risorse idriche.
    Pechino sarebbe vicina a completare lo studio di fattibilità per la costruzione della mega diga di Motuo, che i media indiani chiamano enfaticamente "la madre di tutte le dighe". Del progetto si parla da tempo, ma il cambio di marcia è arrivato nel 2021, quando nell'ultimo piano quinquennale del Partito comunista è apparso l'obiettivo strategico di «sfruttare il potenziale idroelettrico del corso inferiore dello Yarlun Tsangpo». Dettaglio chiave: ci si trova nelle immediate vicinanze della sezione orientale del confine conteso. Il fiume corre come un serpente in corrispondenza della cosiddetta "linea di controllo effettivo" tra i due giganti asiatici, e la diga dovrebbe sorgere nella prefettura di Nyingchi. È qui che l'altitudine dello Yarlun Tsangpo precipita, dirigendosi nell'Arunachal Pradesh, lo stato indiano rivendicato dalla Cina col nome di Tibet meridionale. Dagli anni Cinquanta, la Cina ha costruito oltre 20 mila dighe di altezza superiore ai 15 metri, tra cui la più grande centrale idroelettrica del mondo: la diga delle Tre Gole sul fiume Azzurro. Nulla in confronto alla Motuo, che potrebbe essere in grado di generare tra i 40 e i 60 gigawatt di energia, circa il triplo delle Tre Gole. L'impresa sarà tutt'altro che semplice: la zona è molto attiva a livello sismico e c'è un elevato rischio di frane. Ma completare l'opera avrebbe una duplice valenza. Primo: contribuirebbe a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060. Secondo: garantirebbe energia per una regione strategica come il Tibet, che Pechino mira a stabilizzare e assimilare anche e soprattutto attraverso lo sviluppo economico.
    L'India è però preoccupata che la diga possa diventare una straordinaria arma politica. Stando a valle, Nuova Delhi teme che Pechino possa controllare il flusso del fiume, trattenendo o rilasciando acqua. Con conseguenze potenzialmente notevoli su economia, sicurezza alimentare e rapporti di forza. La Cina sostiene di non avere intenzione di deviare l'acqua, ma questo non ha placato le preoccupazioni dell'India, che sta lavorando a una "contro diga" da 11 mila megawatt sul fiume Siang. L'obiettivo è creare uno stoccaggio d'acqua sufficiente a ridurre l'impatto di una eventuale crisi idropolitica. I rischi al confine sino-indiano sono particolarmente accentuati, visto che l'area conserva una delle maggiori risorse idroelettriche non sfruttate del pianeta, mentre la tensione alla frontiera resta irrisolta. Nel giugno 2020 e novembre 2022 ci sono stati i primi scontri tra truppe dei due Paesi dal 1975, con diverse decine di morti da entrambe le parti. Prima della parziale distensione dei giorni scorsi, Xi ha dato uno smacco a Nuova Delhi non presentandosi al G20 indiano del 2023, e nel frattempo lavora all'ampliamento della rete stradale nella regione e ha fatto rinominare in mandarino alcune località sotto controllo indiano. Modi ha previsto l'invio di migliaia di nuovi soldati, fa costruire nuove strutture e cerca il sostegno dei mezzi tecnologici degli Stati Uniti. Difficile immaginare che la nuova intesa, la cui portata e tenuta restano tutte da verificare, possa cancellare questi sviluppi ed evitarne di nuovi. Anche perché sullo sfondo, oltre all'acqua, resta anche la spinosa vicenda della successione del Dalai Lama, su cui sia il governo tibetano in esilio che il Partito comunista rivendicano il diritto di scelta. Tenzin Gyatso si trova da decenni proprio in India e negli ultimi anni è stato spesso inviato non lontano dalla frontiera. Pechino, che lo considera un separatista, teme che la questione possa essere usata dall'India per creare instabilità in Tibet. Tra tutti questi ingredienti, l'acqua potrebbe diventare il principale. D'altronde, diversi esperti prevedono che in futuro l'accesso alle risorse idriche sarà più importante di quello a petrolio e gas, diventando dunque il fulcro della competizione globale tra Paesi. —
  7. Mafia, il reggente della Cisl "Mai più un caso Ceravolo"
    giuseppe legato

    Dall'altroieri è il reggente della Filca Cisl Torino, sindacato nella bufera per l'arresto poche settimane fa del rappresentante dell'iscritto Domenico Ceravolo con l'accusa di mafia. Enzo Pelle, segretario nazionale della sigla degli edili: «Da noi si è verificato un problema, dobbiamo averne coscienza affinchè non ricapiti più. Ho fatto il sindacalista di strada in territori dove il fenomeno della ‘ndrangheta e credo che questa esperienza mi sarà utile in una situazione come quella che si è vissuta a Torino dove – a dire il vero, non mi aspettavo che potesse capitare. Posso garantire che qui c'è un gruppo sano che va però aiutato ad avere una maggiore sensibilità sul tema».
    Segretario Pelle, sarà una reggenza breve o lunga?
    «Non sarà una parentesi corta. Quando lascerò sarà perché sono convinto che gli obiettivi che ci eravamo prefissati saranno stati raggiunti. Tutti».
    Ecco, che obiettivi ha fissato per superare questo momento?
    «Ritrovare maggiore attenzione su comportamenti, linguaggi e valutazioni delle persone e dei comportamenti da adottare quando ci sono situazioni dubbie».
    Cosa ha detto ai suoi operatori?
    «Che dobbiamo stare più attenti. Che metteremo mano al regolamento se necessario e cambieremo alcune cose. Oltre alla qualità del nostro servizio ai lavoratori e ai loro diritti ci vuole una cura particolare dopo quanto avvenuto».
    Mettere mano al regolamento per fare cosa, ad esempio?
    «Per pretendere il certificato dei carichi pendenti, ad esempio, di chi lavora per noi».
    Basterà?
    «Organizzeremo dei corsi, dei seminari, degli aggiornamenti con esperti della lotta alla mafia che ci aiutino a sviluppare».
    Conosceva Ceravolo?
    «L'ho conosciuto durante qualche occasione istituzionale del sindacato».
    Non abbastanza da farsi un'idea sua?
    «Era una persona molto taciturna. E quando uno non parla molto non è facile nemmeno per un occhio allenato come il mio cogliere anche solo una stranezza. Ne ho parlato oggi (ieri per chi legger) con i nostri operatori».
    Come glielo hanno raccontato?
    «Come un lavoratore preparato ed efficiente sui cantieri, non particolarmente forte sul tesseramento al contrario di quanto ho letto su alcuni giornali e che aveva manifestato qualche fragilità economica».
    Il sindacato sosteneva per Ceravolo spese di un certo rilievo. Dai contributi per le utenze, ai viaggi per la Calabria per testimoniare a un processo, ai telefoni. Benefit concessi a tutti gli operatori?
    «Non tutti. Diciamo che qualcuno ha fatto qualche concessione in più a Ceravolo credo per gli stessi motivi di cui ho parlato sopra. Ecco, bessuno ha letto che dalle debolezze di questa natura possono nascere comportamenti non corretti».
    Ovvero?
    «Un gesto di aiuto nella assoluta ignoranza della presunta seconda vita che è venuta fuori dall'inchiesta».
    Che però – in ipotesi d'accusa esisteva ed era inquietante.
    «Ha turbato anche noi. Detto ciò nel nostro sindacato non vi è alcuno spazio per ambiguità».

 

25.10.24
  1. L'incidente nello stabilimento della Toyota Material Handling alla periferia di Bologna Lo scoppio causato da un compressore. Oggi era previsto uno sciopero per la sicurezza
    Noemi, una dipendente
    "
    Esplode il capannone "Un boato, poi l'inferno" Due morti e undici feriti
    FILIPPO FIORINI
    BOLOGNA
    Un compressore industriale è esploso e due operai, lo specializzato Fabio Tosi e Lorenzo Cubello, sono morti. Undici loro colleghi sono rimasti feriti e, tra questi, uno è in gravi condizioni.
    Erano le 17,15 di ieri. Il secondo turno giornaliero alla Toyota Material Handling Italia era trascorso per metà ed erano in servizio circa 300 delle 850 persone impiegate in questa ditta che produce carrelli elevatori alla periferia di Bologna e che pubblicamente vantava una qualità del lavoro straordinaria. In realtà, però, questo non è il primo incidente a verificarsi nello stabilimento e oggi era previsto uno sciopero per chiedere maggiore sicurezza. Lo scoppio, udito fino a 10 km di distanza, capace di infrangere le vetrate degli edifici circostanti e paragonato a «una bomba» o a «un terremoto», ha spezzato un pilastro portante che ha poi trascinato con sé il tetto del magazzino, facendolo crollare.
    La prima di queste due nuove morti bianche è stata istantanea. La seconda, invece, è avvenuta durante il trasporto in ospedale con l'elisoccorso, intervenuto insieme a una decina di ambulanze, mezzi dei Vigili del Fuoco, Carabinieri e Protezione Civile. Il personale di sicurezza ha scavato per tutta la notte e continua a farlo anche in queste ore, ma viene dato praticamente per certo che non ci siano dispersi. Fatta eccezione per il ferito grave, i restanti 10 dipendenti non sono in pericolo di vita. Molti di loro erano a una notevole distanza dal luogo dell'incidente e sono rimasti feriti dai frammenti delle cose rotte dall'onda d'urto.
    La fabbrica è uno stabilimento moderno, in cui i muletti vengono assemblati in catene di montaggio automatizzate, con attrezzi azionati ad aria compressa dagli operai. I compressori sono in un reparto separato e proprio qui si è consumata la tragedia.
    Soccorritori appena usciti dal luogo del disastro riferiscono che l'architettura è collassata su sé stessa, ammucchiando macerie di metallo e laterizi a livello del suolo. Con le indagini appena incominciate, le ipotesi sulle cause si dividono tra il difetto di fabbricazione del macchinario, la cattiva manutenzione o un utilizzo inappropriato. Anche se manca l'ufficialità, è probabile che la Procura apra a breve un fascicolo per omicidio colposo.
    Fatto sgomberare l'impianto, le maestranze si sono assembrate ai cancelli insieme ai famigliari di chi ancora era irreperibile e i residenti dei dintorni, venuti a sincerarsi delle ragioni del boato. «È un macello, è esplosa l'azienda. È crollato il tetto, sono crollati gli uffici, è successa una cosa assurda», ha detto uno dei dipendenti, che sulle prime ha riferito dell'esplosione di una bombola di metano e che come molti compagni è rimasto sul posto a lungo, nonostante il diluvio.
    Una collega, invece, ha paragonato l'esplosione a «un terremoto». «È andata via la corrente, un rumore fortissimo, siamo corsi tutti fuori e ci hanno detto che c'era odore di gas e dovevamo scappare. Siamo usciti in strada e ci hanno portato in mensa».
    Inoltre, la donna, impiegata a tempo determinato, ha raccontato che «qui ci sono sempre problemi, soprattutto alla linea 1. In molti si sono già fatti male». Proprio per questo, oggi erano previste due ore di sciopero. Adesso i sindacati Fim, Fiom e Uilm hanno indetto otto ore di sciopero per domani. Gian Pietro Montanari della Fiom-Cgil, ha spiegato che «questa non è l'azienda peggiore del mondo, però bisogna chiarire se c'è stata una corretta manutenzione o meno». Due anni fa, per esempio, la Toyota Italia aveva annunciato una riduzione dei turni giornalieri a 7 ore, senza ridurre le buste paga. Il sindacalista, però, ha ricordato anche che in passato si era scioperato perché ai lavoratori erano stati assegnati dei nuovi attrezzi non ancora collaudati. Inoltre, si era propagato un incendio nel reparto verniciatura, senza conseguenze per le persone, un epilogo che stavolta è stato molto peggiore.
  2. Nichelino, la donna, ottantenne, è affetta da demenza senile, deve essere assistita costantemente L'Utim denuncia: "Situazione assurda: hanno detto no al contributo per pagare la retta di 3 mila euro"
    "È malata grave, ma non è urgente" L'Asl nega l'aiuto per stare nella Rsa

    erika nicchiosini
    Maria è una signora quasi ottantenne di Nichelino. Da marzo dello scorso anno è ricoverata in una Rsa del territorio, la Debouchè, perché la sua demenza senile grave non le permette di compire semplici azioni quotidiane come mangiare o stare seduta da sola. Ciò nonostante, secondo l'Asl To5 e il Cisa12, i servizi sanitari e sociali a cui fanno riferimento diversi comuni della cintura sud di Torino, non ha diritto a nessun contributo economico nel pagamento della retta della Rsa: oltre 3 mila euro mensili.
    Una spesa che con il tempo sta diventando insostenibile, e che il marito Giuseppe Araudo affronta facendo affidamento sulla sua pensione e sui risparmi di una vita pur di garantire alla moglie cure e assistenza adeguate. Dice: «Non so per quanto tempo ancora riuscirò ad affrontare le spese: è una situazione pesantissima». E c'è già chi parla di «Cortocircuito burocratico». Motivo? Nonostante un quadro clinico molto grave, che ha ottenuto dalla Commissione di valutazione geriatrica, di Asl e servizi sociali un punteggio sanitario di 13 su 14 – corrispondente a una «non autosufficienza di alto grado con necessità assistenziali e sanitarie elevate», alla malata è stata assegnata una valutazione «non urgente». Di qui lo stop all'aiuto economico.
    La situazione è stata intercettata dall'Utim - Unione per la tutela delle persone con disabilità intellettiva - attraverso lo Sportello diritto alle cure. «Questo ha confinato la signora in una lista di attesa con tempi di risposta fino a un anno – spiega il referente di Nichelino, Giuseppe D'Angelo - La paziente, costretta a letto e incapace persino di mantenere la postura seduta, vede compromesso il suo diritto alla salute».
    Secondo l'Utim e D'Angelo, che chiedono l'intervento delle istituzioni, non sarebbe una situazione isolata: «E le famiglie continuano a sopportare il peso economico e psicologico di un'assistenza tutta privata, con la probabilità di cadere in povertà e dover poi chiedere aiuto ai Servizi sociali del Comune».
    Intanto l'Asl To5 precisa che la gestione degli anziani non autosufficienti «segue precise normative», che prevedono la valutazione non solo sanitaria ma anche sociale del paziente. «Nel caso specifico, è stata attribuita una fascia assistenziale alta, ma con priorità "non urgente", il che significa che l'accesso al regime convenzionato potrebbe avvenire entro luglio 2025. Salvo un eventuale peggioramento». Intanto, però, il signor Giuseppe Araudo non sa più come fare.

 

 

24.10.24
  1. CHI LI AVEVA COMANDATI ?   li scontri del 23 febbraio scorso. L'accusa: eccesso colposo di legittima difesa e lesioni lievi
    Dieci agenti sotto inchiesta a Pisa per le cariche contro gli studenti
    Pino Di Blasio
    PISA
    Sarebbero 10 i poliziotti indagati dalla procura di Pisa per gli scontri e le cariche contro gli studenti durante il corteo pro Palestina del 23 febbraio.
    Le accuse a loro carico sono eccesso colposo di legittima difesa e lesioni lievi. Sono stati i sindacati della polizia a rivelare l'inchiesta aperta sugli agenti di polizia. Valter Mazzetti, segretario generale del sindacato Fsp Polizia, parla di 6 agenti indagati per «una manifestazione niente affatto pacifista, l'ennesimo caso di agenti accusati per essere stati aggrediti mentre facevano il proprio dovere». Tra i poliziotti sotto inchiesta ci sarebbero anche agenti della mobile di Firenze e i responsabili della sicurezza a Pisa. Dopo la manifestazione e gli scontri, il diluvio di polemiche che si scatenò sulle forze dell'ordine portò anche al trasferimento del questore di Pisa, Sebastiano Salvo, "dirottato" alla questura di La Spezia. A febbraio 7 poliziotti in servizio durante il corteo, si autoidentificarono in procura. I magistrati hanno acquisito i filmati delle telecamere cittadine e anche i video girati dalla polizia scientifica.
    Il momento più caldo quel 23 febbraio fu la carica di una dozzina di agenti che volevano impedire al corteo degli studenti di entrare in piazza dei Cavalieri, dove ha sede la prestigiosa Scuola Normale superiore. Dieci mesi fa, a criticare il comportamento degli agenti fu per primo il presidente della Repubblica Mattarella: «I manganelli contro i giovani sono un fallimento» scrisse nella nota inviata al ministro dell'Interno Piantedosi. Ma anche il sindaco leghista di Pisa, Michele Conti, contestò le forze dell'ordine, definendosi «profondamente amareggiato». Oggi invece la Lega, con l'eurodeputata Susanna Ceccardi e il parlamentare pisano Edoardo Ziello, è dalla parte degli agenti. «Sono convinta che stessero cercando, tra molte difficoltà - ha dichiarato Susanna Ceccardi - di tutelare la sicurezza pubblica e che siano stati aggrediti, visto che si parla appunto di legittima difesa. Io sto dalla parte dei poliziotti anche e soprattutto in questo momento di difficoltà.
  2. La rete mondiale delle spie al servizio degli ayatollah da Israele fino a Washington
    Fabiana Magrì
    Si moltiplicano i casi di spionaggio ai danni di scienziati e di figure chiave dell'establishment politico e militare israeliano con la regia di Teheran e con cittadini israeliani nel ruoli di agenti segreti. Nel giro di pochi mesi, lo Shin Bet ha declassificato una serie di complotti. Cinque da settembre, due solo questa settimana. L'ultimo, ieri, quando sono emersi sui media israeliani i dettagli di un'ulteriore rete di spie arrestata da servizi segreti interni e polizia, circa un mese fa.
    Si tratta di sette persone, questa volta palestinesi di Gerusalemme Est con lo status di cittadini o residenti permanenti israeliani. Gli investigatori li hanno pedinati per un mese e mezzo. Le accuse sono di spionaggio per l'Iran e di pianificazione di attacchi in Israele per conto della Repubblica islamica. Le autorità hanno ricostruito come il capo banda, il ventitreenne Rami Alian, sia stato reclutato direttamente da un agente iraniano e abbia poi provveduto a coinvolgere gli altri sei. «Non sono stati aiutati da un intermediario turco, come è accaduto in casi precedenti – ha spiegato ai media un poliziotto – ma hanno utilizzato altri mezzi, su cui non possiamo fornire informazioni».
    La squadra messa su da Alian era composta da giovani tra i 19 e i 23 anni, senza pendenze penali, tutti amici fra loro e residenti nel quartiere di Beit Safafa. Dopo un periodo di rodaggio, ha spiegato ad Haaretz un funzionario della sicurezza, le missioni assegnate dai contatti iraniani sarebbero diventate «azioni di sabotaggio più serie». Missioni eseguite per soldi, ma non solo. Le autorità hanno sottolineato, in questo caso e per la prima volta, il movente anche ideologico. «Sono orgoglioso che un iraniano si sia rivolto a me», avrebbe detto Alian durante l'interrogatorio.
    Tra missioni portate a termine e altre messe in cantiere, le richieste andavano da lanciare una granata a mano contro un agente di sicurezza israeliano (non compiuta), fotografare un centro di ricerca (presumibilmente compiuta) e assassinare il sindaco di una grande città nel centro di Israele o, in cambio di 200 mila shekel (50 mila euro), uno scienziato nucleare. I preparativi erano già iniziati. Informazioni sull'obiettivo, sulle sue abitudini quotidiane e sugli spostamenti abituali erano state raccolte. Ma la cellula è stata arrestata prima che potesse procedere.
    Anche negli Stati Uniti c'è profonda preoccupazione per la divulgazione clandestina – una settimana fa sul canale Telegram Middle East Spectator – di due rapporti di intelligence analitica che descrivono nel dettaglio i preparativi di Israele per l'attacco di rappresaglia all'Iran. L'Fbi sta indagando, a stretto contatto con il Dipartimento della Difesa e l'Nsa, sotto lo sguardo del presidente Joe Biden. Domenica il Pentagono ha confermato che i documenti top secret dati in pasto al pubblico, compilati dalla National Geospatial-Intelligence Agency e dalla National Security Agency, sono reali. Una cosa sembra chiara ad Alon Pinkas, diplomatico ed analista israeliano: «la piattaforma scelta (il canale Telegram Middle East Spectator, ndr) indica che questa probabilmente non è stata una fuga di notizie deliberata degli Stati Uniti per fare pressione su Israele o allertare l'Iran».
    Lo scenario in effetti sembra molto più intricato. Sky News Arabic ha citato una fonte del Pentagono che sostiene che dietro la fuga di notizie ci sia un membro senior dello staff dell'ufficio del Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin. La testata con sede ad Abu Dhabi avrebbe identificato la "gola profonda" come Ariane Tabatabai, una iraniana americana già interessata da uno scandalo sollevato a ottobre del 2023 dalla testata online Semafor, dal canale tv in lingua farsi con sede a Londra Iran International e dalla rivista ebraica Tablet Magazine. Una serie di e-mail del governo iraniano, intercettate e verificate un anno fa, avevano dimostrato che l'allora inviato iraniano (poi sospeso) dell'amministrazione Biden, Robert Malley aveva aiutato a «infiltrare l'agente iraniano» Tabatabai in alcune delle posizioni più delicate del governo degli Stati Uniti, prima al Dipartimento di Stato e poi al Pentagono, dove ha avuto accesso a informazioni molto riservate. «Questa storia non è vera», smentisce sulla piattaforma X la corrispondente per la sicurezza nazionale di Fox News, Jennifer Griffin, dopo aver parlato con funzionari del Dipartimento della Difesa e con la stessa sospettata.
  3. XI E PUTIN : Lo Zar celebra la partecipazione di 36 Paesi al summit. Domani forse l'incontro con Guterres
    "I Brics siano il motore del Sud globale" Putin e Xi si ritrovano da vecchi amici
    giuseppe agliastro
    mosca
    Contrastare l'immagine di una Russia isolata a livello internazionale e cercare di allargare le proprie relazioni economiche: gli esperti sembrano concordi sugli obiettivi del Cremlino per il vertice dei Paesi Brics iniziato ieri in Russia, nella città di Kazan. Un vertice che durerà tre giorni e che si svolge nel pieno delle tensioni tra Mosca e Occidente per l'aggressione militare contro l'Ucraina. E con Putin nella lista dei ricercati della Corte penale internazionale. Il presidente russo ha iniziato con un abbraccio a favore di telecamera con il premier indiano Narendra Modi. Poi ha incontrato i leader di Sudafrica e Cina. E ha colto ancora una volta l'occasione per mostrarsi pubblicamente in sintonia con Pechino. «Le relazioni russo-cinesi sono diventate un modello», ha detto Putin a Xi Jinping chiamandalo «caro amico» e aggiungendo che vuole rafforzare queste relazioni «su tutte le piattaforme internazionali per garantire la sicurezza globale e un ordine mondiale giusto». Parole a cui Xi ha risposto lodando «la profonda amicizia» tra Russia e Cina in una «situazione internazionale caotica».
    Quello in corso a Kazan è il primo vertice Brics da quando Iran, Egitto, Etiopia e Emirati Arabi si sono uniti a Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica in un gruppo che ora rappresenta il 45 per cento della popolazione e il 35 per cento del Pil mondiali. Stando alle autorità russe, sulle rive del Volga si incontrano i rappresentanti di 36 Paesi, tra cui 22 capi di Stato. E secondo alcuni si tratterebbe del più grande evento diplomatico in Russia da quando le truppe di Putin hanno invaso l'Ucraina attirando su Mosca sanzioni su sanzioni da parte dell'Occidente.
    I Paesi Brics sono molto eterogenei e a volte hanno interessi contrastanti. Alcuni hanno buone relazioni coi Paesi occidentali, altri meno. L'India è in stretti rapporti sia con gli Stati Uniti sia con Mosca, da cui importa armi ma anche grandi quantità di petrolio a prezzo scontato. E, come la Cina, cerca di proporsi come possibile mediatrice per mettere fine alla guerra in Ucraina. «Sosteniamo totalmente gli sforzi per ripristinare rapidamente la pace e la stabilità», ha ripetuto ieri il premier indiano Modi dopo aver abbracciato Putin, che nei prossimi giorni dovrebbe incontrare anche Erdogan, il presidente della Turchia, che non esclude un proprio ingresso nel gruppo delle economie "emergenti", e probabilmente anche il segretario generale dell'Onu Guterres.
    Al summit sono previste anche discussioni per la possibile creazione di un nuovo sistema di pagamenti globale, una sorta di alternativa al sistema Swift, dal quale la Russia è stata tagliata fuori dopo che i suoi carri armati hanno invaso l'Ucraina. —
  4. Il report di Cittadinanzattiva : crescono gli italiani che rinunciano alle cure
    Incubo liste d'attesa si aspetta 480 giorni la visita oncologica

    Paolo Russo
    Mentre il Governo con la manovra lascia pochi spicci alla sanità, appena 1,2 miliardi "lordi" contro i 4 richiesti dal ministro Schillaci, cresce la quota di cittadini che denunciano di essere rimasti intrappolati nelle liste di attesa: più 2,8% rispetto al 2022, +8,6% sul 2021. E oramai quasi un terzo delle segnalazioni di disservizi, il 32,4%, fa riferimento al mancato accesso alle prestazioni, mentre il 9% delle donne, il 6,2% degli uomini rinuncia alle cure, denuncia il Rapporto civico sulla Salute di Cittadinanzattiva presentato ieri a Roma. Complessivamente oltre il 7% della popolazione fa a meno di visite e accertamenti diagnostici non tanto per la difficoltà a pagare il conto quanto per i tempi biblici di attesa che spingono sempre più assistiti verso le braccia del privato. Questo dato «mostra che avevamo ragione a intervenire sulle liste d'attesa», ha affermato il ministro della Salute Orazio Schillaci, il quale ha annunciato che a breve saranno varati i decreti attuativi della legge sulle liste d'attesa. A cominciare da quello che specifica come e quando scatteranno i poteri sostitutivi del ministero delle Salute in caso le Regioni risultino inadempienti nell'applicare le misure "taglia-coda". In attesa di vedere se il decreto varato prima delle elezioni europee produrrà qualche effetto la situazione delle liste d'attesa resta da codice rosso. Anche nel 2024, spiegano da Cittadinanzattiva, visto che le segnalazioni sui tempi massimi non rispettati continuano ad arrivare numerose ogni giorno e in costante crescita rispetto a un 2023 che è già da incubo. Perché tanto per cominciare il 31,1% degli incagliati nelle liste di attesa denunciano il fatto di non aver proprio avuto un appuntamento essendosi trovati davanti agende bloccate. Pratica fuorilegge ma che in molte Asl evidentemente la fa ancora da padrona. Prima ancora di sentirsi dare appuntamento a un anno di distanza c'è poi da superare lo scoglio del Cup, che il 20% di chi ha denunciato un problema di accesso alle prestazioni ha avuto difficoltà a contattare. Superati questi due ostacoli poi i tempi restano biblici. Perché saranno anche quelli denunciati da chi ha avuto da lamentarsi, ma non è facile farsi una ragione di una visita di controllo oncologica fissata a 480 giorni di distanza. Così come è difficile accettare che per asportare chirurgicamente un tumore alla prostata anziché 30 giorni come da codice di priorità riportato nella richiesta medica si debba invece attendere 159 giorni. Una delle specialità per cui la pazienza è d'obbligo è l'oculistica, tanto che per un controllo della vista si arriva ad attendere 468 giorni contro i 120 previsti per una prestazione con codice di priorità P, ossia "programmabile".
    Peggio ancora va per gli accertamenti diagnostici. Per un ecodoppler dei tronchi sovraortici si può anche dover attendere circa un anno e mezzo, per l'esattezza 526 giorni. Per una spirometria c'è chi ha dovuto pazientare 266 giorni nonostante sulla ricetta campeggiasse le lettera D delle prestazioni differibili, ma non oltre 60 giorni. Con lo stesso codice di priorità si sono dovuti attendere invece 300 giorni tondi tondi per ottenere una tac della colonna nel tratto lombosacrale.
    Che con queste tempistiche sempre più italiani rinunci alle cure lo conferma anche il calo delle prestazioni erogate, che nel 2023 sono state l'8% in meno dell'anno precedente. Con forti differenze regionali però, passando del -2% di Toscana e Lombardia al -25% della Sardegna e '27 e meno 28% di Valle d'Aosta e Alto Adige.
    Male anche l'assistenza territoriale, l'altro fianco scoperto del nostri Ssn, con il 14,1% delle segnalazioni di disservizi, dato in crescita di oltre il 5% rispetto all'anno precedente.

 

 

 

23.10.24
  1. La rabbia degli agenti italiani di Gjader "Manca anche lo spazzolone del water"
    Eleonora Camilli
    Roma
    I 12 migranti (7 bengalesi e 5 egiziani) portati a Shengjin e poi, per ordine del tribunale di Roma, riportati in Italia, sono ancora confusi, non hanno capito fino in fondo di essere stati, loro malgrado, gli sfortunati pionieri del progetto Albania. Ma almeno stanno bene, hanno ricevuto finalmente l'informativa legale e incontrato gli avvocati che si occuperanno degli eventuali ricorsi. Un'impresa non facile come spiega uno dei legali, Gennaro Santoro: «Per poter parlare col mio assistito ho dovuto fare reclamo ai Garanti, inviare numerose pec al ministero dell'Interno, chiedere a parlamentari di intervenire. Continuano a mettere ostacoli nella speranza di non far presentare ricorso al Tribunale contro il diniego dell'asilo politico - afferma - Perché sanno che il rigetto della commissione è illegittimo». L'esame in terra albanese delle domande di protezione potrebbe, infatti, essere considerato nullo. Non solo la commissione territoriale chiamata a giudicare, e scelta dal Viminale, non ha all'interno alcun rappresentante dell'Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr), ma la sua decisione rientra nelle procedure accelerate di frontiera che, a quanto hanno deciso i giudici romani, non potevano essere applicate perché i 12 non provengono da Paesi sicuri.
    Per ora, dunque, i migranti restano ospitati nel Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Bari Palese in un limbo giuridico. Ma la loro situazione non è l'unico cruccio del governo, che ora ha a che fare anche con le proteste del personale della polizia penitenziaria, spedito al di là dell'Adriatico, e ora sul piede di guerra. «I nostri uomini non solo non possono godere della sistemazione alberghiera come tutti i colleghi delle altre forze di polizia e armate in Albania, ma addirittura vengono oltraggiate le specifiche previsioni contrattuali che li tutelano», tuona Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato Uilpa polizia penitenziaria che già lo scorso 17 ottobre, con una lettera, aveva sollevato la questione. E aggiunge: «Se l'amministrazione penitenziaria e lo Stato non dimostrano il minimo rispetto per le donne e gli uomini in divisa che li rappresentano, non osiamo immaginare il trattamento che potrebbe essere riservato ai migranti. Mai ne arrivassero».
    In totale, sono 45 gli agenti della polizia penitenziaria chiamati in servizio nella terra delle aquile. Il loro compito è occuparsi del carcere costruito a Gjader, con 24 posti letto, dove dovrebbero essere inviati i migranti che commettono reati nel periodo di trattenimento. Ma la paura degli agenti è che il pasticcio politico-giudiziario sul protocollo Italia-Albania lasci le strutture vuote ancora per un bel po'. Non solo, ma c'è anche la questione economica. Per tutto il personale, dagli agenti penitenziari ai poliziotti, carabinieri, finanzieri, chiamati in missione a Gjader è previsto un aumento in busta paga di circa cento euro al giorno. Che tradotto vuol dire novecentomila euro al mese, solo per gli indennizzi di trasferimento di trecento unità.
    Spese folli, per un Cpr (centro per il rimpatrio) e un carcere vuoti. E su cui grava una questione giuridica di diritto ancora sospesa. Gli agenti della penitenziaria si lamentano anche degli alloggi: prefabbricati a cui si accede con una scala metallica interna, senza elementi di arredo basilari, dalla tv allo spazzolino per il water. «È tutto paradossale» ripetono mentre sono in attesa degli altri colleghi e dei migranti. Semmai arriveranno. —
  2. I BRICS CONTRO L'OCCIDENTE CON CINA E RUSSIA ALLEATI : L'ultima sfida dei Brics al potere Usa un circuito finanziario anti-sanzioni
    Stefano Stefanini
    In quindici anni di vita i Brics hanno combinato poco o niente. Al vertice che si apre oggi a Kazan, dalla Russia senza amore, ci provano facendo massa critica, arruolando un'ampia ancorché diseguale partecipazione di leader mondiali, avanzando propositi ambiziosi – addirittura di lanciare un'alternativa al dollaro come mezzo di pagamento internazionale. Per il momento quest'ultimo obiettivo rimarrà nel mondo dei sogni, ma fa da contrappunto politico all'80esimo anniversario degli accordi di Bretton Woods che ricorre, in parallelo, nelle riunioni autunnali del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale in corso questa settimana a Washington.
    I Brics presenti oggi a Kazan superano l'Occidente in Pil (37% di quello mondiale), popolazione (circa metà dell'umanità) e territorio. Non sono tuttavia in grado, oggi, di sfidare gli Stati Uniti e l'Occidente, non perché, messi insieme, non abbiano appunto risorse, tecnologie e capacità militari (e nucleari) per sostenere il confronto. Non solo perché divisi, se non rivali, e non omogenei fra loro ma perché hanno a bordo partecipanti che, senza alcuna intenzione di diventare fisiologici antagonisti dell'Occidente, trovano condizioni propizie a tenere il piede in due staffe. Come la Turchia anche (e soprattutto) in quella della Nato, l'India in quella del Quad anti-Cina (Usa, Australia, Giappone, India), gli Emirati ospitando una base militare Usa. L'elenco delle acrobazie potrebbe continuare, con la grossa eccezione dei due grandi registi del gruppo, ben schierati sul fronte (anti)occidentale: Cina e Russia. Ai quali i Brics servono come importante cassa di risonanza internazionale che faccia da contraltare all'Occidente e ai vari formati con i quali si presenta – G7, Nato, Ue, Ocse – ma, soprattutto, al detestato "ordine liberale internazionale". Qui però, Pechino e Mosca trovano terreno più fertile.
    L'insofferenza verso un ordine mondiale e valoriale disegnato esclusivamente dall'Occidente, talvolta percepito come scia del colonialismo, spesso accusato di usare due pesi e due misure, fa da collante ideologico all'intero gruppo dei Brics, per eterogeneo che sia. E non va sottovalutato. Ma, per quanto possa essere una leva nelle votazioni alle Nazioni Unite – il cui Segretario Generale António Guterres è presente a Kazan – di qui a sfidare a tutto campo l'Occidente deve passare molta acqua sotto i ponti. Molta meno, però, se il vertice è visto nell'ottica del padrone di casa: non per lanciare un nuovo ordine mondiale o un'alternativa al sistema di pagamenti Swift, ma per puntellare la strategia russa volta a isolare internazionalmente l'Ucraina, tagliando l'erba sotto i piedi ai tentativi di Volodymir Zelensky di raccogliere consensi internazionali per il proprio piano di "pace". Con la partecipazione, per la prima volta, dell'Iran, esiste a questo vertice uno zoccolo duro filorusso, al quale alcuni partecipanti (come il Kazakhstan) si allineano non per scelta, ma per necessità geografica. Basta che il resto della palude Brics non si opponga – e non lo farà.
    Vladimir Putin non ha lasciato nulla al caso. A Kazan, capitale del Tatarstan, egli gioca in casa, si affaccia sulla sua Eurasia, a metà strada fra Mosca e gli Urali, trova un palcoscenico mondiale e approfitta dell'interregno a Washington, dove un leader è al crepuscolo e due, potenziali, in un duello all'ultimo sangue, nonché del vistoso vuoto europeo, fra leader nazionali deboli e tempi biblici dei passaggi di consegne a Bruxelles – dove la nuova Commissione e il nuovo Presidente del Consiglio Ue prenderanno le redini sei mesi dopo le elezioni europee. Sarà affiancato dall'amico senza limiti, Xi Jinping. Il parterre, pur con qualche assenza eccellente (Lula da Silva rappresentato però dal Ministro degli Esteri brasiliano): Narendra Modi (India), Recep Tayyip Erdogan (Turchia), Cyril Ramaphosa (Sudafrica), Abdel Fattah al Sisi (Egitto), Masoud Pezeshkian (Iran). Non manca il guasatefeste balcanico, Milorad Dodik, a rappresentare "l'entità serba" della Bosnia. Quando mai le circostanze sono state così favorevoli a rafforzare la statura internazionale di Mosca? La Russia fa così da battistrada nel lanciare il guanto di sfida all'Occidente, mentre accudisce ai propri interessi nazionali cercando di ristabilire una zona d'influenza esclusiva nell'ex-Urss, traguardo che il Presidente russo insegue da tempo, come minimo dalla mini-invasione della Georgia del 2008. Con le buone – per modo di dire – o con le cattive.
    Kazan è un vertice a due facce. Quella Brics non rappresenta il "Sud globale", ma ne è certamente un'importante cinghia di trasmissione che Occidente e Europa non si possono permettere d'ignorare. Per ora molto più dichiarativa che operativa. Quella russa, ben più operativa e ad impatto rapido, serve a creare intorno a Mosca un bacino di consensi o benevolenze internazionali mentre Vladimir Putin spinge sull'acceleratore con la guerra in Ucraina, con l'interferenza nelle elezioni in Moldova e in Georgia. A Chi?in?u gli è andata male, ma giusto per un soffio; fra il 5 novembre e il 3 dicembre sarà il turno di Tbilisi. E, chiunque entri alla Casa Bianca, il 20 gennaio troverà il fatto compiuto. —
  3. Gli 007 confermano l'arrivo in Russia, sarebbero 10 mila. Da Washington altri 400 milioni a Kiev
    Soldati nordcoreani diretti in Ucraina Seul chiede di bloccarli, è crisi con Mosca

    giuseppe agliastro
    mosca
    La Corea del Sud ha convocato l'ambasciatore russo. Chiede «l'immediato ritiro» di quelle che secondo gli 007 di Seul sarebbero truppe nordcoreane arrivate nell'estremo oriente russo per addestrarsi e poi essere «probabilmente» mandate a combattere in Ucraina.
    Anche Kiev nei giorni scorsi ha accusato il regime nordcoreano di prepararsi a inviare soldati al fianco di quelli del Cremlino: 10 mila secondo il presidente ucraino Zelensky. Mosca e Pyongyang respingono però le accuse. Mentre Usa e Nato dichiarano di non avere al momento elementi per poterle confermare, ma si dicono preoccupati. L'eventuale «invio di truppe nordcoreane in Ucraina per combattere al fianco della Russia segnerebbe un'escalation significativa», avverte il segretario generale della Nato, Mark Rutte. Ed è dello stesso avviso il portavoce dell'Ue per gli affari esteri, Peter Stano.
    La scorsa settimana, l'intelligence di Seul ha dichiarato che tra l'8 e il 13 ottobre delle navi militari russe avrebbero fatto sbarcare a Vladivostok circa 1.500 soldati nordcoreani, e che altri potrebbero arrivarne. La nuova accusa – non confermabile – arriva circa quattro mesi dopo che i dittatori Putin e Kim Jong-un hanno firmato un misterioso patto di cooperazione strategica a Pyongyang. La Corea del Nord è già accusata dall'Occidente di fornire missili a Mosca nonostante le sanzioni internazionali. Il portavoce di Putin sostiene invece che la cooperazione con Pyongyang non sia «diretta contro Paesi terzi».
    Nelle stesse ore, il capo del Pentagono, Lloyd Austin, arrivava a Kiev in una visita a sorpresa per ribadire il sostegno americano all'Ucraina in un momento in cui le truppe russe sembrano guadagnare lentamente terreno nel Donbass. Austin ha annunciato nuove armi per 400 milioni di dollari, ma non sembrano esserci novità sulle due principali richieste di Zelensky: il permesso di lanciare in territorio russo razzi a lungo raggio di fabbricazione occidentale e l'invito a entrare nella Nato (e avviare un percorso che comunque può durare anni, con gli esperti che ritengono altamente improbabile un ingresso di Kiev nell'alleanza con una guerra in corso).
  4. IL REPORTAGE
    La furia del fiume tombato "I pozzetti saltavano via poi qui l'asfalto è esploso"

    inviato a Bologna
    Sotto la chiesa di San Paolo. Sotto lo studio dell'architetto Enrico Gieri. Sotto il garage condominiale al civico 70 di via Costa. Giù fra i cavi elettrici, nel magazzino della pasticceria e in corrispondenza della fermata del pullman. Il fiume Ravone passava sotto i palazzi del quartiere Saragozza di Bologna ormai quasi dimenticato da oltre sessant'anni, prima che saltasse fuori come una furia dalla sua tomba di cemento.
    «È incredibile quello che è successo» dice il signor Andrea Cardinali, di mestiere geometra. «Nel giro di tre ore sono esplosi i tombini, le auto sono partite come barche, infine si è stappato l'asfalto e da là è incominciata a salire l'acqua a fontana». È arrabbiatissimo. Come tutti qui. Perché quel fiume è la prova di un tempo nuovo dentro a una politica vecchia. «Lo so che sono state piogge straordinarie, ma ormai non si può più usare questa scusa. Il problema è l'incuria. Arriviamo da anni di menefreghismo. Serve un nuovo piano di manutenzione e sicurezza nazionale. Non capisco cosa stiano aspettando ancora, spendono soldi pubblici per cose senza senso e noi siamo nel fango».
    Il Ravone era un torrente quasi senza storia. Nasce sulle pendici del monte Paderno. È lungo in tutto 18 chilometri, segue il suo alveo naturale fino al Reno. Ma il fatto è che per due chilometri scorre sotto la città. Fu la decisione presa negli anni Sessanta in ossequio al nuovo piano regolatore: bisognava costruire. Il fiume intralciava. L'idea fu quella di murarlo vivo dentro una galleria sotterranea di due metri per due. Ma c'era troppa acqua, l'altra notte. Troppa acqua per quel piccolo canale di cemento. Ecco cosa sono state quelle esplosioni assurde: i tombini che volavano in aria e il cemento che crepitava come sopra a un magma ribollente. Era l'acqua del Ravone. Era il fiume che si riprendeva il cielo.
    L'architetto Gieri sta spalando. Spala fango, butta via cose irrecuperabili, cerca di asciugare l'ingresso del suo studio: «Serve un'idea. Capisco che i temporali non siano più quelli di una volta. Ma bisogna trovare il modo di affrontare questa cosa».
    Siamo alla quarta alluvione nel giro di due anni in Emilia Romagna. Quella del 17 maggio 2023, la più devastante, quella dei diciassette morti e dei miliardi di danni, aveva causato danni nel centro della città. Ancora il Ravone. Ma era uscito in un punto senza tombatura e di proprietà demaniale, all'altezza di via Saffi. Dopo quella esondazione, il Comune ha fatto studiare il caso a un gruppo di esperti. Sono stati eseguiti dei lavori in quel punto. E proprio in quel punto, a questo quarto giro di tempesta, il Ravone ha tenuto. E quindi? Se il Ravone passa sotto le case private, se il Ravone scorre sotto negozi e uffici privati, a chi spetta prendersi cura del tratto intombato?
    Alle undici di mattina nel fango arriva il sindaco Matteo Lepore. Un residente lo affronta a muso duro, un altro, invece, dice: «Sindaco, siamo con te. Ma qui bisogna fare qualcosa». È successo questo: sabato nel giro di sei ore è caduto il quantitativo di pioggia di tutto il mese di ottobre, due volte quello dell'alluvione più devastante. «Abbiamo dato l'allarme per tempo, tutte le persone sono state messe in salvo. Ma il Ravone ha un alveo molto piccolo, si riempie in fretta. La città si è allagata da sotto, non da sopra. Servono casse di laminazione per difenderla».
    Il sindaco risponde al telefono. Chiede notizie degli sfollati. Poi, con amarezza, dice: «Su queste alluvioni sono state fate troppe discussioni di parte, abbiamo assistito a troppi litigi istituzionali. Non voglio attribuire colpe. Ma serve più unità, quella che io chiamo l'unità repubblicana». Domandiamo: a che punto sono i lavori dopo il disastro del 2023? «I progetti ci sono, ma andrebbero finanziati. Invece mancano i soldi. Tutto va a rilento». E sul caso del fiume Ravone intubato per fare posto ai palazzi, simbolo della vecchia Italia del cemento? «Bisogna intervenire a monte. Bisogna trovare un modo per non fare confluire tutta quell'acqua sotto la città».
    Il futuro, quindi. Mentre il fango è il presente, ancora una volta. Arriva un signore quasi tremando, con un misto di stanchezza e stupore dice al sindaco: «Sono qui dal '49. Non pensavo di vedere una cosa del genere». Il Ravone non sta più al suo posto. Sabato nella furia di liberarsi ha sollevato un intero garage condominiale. Quelle auto adesso sono piantate dentro gli ingressi, sparate come proiettili e finite accartocciate.
    Quarta alluvione in Emilia- Romagna. Ci sono ancora 1600 persone sfollate nei comuni dell'area metropolitana. La Regione chiederà ancora lo stato d'emergenza. La presidente facente funzioni Irene Priolo, che si trova qui al posto di Stefano Bonaccini eletto in Europa, sceglie queste parole: «I cittadini che ho incontrato sono disperati, ormai ben oltre l'arrabbiatura. Ci stanno chiedendo come istituzioni di stare insieme. Questo grido d'allarme deve arrivare a livello nazionale e fare in modo che nella prossima finanziaria ci siano i soldi per un piano strutturale».
    Sembra tutto già visto. Sono scene da un'altra ordinaria alluvione. Ma quegli oggetti tirati fuori dalle cantine e appoggiate sui muri, quel giradischi e quelle fotografie, sono pezzi unici perduti per sempre.
    Adesso tutti ripetono che piogge del genere non sono arginabili. «L'acqua non si può fermare», è una delle frasi più ricorrenti. Ma il caso del fiume Ravone, un piccolo fiume murato sotto la città di Bologna, era già per certi versi un caso di scuola. C'è una tesi di laurea datata marzo 2016, questo è il titolo: «Analisi del rischio idraulico in ambiente urbano: il caso del torrente Ravone a Bologna». Candidato, Amedeo Bracaloni. Professore, Mario Martina. Ecco le conclusioni: «Non sembra più possibile far rientrare questi eventi nella categoria delle calamità o delle fatalità non prevedibili»
  5. Il rider
    nell'alluvione

    Una bici, il lago in mezzo alla strada e un cubo sulla schiena. L'uomo o la donna che pedala è una parte dell'ingranaggio. Non ha soggettività. Se l'avesse non sarebbe certo lì, in una notte di alluvione a Bologna, a portare una pizza Margherita a casa di chissachì per quattro soldi. Si dirà: questo è il lavoro. È vero. Non sempre il lavoro è gratificazione. Ma c'è lavoro e lavoro. Sappiamo tutti che chi pedala sulle bici dei rider, il sempre più vasto popolo del cubo, non lo fa solo per i soldi di quella corsa ma anche per non perdere la priorità acquisita con l'algoritmo. Una consegna rifiutata è uguale a tutte le altre, non importa che ci sia l'alluvione. L'algoritmo registra comunque. È impersonale, non ha coscienza. È stato scelto proprio per quello.
    Nella fotografia manca un protagonista: c'è l'acqua che ha messo in ginocchio una città, c'è il rider che pedala controcorrente, c'è il prezioso carico che si porta sulla schiena. Non c'è chi ha messo in moto tutto questo: l'uomo o la donna che con una telefonata ha ordinato la pizza un quarto d'ora prima dello scatto. A differenza dell'algoritmo, chi ha fatto quella telefonata una coscienza dovrebbe averla. Avrebbe dovuto immaginare le conseguenze di una chiamata sventata, fatta nella notte più buia della storia recente di Bologna, con il sindaco che invitava gli abitanti a salire ai piani alti delle case per salvarsi dall'onda di piena. È in questo scenario che al signor X viene in mente di mangiarsi una bella pizza e di farsela portare sul divano, magari guardando in tv le immagini dell'alluvione. Ed è sempre in questo contesto che i dirigenti locali della società dei rider hanno pensato che il servizio non va interrotto. A nessun costo. La pizza margherita come la canzone dei Queen: The show must go on, andare sempre avanti, a prescindere.
    Ma la lunga notte dei rider nell'alluvione non è finita con il rifluire delle acque nell'alveo dei torrenti. È proseguita la mattina dopo, ha inondato le chat degli uomini con i cubi, dando vita a una discussione serrata. Perché c'è cubo e cubo. I pedalatori di Just Eat sono gli unici ad avere un contratto da lavoratori dipendenti. Con condizioni e norme precise. Infatti l'altra sera non lavoravano: «Lo impedisce l'accordo», spiega Carlo Parenti della Filt Cgil che ieri stava preparando un esposto contro gli altri gestori delle piattaforme come Deliveroo, quella del ciclista con la divisa azzurra della famosa fotografia. Nel contratto di Just Eat anche il pluviometro è materia sindacale: con più di 5 millimetri di pioggia in un'ora, con 8-12 millimetri in tre ore, con più di 16 in sei ore, i rider si fermano. «L'altra sera sono scesi 160 millimetri». Dunque in quel caso non c'era bisogno di contratti: per fermarsi bastava il buon senso.
    La discussione tra gli uomini del cubo è tutta sui confini di quel consenso. Perché affrontare le ondate di piena rischiando la vita? Daremo un nome di fantasia alla risposta di Michele, innervosito dalle critiche dei colleghi di pedalata: «Nessuno mi ha obbligato. Ho scelto io di farlo. Sono io che rischio e sono io che so fin dove mi posso spingere. Chi non se la sentiva poteva restare a casa». Quasi mai il mondo è bianco o nero. Viviamo, chi più chi meno, nell'area grigia del compromesso. Così non pochi lavorano come dipendenti per Just Eat e arrotondano, nel tempo libero, con le altre piattaforme. Michele è uno di loro. Ha pedalato nell'acqua perché quella sera, in mezzo all'alluvione, i rider disposti a lavorare erano meno e la consegna veniva pagata di più.«È il mercato, bellezza», avrebbe commentato Humphrey Bogart.
    Di tutto questo noi clienti sappiamo quasi nulla. Non immaginiamo neppure che esista questo mondo con le sue regole e contraddizioni. Ma sappiamo una cosa semplice: con l'alluvione non si lavora in bicicletta. Sembra banale. Anche se l'algoritmo non si ferma, gli umani dovrebbero farlo. Purtroppo la scelta dell'uomo sul divano come quella dei dirigenti delle piattaforme che non si sono fermate è stata compiuta da persone con un'anima e una coscienza. Ognuno è individualmente responsabile delle sue decisioni. Non prendiamocela con l'algoritmo.
  6. l'inchiesta
    Interrogata a roma la moglie dell'ex ministro sangiuliano
    "Ti mando un documento riservato, puliscilo" Quel filo diretto tra il militare e l'uomo di Musk
    Boccia indagata per truffa immobiliare a Pisa

    Antonio Masala
    Andrea Stroppa
    irene famà
    roma
    Da un lato del telefono c'è Andrea Stroppa, il braccio destro di Elon Musk in Italia, che al progetto Starlink ci tiene davvero: «Sto contribuendo per fare una cosa bella…fatta bene...per il Paese». Dall'altro lato del cellulare parla il "suo" riferimento nel ministero della Difesa Antonio Masala. L'ufficiale di Marina punta agli affari, a concludere in fretta ogni trattativa anche a costo di far trapelare carte top secret. «Andrea, è importante che questa cosa non circoli perché è un documento del Ministero… È veramente riservato, interno. Ti chiedo di pulirlo te, io non ho modo di farlo». Le intercettazioni dell'inchiesta della procura di Roma per corruzione, con una raffica di persone e società indagate, raccontano di una lunga serie di gare truccate nella pubblica amministrazione. Per favorire questo o quell'amico, questa o quella società.
    Interessi tra i più svariati. A iniziare da quelli che l'ufficiale di Marina aveva in Starlink, connessione internet satellitare ovunque sviluppata dall'azienda spaziale SpaceX. In estate, si discute sull'utilizzo del progetto sia a scopi militari sia civili. Il ministero della Difesa vuole dotarsi del sistema satellitare e, lo scorso 30 luglio, l'ufficio di Gabinetto indice una riunione tecnica. Forte del suo ruolo, l'ufficiale di Marina partecipa all'incontro. E i suoi obiettivi, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, sono diversi. Vuole, si legge nell'informativa della Guardia di finanza, «far riconoscere, dai massimi livelli istituzionali coinvolti, un ruolo al VI Reparto dello Stato Maggiore Difesa nell'iter di pianificazione e implementazione del progetto». E vuole guadagnarci. Socio occulto, tramite la moglie, della società di informatica Olidata, cerca spazi e accordi per la Spa.
    L'ufficiale Masala contatta l'ex hacker Andrea Stroppa. Con cui, si legge negli atti, ha «opache interazioni». Gli propone di «lavorare insieme». Cerca di dettare i tempi. Gli spiega che «se saranno veloci, entro l'anno potrebbero riuscire a fare un accordo per tutto il Paese. Se invece andranno per le lunghe, cercheranno di fare le attivazioni per i singoli clienti, quali per esempio la Marina». Stroppa aspetta «40 domande» sulla questione, così da poter «chiedere ai tecnici americani di Starlink di rispondere subito». Assicura l'ufficiale: «Tutto quello che è possibile fare, cioè internamente, spingo affinché venga fatto. Perché, comunque...te l'ho detto pure quando ci siamo visti. Ci tengo a livello personale...se un progetto deve essere fatto, dev'essere fatto bene. Almeno posso dire che sto contribuendo a fare una bella cosa».
    Ora l'informatico trentenne, finito indagato, assicura: «Non sapevo che l'ufficiale avesse interessi legati alla società d'informatica». Secondo gli inquirenti, coordinati dai procuratori aggiunti Giuseppe Cascini e Paolo Ielo e dai magistrati Lorenzo Del Giudice e Gianfranco Gallo, qualcosa invece aveva intuito. E gli atti parlano di una promessa: un contratto di fornitura tra Spacex e Olidata Spa.
    Il militare cerca di accreditarsi. E lo fa, almeno per quanto racconta l'inchiesta, insieme all'ex rappresentante legale di Olidata, Cristiano Rufini, pure lui finito nel registro degli indagati. E c'è una conversazione che appare particolarmente significativa. Masala racconta al "socio" di un Generale che «sovrintende il progetto» e che l'ha affrontato senza troppi giri di parole. «Mi ha detto: "Non vorrei che avessi interessi personali perché stai perorando la causa di Starlink molto fortemente". Ha detto di trovarlo strano». L'ufficiale nega. E spiega ad Andrea Stroppa, che in quei giorni stava preparando una presentazione, che «il nome di Olidata non deve comparire». In nessun modo.
    L'ufficiale Antonio Masala, tra le figure chiave di questa inchiesta condotta dai finanzieri del Comando provinciale di Roma e del nucleo speciale polizia valutaria, non aggancia solo Stroppa. Gli accertamenti, che hanno portato all'arresto dell'ex direttore generale di Sogei Paolino Iorio e dell'imprenditore Massimo Rossi, raccontano di un intreccio di affari e conoscenze, di gare e appalti truccati banditi da Sogei, dal ministero dell'Interno-Dipartimento della Pubblica sicurezza, dal ministero della Difesa e dallo Stato maggiore della Difesa. Di «un articolato sistema corruttivo» di cui Starlink rappresentava forse il progetto più ambizioso.
  7. Il tribunale accoglie la richiesta di sospensiva del provvedimento emanato dal prefetto: fatti troppo vecchi e c'è interesse pubblico su Tav e Tenda
    Antimafia, il Tar congela l'interdittiva a Cogefa Salve le grandi opere: i cantieri vanno avanti

    GIUSEPPE LEGATO
    LODOVICO POLETTO
    Il Tar smonta l'interdittiva antimafia a carico di Co. ge. fa, colosso delle infrastrutture che sta realizzando – tra le tante opere – i cantieri del Tenda e lo scavo del tunnel del Moncenisio. I fatti richiamati a sostegno del provvedimento dalla Prefettura e dal gruppo interforze interno che ha istruito il procedimento sono «troppo risalenti nel tempo». Non più attuali dunque – per estensione – al fine di motivare uno stop per la società a lavorare nei cantieri finanziati con fondi – in toto o in parte – pubblici.
    Nelle tre pagine di sentenza emessa ieri pomeriggio dal presidente Raffaele Prosperi si legge: «Il provvedimento prefettizio impugnato riguarda principalmente fatti estremamente risalenti nel tempo e talvolta nei decenni, interessando anche persone decedute oltre quindici anni addietro (si fa certamente riferimento a Teresio Fantini, fondatore di Cogefa venuto a mancare nel 2006 ndr) oppure soggetti in stretta parentela e che dunque si può al momento solo immaginare un coinvolgimento indiretto degli attuali amministratori della Cogefa». C'è poi una motivazione che pare avere le stimmate dell'interesse pubblico: «La ditta interessata segue molteplici cantieri di rilevanza nazionale e concernente i maggiori collegamenti stradali con la Francia, vie principali di transito per le esportazioni italiane oggigiorno di assoluto rilievo visto il perdurare delle interruzioni ferroviarie in territorio francese». I giudici dunque valorizzano «l'opportunità dell'accoglimento del ricorso in connessione alla garanzia della momentanea continuazione delle opere e dei rapporti di lavoro dell'alto numero delle maestranze impiegate e che per quanto rilevato appare preminente l'interesse pubblico al mantenimento delle attività della ricorrente».
    Co. ge. fa, raggiunta da interdittiva lo scorso 15 ottobre, è la testa di un impero che si occupa di grandi costruzioni, opere di rilevanza strategica: una produzione economica (a fine 2023) di oltre 214 milioni di euro. Il legale di Cogefa, . Carlo Merani spiega: «Sono soddisfatto per l'intervenuta sospensione degli effetti dell'interdittiva che tanti danni stava provocando all'azienda e anche alle commesse pubbliche. Come evidenziato la questione sarà riaffrontata in una prossima udienza di fronte all'intero collegio del Tar». I danni a cui fa riferimento il legale sono questi: nei tre giorni successivi all'emanazione del provvedimento i principali committenti di gran di opere hanno scritto a Co.Ge.Fa (Telt, Anas, Città Metropolitana etc…) intimando che «non appena sarebbe entrato in vigore il provvedimento applicativo del Prefetto ne sarebbero derivate le conseguenze». Tradotto: la risoluzione dei contratti. Non andrà così, almeno per ora. Tira un sospiro di sollievo la Regione: «La decisione del Tar del Piemonte garantisce la prosecuzione di opere strategiche per il territorio e questa è senza dubbio una buona notizia: i cantieri vanno avanti» dicono, in una nota, il presidente Alberto Cirio, e gli assessori alle Infrastrutture strategiche Enrico Bussalino e ai Trasporti Marco Gabus. Co.ge.fa, dal canto suo aveva scritto nell'atto di impugnazione dell'interdittiva che «l'interdittiva colpisce una grande società con numerosi addentellati economici e finanziari a causa di presunte condotte poste in essere non dalle attuali figure gestorie, ma da soggetti che non rivestono da oltre dieci anni alcuna carica nella Società (Roberto Fantini, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa) e che con essa non hanno alcun rapporto, se non quello parenterale evidentemente non modificabile»
  8. Germagnano, in manette un pregiudicato di 33 anni che era tornato a vivere a casa dei genitori Ha trovato i militari ad aspettarlo al ritorno da un colpo appena messo a segno in una tabaccheria
    Torna a casa dopo la rapina e la madre lo fa arrestare

    gianni giacomino
    Quando è salito sulla macchina parcheggiata davanti a casa a Germagnano con la madre che cercava di fermarlo è stato chiaro:«Lasciami vado a fare una rapina in tabaccheria in paese e torno». La donna, però, non ha perso tempo e ha immediatamente avvertito il 112. Così quando il figlio 33enne, con alle spalle una discreta sfilza di precedenti, è tornato dalla razzia è stato anche raggiunto dai carabinieri del nucleo radiomobile di Venaria che lo hanno arrestato e riportato in carcere ad Ivrea.
    La storia si è consumata tutta nel giro di un'ora, a Germagnano dove l'uomo è venuto a stare con i suoi dopo aver avuto dei problemi con la sua ex, vittima di maltrattamenti in famiglia. Infatti il 33enne ha il divieto di avvicinamento alla donna e non può più entrare nel comune di Moncalieri. Per questo ha deciso di raggiungere le Valli di Lanzo. E, l'altro giorno, si è messo nei guai. Quando è arrivato davanti all'obiettivo, si è calato sul viso il cappuccio della felpa ed è entrato in tabaccheria. Dove ha strattonato e gettato a terra la proprietaria, poi ha arraffato 400 Gratta&Vinci, un migliaio di euro in contanti. Quindi è risalito in macchina ed è tornato verso la casa dei suoi, che abitano poco distante. Ovviamente il 33enne non si immaginava certo che la madre - provata da anni di sopportazione del figlio che ne ha combinate un po' di tutti i colori - avesse già avvisato le forze dell'ordine. Quindi si è messo comodo in salotto e ha iniziato a grattare i tagliandi che aveva appena rubato. Fino a quando non si è trovato davanti ai carabinieri del radiomobile di Venaria che lo hanno prelevato e portato in carcere.
    Nel frattempo la commerciante aggredita e parecchio scossa dalla violenza subita ha raggiunto il pronto soccorso dell'ospedale di Ciriè dove i medici, dopo un controllo, l'hanno dimessa giudicandola guaribile in una settimana.
    I carabinieri di Ciriè invece, l'altro pomeriggio dopo delle rapide indagini, hanno denunciato per rapina un ragazzo che aveva assaltato il bar "Dolomice" nella centralissima isola pedonale di via Vittorio Emanuele, a Ciriè. Il trentenne, armato di un coltello, indossava un berretto, ma era a volto scoperto. É entrato nel locale poco prima della chiusura, intorno a mezzanotte, ha minacciato con l'arma le dipendenti e si è fatto consegnare circa 600 euro in contanti. Poi è fuggito per Ciriè. Le fasi dell'assalto sono però state riprese nitidamente dalle telecamere che sorvegliano il bar e anche via Vittorio Emanuele. Poco più tardi il 30enne, con alle spalle una sfilza di precedenti, è stato fermato dagli investigatori. —

 

 

 

 

22.10.24
  1. senza pace
    Bologna
    L'urbanistica
    La mia
    Non so se è una persecuzione. Però è dal 2012, quando le viscere del sottosuolo cominciarono a rivoltarsi, che questa terra non ha pace,
    la regione più moderna d'Italia, un angolo di America piantato nello stivale con la sua economia diffusa e le sue eccellenze, dove il basket conta più del calcio e i bambini giocano a baseball. Prima il terremoto, poi la siccità e dopo la siccità le alluvioni a catena, e mettiamoci pure il Covid. Dalla Romagna a Bologna è un'epica del dolore che stringe nella sua morsa questa terra da dodici anni. Sono due cose diverse, va detto, come spiega Romano Montroni, il Libraio d'Italia, che ci guida nel volto disastrato della città («anche se in centro dove abito non è successo niente»). Là è come se franassero le montagne percosse inesorabilmente da quel diluvio infinito, qui è il sottosuolo che si ribella al destino che gli era stato assegnato. Alla fine, le piaghe dell'Emilia Romagna sono comunque quelle di una regione ricca, ammirata e anche un po' presuntuosa, come annota Marco Marozzi, il suo Cronista più importante, abituata a guardare gli altri dall'alto in basso. Ed è vero in fondo che nella vulgata comune «il cambiamento climatico in tutta la sua immensa tragicità colpisce a sangue il buon governo».
    Eppure c'è anche qualcosa di diverso in questo capriccio del destino. Perché Bologna ha sempre voluto guardare in alto, dimenticandosi alla resa dei conti di quel che c'era sotto i suoi piedi. Tutto cominciò nel 1956, ricorda Montroni, quando il sindaco Dozza decise che bisognava ammodernare l'urbanistica della città e da Roma arrivò Campos Venuti per realizzare questo progetto. Fu deciso che i fiumiciattoli venissero interrati e dimenticati. La storia di quei canali è antica e affonda le sue radici nel Medioevo, ma fu proprio grazie a quella gestione delle acque esemplare e innovativa che Bologna poté sviluppare una fiorente industria. Fra loro c'è il Ravone, un torrente che nasce sui colli e sfocia nel Reno dopo 10 chilometri, durante i quali entra in città sotto il portico di via Saragozza, e la costeggia dal suo lato Est, nascondendosi nel suo suolo e uscendone ogni tanto. Ma adesso, com'era già successo nel 2023, ha esondato da quelle viscere, come se fosse venuto fuori a castigarla, assieme a Idice e Zeno. Via Saffi inondata, ordini di evacuazione, anche a San Lazzaro, duemila sfollati, e il sindaco di Casalecchio di Reno, davanti alle immagini di macchine che galleggiano sull'acqua, dice con voce rassicurante che è tutto sotto controllo, ma che nessuno deve uscire di casa. Non c'è bisogno di gridare, qui si fa così. Montroni ricorda come Giovanni Guareschi faceva benedire i paesi del Grande Fiume da don Camillo, ma non è più la stessa Bassa di 70 anni fa, i fenomeni estremi dalle epidemie alle rivolte del sottosuolo e delle sue acque non guardano in faccia a nessuno e possono colpire anche i lembi migliori dello sviluppo umano. È questa la fregatura. Se «il buon governo ha sempre vinto contro tutto e tutti», come sottolinea ancora Montroni, oggi è come se perdesse contro sé stesso. Nel ‘56 l'arcivescovo Lercaro schierò Dossetti per battere Dozza. Lo costrinse a radunare il meglio che trovasse e lui chiamò Ardigò e Pedrazzi fra gli altri, ma la Dc ottenne il peggior risultato degli ultimi 60 anni, senza contare che molti di quei candidati finirono poi nelle file avverse. Anche i rivali pensavano di vincere guardando in alto.
    È questo il prezzo che pagano Bologna e l'Emilia? Certo, pure gli altri la guardano sempre e solo così, nel bene e nel male. Le Monde la cita come la città più anti Meloni d'Italia, non come quella dove cedono i canali e un fiumiciattolo dimenticato travolge le sue strade. In compenso, il New York Times l'ha accusata di aver tradito la sua storia per vendersi all'overtourism, legando la propria immagine a uno dei suoi prodotti più tipici, la mortadella. Come a dire che ha smesso di volare alto, che questo nuovo inferno turistico si è preso tutto. Però quando il Pd Renziano aveva deciso di lanciare Bologna come City of Food, la Los Angeles sul Reno, era partito dall'alto e la immaginava una capitale del cibo politicamente e dieteticamente corretto, di Farinetti e Segré, e di Fico. Prodi portava al vecchio Diana Tony Blair e Brad Pitt e Angelina Jolie mangiavano i tortellini all'Osteria dei Poeti. Non è che tutto questo non esiste più. È che non puoi più guardare in alto, questa è l'unica verità che ci consegna quello che accade adesso.
    Giovedì 24 il presidente Mattarella sarà a Bologna e renderà visita all'Istituto di Scienze Religiose e al Mulino, che compie 70 anni. Nella sala della Biblioteca, ci sarà anche Romano Montroni, entrato nel nuovo cda della casa editrice. Lui è il libraio più famoso d'Italia ed era un ex magazziniere quando nel 1964 passò alla guida delle librerie Feltrinelli, partendo da qui, sotto le due torri. Allora si poteva volare alto, si poteva cominciare da queste strade. Ma oggi sarebbe ancora così? Oggi Monsignor Zuppi dice che è necessario realizzare una «conversione ecologica». E il sindaco Lepore parla di Bologna come «laboratorio di innovazione nel cambiamento climatico». Chissà se sono solo parole. Perché non bastano neanche più i miracoli. Il 5 luglio del 1433 la Madonna di San Luca entrò in processione da Porta Saragozza e in quel momento apparve il sole a scacciare la pioggia che tormentava la città. Adesso niente. Vedi il cielo che viene giù e un video riprende dei rider che girano con le pizze sguazzando sulle bici nei fiumi d'acqua e di fango. C'è chi non si può fermare, ma questa immagine ci dice qualcos'altro: in quei colori neri e cupi, e in quei ragazzi fradici, c'è tutta la sconfitta che viene dal basso. —
  2. Mario Tozzi
    Abbiamo sacrificato gli spazi della natura E ora le alluvioni ci trovano più fragili
    Non porterebbe alcun vantaggio alla comprensione dei fenomeni e al da farsi, se concentrassimo tutte le nostre attenzioni sull'Emilia-Romagna, proprio mentre le piogge aggrediscono Umbria e Marche, appena dopo che la Liguria è stata trasformata in un dominio subacqueo, e Calabria e Sicilia vedono l'acqua entrare nelle case. Tutta l'Italia viene ormai alluvionata con una frequenza e una consistenza sconosciute prima. Ma certo il caso dell'Emilia-Romagna è comunque in qualche modo paradigmatico per diverse ragioni, a partire da quella territoriale: una regione tra le più sviluppate dal punto di vista economico è anche la più interessata da frane e alluvioni, ed è difficile pensare che si tratti di un caso.
    In Emilia-Romagna si è costruito come forsennati e lo si è fatto anche nelle aree a pericolosità idraulica, quelle che andrebbero lasciate intatte e, anzi, lentamente sgombrate da parte della popolazione residente e dalle costruzioni. Non bastasse, la parte orientale della regione ha visto progressivamente cancellati quei lacerti di natura che avevano resistito al furore bonificatorio dei nostri antenati e che, oggi, avrebbero protetto case e persone.
    Non si è arrivati agli eccessi della Liguria, quella mezzaluna di montagne e colline a picco sul mare che è stata trasformata in un anfiteatro di asfalto e cemento perennemente sommerso e aggredito dalle mareggiate. E non siamo nello stato comatoso di Calabria e Sicilia, scampate solo per via della siccità alle ultime piogge, ma teatri delle famigerate alluvioni dell'abusivismo edilizio e dell'abbandono. Siamo in una regione moderna che produce reddito e eccellenze, ma che non ha tenuto in alcun conto l'ambiente naturale, ritenendo a torto che le aree di pertinenza fluviale dovessero essere sacrificate ai capannoni industriali e alla regimentazione coatta delle acque. Per non dire dei fiumi tombati sotto le città: Modena e soprattutto Bologna, dove oggi ci si meraviglia dell'esplosione del Reno e dell'Aposa, come se ci si potesse dimenticare che per visitarli ci si deva infilare sotto terra, perché sono stati sottratti al godimento della popolazione e colpevolmente mutati in bombe idrauliche a orologeria.
    E in Italia ci sono qualcosa come dodicimila chilometri di corsi d'acqua seppelliti da asfalto e cemento. Non che non accada lo stesso in Lombardia (Seveso e Lambro, per citare un esempio) o altrove, ma il conto che la crisi climatica ci sta presentando è più salato in Emilia-Romagna e non servirà a molto prendersela con il cameriere che lo notifica.
    Perché lo stato del territorio c'entra parecchio, ma è evidente che il minimo comune denominatore dell'Italia alluvionata di fine ottobre 2024 è l'accelerazione spropositata che la crisi climatica sembra aver messo agli eventi meteorologici a carattere violento, come ampiamente preventivato dai ricercatori specialisti già da alcuni anni. In definitiva, queste alluvioni sono figlie delle nostre attività produttive, un legame ormai ben delineato, visto che la discussione sul ruolo dei sapiens, fra gli scienziati, è stata chiusa da tempo e si riaprirà solo se emergeranno nuovi dati. Che al momento non ci sono. Ed è questo legame che va spezzato, agendo sulle cause, cioè azzerando le nostre emissioni climalteranti. Solo allora potremo dedicarci all'adattamento e alla mitigazione degli effetti, altrimenti rischiamo di adottare provvedimenti che costeranno sacrifici, ma che non saranno risolutivi, perché, intanto che li mettiamo in atto, le cose peggiorano.
    Nei fatti, però, non riusciamo a prendere decisioni significative per diminuire le emissioni, figuriamoci per azzerarle. Anche per colpa dell'ignoranza diffusa e della malafede. Così, perdendoci in polemiche sterili, non azzeriamo né ci adattiamo. E finiamo sott'acqua.
    Stiamo però affrontando la sfida della crisi climatica e del degrado territoriale con le armi giuste? A giudicare dai risultati sembrerebbe di no, non soltanto perché le grandi opere, la nostra unica risposta, hanno bisogno di grandi quantità di denaro che spesso manca, ma soprattutto perché, dove pure sono state messe in atto, non hanno funzionato e non funzionano come ci si aspetterebbe. Naturalmente qui non parliamo delle piccole opere, delle vasche di espansione puntuali o della manutenzione ordinaria e straordinaria: quelle opere occorrono, ma sapienti, puntuali e nel contesto di interventi "dolci". Qui parliamo di grandi dighe, muraglioni di contenimento, briglie, sbancamenti e uso fuori misura del cemento: di quello non abbiamo bisogno perché non funziona e, anzi, peggiora la situazione. Qui parliamo dell'invasione sistematica delle aree di pertinenza di montagne e fiumi: non è un caso che esistano letti di piena e di magra e che vadano rispettati entrambi. Fiumi e montagne sono sistemi naturali, significa che più li irrigidisci e peggio fai: un fiume lasciato libero fa meno danni, a patto di mantenersi alla giusta distanza.
    Ma l'Emilia-Romagna, come la Lombardia (più di altre realtà), ci sta indicando che abbiamo raggiunto uno dei limiti più insormontabili dello sviluppo economico, quello del suolo, un limite che non può essere in alcun modo scavalcato. Semplicemente non possiamo moltiplicare le attività produttive, gli ettari da coltivare, gli allevamenti, le fabbriche, gli impianti e le infrastrutture, perché nessun vivente può vivere in un contesto completamente artificiale e perché lo sviluppo non può incrementare all'infinito su un pianeta per definizione finito.
    Il moltiplicarsi delle alluvioni ci dice che il re è nudo e rivela che il futuro non può risiedere nelle quantità, ma, se ci riusciamo, nella qualità. Il capitale economico è integralmente figlio del capitale naturale, ma quest'ultimo non è rifondabile alla scala dei tempi dell'uomo e lo stiamo consumando con un assalto ipertecnologico degno di scopi più nobili. Dove oggi i fiumi esondano, in passato c'erano paludi e acquitrini, cioè i territori dell'acqua, che ritornano temporaneamente alla loro origine antica. Solo che in mezzo ci sono le nostre vite e i nostri beni. —
  3. URSO E CIRIO VOGLIONO APRIRE TORINO AI CINESI ALLEATI DI PUTIN: Erdogan e Xi da Putin al vertice dei Brics
    giuseppe agliastro
    mosca
    L'Ucraina dice di aver attaccato una fabbrica di esplosivi e un aerodromo militare nel cuore della Russia. Ma allo stesso tempo sostiene che almeno 17 persone siano state ferite in un raid missilistico su Kryvyi Rih e più di 37 mila siano rimaste senza elettricità nella regione nord-orientale di Sumy dopo un bombardamento delle forze russe su una «infrastruttura energetica». La Russia da parte sua afferma di aver neutralizzato più di cento droni ucraini nella notte e non commenta (almeno per ora) la notizia del presunto attacco alla base aerea di Lipetsk-2, ma lascia intendere che sia stato respinto il raid contro la fabbrica di esplosivi Sverdlov, tra le più grandi del Paese. «I mezzi di difesa aerea e di guerra elettronica hanno respinto un attacco di droni sul territorio della zona industriale di Dzerzhinsk», afferma infatti Gleb Nikitin, governatore della regione di Nizhny Novgorod, aggiungendo però che quattro vigili del fuoco avrebbero riportato «leggere ferite da schegge». Tutt'altra la versione di Kiev, secondo cui «numerose esplosioni» si sarebbero registrate sia nella zona dell'aerodromo militare sia in quella della fabbrica di esplosivi, che è sotto sanzioni di Usa e Ue e dista ben 900 chilometri dalla frontiera. Al momento nessuno dei due resoconti è verificabile in maniera indipendente.
    Ora che l'inverno si avvicina, aumentano i timori di Kiev per i bombardamenti russi sulle infrastrutture energetiche, la cui rete in Ucraina è già stata messa in ginocchio in questi anni di guerra, con i soldati russi accusati di aver lasciato al buio e al gelo milioni di persone.
    Il presidente ucraino Zelensky intanto è tornato a chiedere ai suoi alleati «maggiori capacità di difesa aerea» e «a lungo raggio», accusando i militari russi di aver lanciato la settimana scorsa contro l'Ucraina «più di 20 razzi di vario tipo, circa 800 bombe aeree guidate e più di 500 droni». «Un mondo unito nella difesa può resistere a questo terrore mirato», ha dichiarato Zelensky.
    La Russia da domani a giovedì ospiterà invece il vertice dei Paesi Brics, a cui sono attesi, tra gli altri, il leader cinese Xi Jinping, il presidente turco Erdogan e il segretario generale dell'Onu Guterres. Un evento che servirà a Putin per cercare di smentire la sua immagine di isolamento.
  4. Nuovi atti depositati al Riesame: "Ceravolo finanziò la latitanza in Marocco di un trafficante di droga. La sorella nella ditta di esponenti della n'drangheta"
    Si aggrava la posizione del sindacalista Cisl "Da anni a completa disposizione dei boss"
    leonardo di paco
    giuseppe legato
    Ulteriori atti di indagine sono stati nel frattempo depositati dalla Dda di Torino nell'ambito dell'inchiesta che ha portato in carcere – per associazione mafiosa – il sindacalista (sospeso) della Filca Cisl Domenico Ceravolo difeso dall'avvocato di fiducia Christian Scaramozzino.
    Si tratta di diverse annotazioni del Gico della Finanza che raccontano ulteriori – e più datate - e contiguità con appartenenti o contigui alla ‘ndrangheta. Gli atti sono quelli dell'inchiesta Fenice ed emerge come Ceravolo, già cinque anni fra, incontrò a Moncalieri il boss Antonio Serratore e Onofrio Garcea uomo di punta della cosca Bonavota finito a processo (e condannato in via definitiva) per voto di scambio politico mafioso con l'ex assessore regionale di Fdi Roberto Rosso (per quest'ultimo pende Cassazione). Nelle carte sono mappati contatti telefonici con membri di spicco dell'organizzazione mafiosa: da Salvatore Arone a Basilio De Fina a Nazareno Fratea tutti gente già condannata in più gradi di giudizio a pene severe per ‘ndrangheta tutti soggetti "verso i quali – scrivono gli investigatori nel Nucleo di polizia economica della Finanza – Ceravolo si è sempre mostrato disponibile e reverente". Ancora: "Ha altresì intrattenuto rapporti con Raffaele Arone, altro esponente della 'ndrina Bonavota per il tramite dello zio, Francesco Arone". Di più: "Dall'analisi delle conversazioni intercettate sull'utenza in uso a Raffaele Serratore (già condannato per mafia) è emerso come quest'ultimo sia particolarmente legato a Ceravolo il quale, con massima dedizione, si è messo a completa disposizione". Come? "Oltre a contattarlo quasi quotidianamente, ogni qualvolta Serratore manifesta la necessità di essere accompagnato da qualche parte è lui (Ceravolo ndr) che si mette immediatamente a sua disposizione. Ceravolo – sempre secondo gli investigatori avrebbe partecipato al finanziamento della latitanza in Marocco (dal febbraio al dicembre 2016) di Francesco Mandaradoni "a vantaggio del, quale – si legge agli atti – ha trasferito 1000 euro circa".
    E proprio in relazione ai Mandaradoni, soggetti da sempre ritenuti contigui alla ‘ndrina Bonavota, Ceravolo avrebbe avuto vantaggi a ricaduta "familiare". Da ottobre 2014 a gennaio 2015 la signora Rosanna Ceravolo "ha percepito redditi dalla "Build Up Srl, società per quanto riscontrato dall'attività investigativa svolta dalla Legione dei Carabinieri di Genova essere congiuntamente gestita da esponenti della 'ndrina Bonavota".
    Ancora a giugno 2022 viene intercettata una telefonata tra un membro della famiglia D'Agostino e Ceravolo. Il primo racconta al secondo che in un cantiere in corso a Milano si era presentato un delegato della Uil per "fare delle tessere" sindacali. Annota la Finanza. " Immediatamente Ceravolo ha contattato un operaio a lui vicino invitandolo a riferire ai "ragazzi" presenti in cantiere di non proseguire con le iscrizioni sindacali". Ciò doveva accadere, ha proseguito D'Agostino, perché la Uil "non è un nostro sindacato". Questa affermazione "assume rilevanza almeno per due ragioni: la prima dimostra come i partecipi del gruppo investigato, consideri la Filca-Cisl, all'interno della quale opera Ceravolo, come il loro sindacato di riferimento; la seconda evidenzia come sia lo stesso datore di lavoro ad indirizzare i dipendenti, impedendone l'iscrizione verso altre sigle, verso il sindacato di loro convenienza considerato che il delegato di riferimento è Domenico Ceravolo appunto". Va ricordato che la Filca-Cisl Torino Canavese è la federazione territoriale che è cresciuta di più nel 2023 aumentando gli iscritti di 1.061 unità e raggiungendo quota 7.839 tesserati: +16%.
    In settimana, infine, all'interno della Filca torinese è previsto il direttivo per sostituire l'attuale segretario provinciale, Mauro De Lellis, non indagato, promosso a segretario regionale nei primi giorni dell'inchiesta. De Lellis, come da protocollo, rassegnerà le dimissioni dal vertice provinciale. Ma il direttivo del sindacato, anziché eleggere la nuova segreteria, potrebbe decidere per un periodo di reggenza. Una mossa cautelativa, che non prevede l'azzeramento degli organismi, in attesa che si conoscano ulteriori sviluppi sulle indagini. —

 

 

21.10.24
  1. Abuso d'ufficio
    "
    Raffaele Cantone
    "Banche dati violate, Italia a rischio sicurezza Sulla giustizia auspico un fermo biologico"
    Separazione carriere
    L'uso dei Trojan
    Sorteggio del Csm
    Inviato a Perugia
    Riforma della giustizia? «Non si avvertiva la necessità d tutte queste modifiche, auspico un "fermo biologico" da parte dell'esecutivo». E ancora: «Il tema delle violazioni alle banche dati pubbliche o più in generale dei sistemi informatici pubblici, a partire da quelli del ministero della Giustizia, si sta rivelando in questi giorni un problema enorme, anche di sicurezza per l'intero Paese». E poi la lotta alla corruzione che da anni connota la sua carriera da magistrato e da ex presidente di Anac «resa molto più complicata dalle ultime riforme», il ruolo delle Fondazioni create dai partiti «che in molti casi finanziano in modo illecito e surrettizio la politica». L'ufficio del Procuratore di Perugia Raffaele Cantone è un via vai di investigatori: l'inchiesta che vede indagati, tra gli altri, il tenente della Guardia di Finanza Pasquale Striano e l'ex magistrato della Dna Antonio Laudati è in corso: «Di questo ovviamente nulla posso dire» precisa.
    Procuratore Cantone, non si è mai visto – o si è raramente visto - come in questo biennio un profluvio di modifiche legislative. Erano tutte così necessarie ?
    «Effettivamente nell'ultimo periodo si sono susseguiti tanti interventi in materia di giustizia su molti aspetti sostanziali e processuali. Va detto, per onestà, che anche altre legislature, pure recenti, si erano distinte per un eccesso di attivismo. Sulla necessità ed opportunità non posso che concordare con quanto saggiamente e felicemente ha detto la Prima Presidente della Cassazione, Margherita Cassano».
    Sarebbe a dire?
    «Ha auspicato un "fermo biologico" in materia».
    Abuso d'ufficio abolito. E amministratori liberi dalla paura della firma. Quanto c'è di vero?
    «È una leggenda metropolitana che la paura della firma, quella che qualcuno chiama burocrazia difensiva, dipenda dalla norma sull'abuso di ufficio; la paura della firma, purtroppo, invece è un fatto esistente, ma ha ben altre e più complesse cause. Sono convinto che anche con l'abolizione dell'abuso le amministrazioni pubbliche non si trasformeranno in esempi di efficienza e i fatti purtroppo mi daranno ragione».
    Cosa accadrebbe alla lotta alla corruzione nell'ipotesi di un combinato disposto tra l'abrogazione dell'abuso d'ufficio, il ridimensionamento del traffico di influenze e la ventilata cancellazione della Spazzacorrotti?
    «Chi si occupa di indagini sa benissimo che l'abolizione dell'abuso di ufficio renderà le indagini in materia di corruzione molto più difficili, perché viene meno un'ipotesi di "reato spia", che può nascondere - non sempre - fatti di corruzione. La riforma Nordio depotenzia moltissimo anche il traffico di influenze che però è un reato che serve a punire l'attività dei faccendieri, che nelle forme moderne di corruzione sono coloro che fanno da tramite fra i pubblici ufficiali corrotti ed i corruttori: l'annacquamento di questa fattispecie rischierà di indebolire anche questo aspetto dell'attività di contrasto».
    Sono pubbliche le intenzioni di limitare anche l'utilizzo del Trojan su indagini di corruzione.
    «Non consentire il trojan per questa tipologia di reati avrà un effetto assolutamente deleterio».
    Forse qualcuno crede ancora che corrotti e corruttori parlano liberamente al telefono?
    «Ma si figuri. La corruzione è un reato commesso da persone con un certo livello di cultura e di attenzione, che al telefono parlano pochissimo e che non lo utilizzano per scambiarsi favori e mazzette; pensare che possano bastare le sole intercettazioni telefoniche è quantomeno un'ingenuità».
    Dall'inchiesta della procura di Genova sulla politica è emerso un tema molto delicato legato alle Fondazioni che i politici creano per finanziare la campagna elettorale. Un sistema trasparente?
    «Le Fondazioni create a latere dei partiti nascono con nobili finalità culturali e di promozione di idee politiche ma in molti casi diventano un modo per finanziare in modo illecito e surrettizio la politica. La legislazione, pur con le novità timide introdotte dalla "Spazzacorrotti", non è in grado di garantire la trasparenza dei finanziamenti e paradossalmente questa situazione fa danno anche a quelle Fondazioni che vogliono fare davvero politica e non raccattare denaro».
    Ha ragione il presidente dell'Anticorruzione Busia a invocare una nuova legge sul conflitto di interessi?
    «Ha assolutamente ragione; il conflitto di interessi è l'anticamera della corruzione: per troppi anni abbiamo pensato che riguardasse un unico politico e cioè un importante imprenditore; in realtà i conflitti di interesse nelle amministrazioni pubbliche sono tanti e, ad oggi, non ci sono strumenti adeguati per rimuoverli».
    Stop alle intercettazioni dopo 45 giorni. Anche questa era una misura impellente per un miglior funzionamento della giustizia? E cosa c'entra coi diritti degli indagati?
    «Credo che sia una riforma sbagliata, malgrado le eventuali buone intenzioni che la animano; concordo che le intercettazioni non devono avere tempi lunghissimi, ma fissare un limite per legge non è una buona idea; vediamo come sarà scritta la norma».
    Quanto eventuali limitazioni all'accesso ai cellulari degli indagati (ddl sui sequestri) avrebbe impattato sull'indagine che sta portando avanti come procuratore di Perugia insieme al suo ufficio?
    «Dell'indagine nulla posso dire ma mi faccia dire che il tema delle violazioni alle banche dati pubbliche o di interesse pubblico o più in generale dei sistemi informatici pubblici, a partire da quelli del ministero della Giustizia, si sta rivelando in questi giorni un problema enorme, anche di sicurezza per l'intero Paese. Bisogna sul punto dare atto che fra le tante leggi criticabili il Parlamento ha varato una buona riforma dei reati informatici, attribuendo il coordinamento delle indagini alla Procura Nazionale antimafia. Un plauso meritato, quindi».
    Sostiene il ministro che «la madre di tutte le riforme è la separazione delle carriere ».
    «Io sono assolutamente contrario; la riforma fra l'altro di cui si discute non prevede la separazione delle carriere ma molto di più e cioè la separazione delle magistrature e paradossalmente renderà il pm più forte e molto più autoreferenziale, ma anche molto più a rischio di essere influenzato da scelte della politica. Mi auguro che su questa riforma vi sia la giusta riflessione, perché si rischia di stravolgere l'impianto costituzionale».
    Ritiene verosimile anche lei – come alcuni suoi colleghi – che «il vero obiettivo di pezzi di questo esecutivo sia sottomettere (ad esso) i pm e abolire l'azione penale obbligatoria»?
    «Sono rischi concreti che vanno assolutamente scongiurati; certi principi rappresentarono nel 1946 i capisaldi di una Costituzione democratica e restano ancora oggi pienamente validi».
    L'avviso di arresto, così ribattezzato dalla norma sul "contraddittorio anticipato" sta svelando alcune fragilità.
    «È una riforma che non potrà reggere; nella prima attuazione ci sta creando problemi seri non tanto per i reati contro la pubblica amministrazione ma per quelli che riguardano la sicurezza pubblica: i furti e lo spaccio di droga; in una realtà come Perugia in cui questi reati sono appannaggio di soggetti senza fissa dimora o che non sono della zona l'interrogatorio preventivo rischia di rendere l'eventuale misura successiva inutile, perché gli indagati si danno alla fuga. Il governo ha promesso che monitorerà gli effetti e mi auguro, se necessario, che torni davvero sui propri passi».
    Capitolo sorteggio/Csm. Il ministro Nordio lo considera «l'unico modo per dare alla magistratura indipendenza e autonomia». E cita la Corte d'Assise «composta per la maggioranza da giudici popolari sorteggiati». ...
    «È un ragionamento che faccio fatica a credere possa aver fatto un giurista raffinato come il collega Nordio; cosa c'entra la Corte di assise, i cui componenti dovranno partecipare ad un processo per un tempo relativo, con il Csm chiamato ad gestire la vita professionale e le carriere dei magistrati? Questa norma mi pare solo punitiva per la magistratura e vorrei che si capisse che qualcuno, in futuro, raccogliendo questo precedente potrà chiedere che anche il Parlamento venga scelto a sorteggio»
  2. Progetti energetici finti e finanziamenti veri Il tesoro era in un box di corso Giulio Cesare
    Banche truffate e soldi investiti nei lingotti d'oro In 50 a processo
    ludovica lopetti
    Hanno messo a segno truffe milionarie ai danni del Gse (Gestore dei servizi energetici) e dei maggiori istituti di credito italiani (Bpm, Montepaschi e Ubi banca, solo per citarne alcune) grazie a una galassia di società fantasma che sono riuscite a ottenere erogazioni pubbliche, prestiti bancari e crediti fiscali per decine di milioni di euro.
    Per "ripulire" i proventi delle truffe, poi, hanno acquistato centinaia di lingotti d'oro, in parte stivati in un box di corso Giulio Cesare insieme a 600mila euro in contanti. E ancora, avrebbero aperto conti correnti nell'Est Europa e nei paradisi fiscali e portafogli "crypto" su cui far transitare il denaro sporco.E sullo sfondo compaiono imputati già coinvolti in indagini legate alla 'ndrangheta calabrese.
    Un meccanismo che ha iniziato a vacillare quando i finanzieri, a fine gennaio 2019, hanno trovato il box e ne hanno sequestrato il contenuto. A quel punto Elio Miegge, Luca Villata, Simone Marietta e Luca Pifferi, che la Procura considera «capi e organizzatori» di una vasta e radicata associazione a delinquere, hanno cercato di fuggire in Svizzera grazie alla complicità di un faccendiere, ma sono stati fermati dai carabinieri con la valigia in mano.
    Oggi i quattro colletti bianchi sono finiti a processo insieme ad altre 48 persone (difese, tra gli altri, da Guido Anetrini e Luigi Chiappero) con accuse che vanno dal riciclaggio alla frode, tutti reati commessi, in ipotesi, nella cornice associativa. Alla sbarra ci sono imprenditori, commercialisti e "teste di legno", ma anche soggetti già noti alle cronache come Crescenzo D'Alterio, imputato nel processo sulla presunta infiltrazione della 'ndrangheta nell'impresa che gestiva il bar del Palagiustizia, e Pasquale Motta, condannato in via definitiva a 6 anni per aver riciclato il denaro della cosca Pensabene in una rsa di Favria.
    L'udienza preliminare si è aperta nei giorni scorsi con le costituzioni di parte civile: hanno chiesto di partecipare al processo, in veste di danneggiati, il Gse (interamente partecipato dal Mef), Unicredit, Banca Ifis, Leasys spa, Banca Progetto, Credem, Banca Sella e altre.
    Le indagini, coordinate dal pm Ruggero Crupi e affidate a Carabinieri e Guardia di Finanza, hanno scoperto decine di società (tra le altre, FS srls, Progest Key srls e la Omnia Energy srls) intestate a prestanome o a identità di fantasia come "Paolo Locatelli" o "Elisa Girotti", che presentavano al Gse documenti da cui risultava l'esecuzione di falsi lavori di efficentamento energetico. Il gestore erogava i "certificati bianchi" (titoli di risparmio energetico) e le società li monetizzavano mettendoli in commercio. Gli amministratori delle ditte poi trasferivano il denaro all'estero fatturando compensi per prestazioni mai eseguite. Lo stesso metodo sarebbe stato usato per raggirare le banche: le società presentavano credenziali solide e ottenevano finanziamenti da centinaia di migliaia di euro, garantiti per metà dal Ministero dello Sviluppo. Poi i gestori di fatto trasferivano il bottino all'estero e ne facevano perdere le tracce. Ma lo schema sarebbe stato replicato anche con auto prese a leasing, mai restituite e spedite in Lituania e Bulgaria.
    Nell'ambito della stessa inchiesta, nel 2019, era finita sotto sequestro anche l'Hamburgheria di Eataly dell'outlet di Settimo Torinese (Eataly estranea ai fatti), che faceva capo a una società (la Opera srl) gestita di fatto dal sodalizio e, nell'ipotesi della procura, sarebbe stata utilizzata - emerge dagli atti - per reinvestire i proventi delle maxi-truffe nell'economia legale. —
  3. In Vaticano la canonizzazione del beato nato nel 1851. Nel 1996 il miracolo in Amazzonia: la guarigione di un indigeno aggredito da un giaguaro
    Oggi il Papa proclama Santo Allamano A Torino fondò le Missioni della Consolata
    domenico agasso
    Giuseppe Allamano e il suo motto di vita «fare bene il bene» salgono agli altari della Chiesa universale. Stamattina papa Francesco proclama Santo il fondatore delle Missioni della Consolata. Il sacerdote, nato a Castelnuovo Don Bosco il 21 gennaio 1851 e morto a Torino il 16 febbraio 1926, annoverato nella schiera dei «santi sociali» piemontesi, è beato dal 1990 per volere di Giovanni Paolo II. E oggi è di nuovo festa in piazza San Pietro e a Torino, dove Allamano fu rettore del Santuario della Consolata dall'età di 29 anni.
    Il Canonico è nipote di un altro santo carissimo alla Città della Mole, Giuseppe Cafasso; ed è concittadino di san Giovanni Bosco. Ordinato prete 22enne, sette anni dopo è Rettore anche del Convitto ecclesiastico per i neo-sacerdoti.
    Come ricorda l'arcivescovo di Torino, il cardinale designato Roberto Repole, la missione dell'Istituto che ha fondato partì «dall'amato Santuario della Consolata e oggi è diffusa in tutto il mondo, dove i missionari e le missionarie della Consolata continuano a testimoniare la fede, spesso in condizioni di povertà materiale e spirituale».
    Tutto inizia da un'osservazione che turba Allamano: molti giovani preti desiderosi di diventare missionari vengono ostacolati dalle diocesi, che alle missioni preferiscono mandare soldi piuttosto che risorse umane. Il Canonico decide di creare un Istituto di missionari. Il suo progetto deve attendere dieci anni, tra vari contrattempi Oltretevere. Ottiene il via libera nel 1901. Nel 1902 parte la prima spedizione: direzione Kenya. Otto anni più tardi Allamano dà origine anche alle Suore Missionarie della Consolata.
    Il fondatore nel 1912, sostenuto da altri leader cattolici, sottopone a Pio X l'ignoranza dei fedeli riguardo alla missione, un vuoto causato spesso dalla sottovalutazione che serpeggia nei Sacri Palazzi. Denuncia, e propone: una Giornata missionaria annuale. L'idea di Allamano resta in un cassetto vaticano. Fino al 1927, quando Pio XI istituisce la Giornata missionaria mondiale, che si celebra proprio oggi.
    Il miracolo che conduce il Canonico alla santità è del febbraio 1996: l'insperata guarigione di Sorino Yanomami, indigeno dell'Amazzonia, attaccato da un giaguaro che gli ha provocato gravi ferite al cranio. Commenta Corrado Dalmonego, missionario della Consolata, antropologo, in servizio tra il popolo Yanomami, nel nord del Brasile: «È come se Allamano ci dicesse "io ho interceduto ma adesso, qual è la condizione dei popoli indigeni?"». Nella terra dove si è verificato «il prodigio sta avvenendo una seconda corsa all'oro, un aumento esponenziale di sfruttamento minerario illegale, legato ai narcos, al traffico di armi, con 20 mila cercatori d'oro su una popolazione di 33 mila persone». Oltre a «disboscamento, devastazione della foresta, contaminazione di acque e terre, si assiste a un deterioramento delle condizioni di salute della popolazione».
    C'è urgente bisogno di «fare bene il bene».

 

 

20.10.24
  1. Ostaggi
    dell'
    acqua
    Mario Tozzi
    Se non ci lasciamo abbagliare dal solo Po che esonda in centro a Torino, e che ci sembra quasi famigliare, le immagini che provengono dalla Liguria destano incredulità anche negli osservatori più attenti. Ma, a guardare bene, si tratta sempre, e ancora una volta, della stessa identica modalità. Paesi e cittadini incastrati nei thalweg fluviali quasi interamente sommersi da una massa d'acqua marrone in costante flusso verso mare. Non importa se si tratti di Savona o Genova, di Sori o di Alassio, tutto finisce rapidamente sott'acqua. E non dovrebbero destare alcuna incredulità, perché tutto è, ed era, largamente prevedibile, a partire dalla situazione meteorologica. La "depressione del Golfo di Genova" si studia sui libri di scuola media superiore ed era, una volta, caratteristica di quella regione specifica e di quella stagione. Oggi è diventata più profonda, si genera a contatto di acque sempre più calde, dura più a lungo e investe aree sempre più vaste, fino alla Toscana e oltre. Portando peraltro con sé un corredo di fenomeni correlati che vanno dalle trombe marine ai veri e propri tornado nostrani, tanto che si parla ormai apertamente di Medicanes, uragani mediterranei.
    Perché le cose sono cambiate negli ultimi trent'anni, almeno a partire dall'alluvione di Serravezza (1996), forse la prima nostrana da ascrivere alle flash flood, le alluvioni improvvise, che costringono ad evacuare quantità impensabili di acqua in pochissimo tempo su aste fluviali relativamente corte. Senza per questo che siano scomparse le alluvioni "tradizionali" del Nord Italia, quelle che un tempo permettevano di aspettare in vigile attesa la piena dopo che il Po aveva caricato piogge, neve e acque di fusione dei ghiacciai dal Monviso a Pontelagoscuro: il fiume esondato a Torino ci rammenta che anche le grandi città corrono rischi, pure se ben munite di argini in pietra.
    Ma, stante la situazione meteorologica mutata, da noi la differenza la fa lo stato del territorio che in Liguria è agghiacciante: a fronte della struggente bellezza paesaggistica, la regione agonizza soffocata da un mare di cemento e asfalto che l'hanno resa impermeabile preda delle acque dilavanti. Non c'è quasi un borgo, una città o una singola abitazione che non sia costruita in aree di pericolosità idraulica o franosa: ci siamo illusi che i fiumi fossero limitati alle loro acque e non al complesso del loro vastissimo letto, abbiamo tombato interi corsi d'acqua sotto strade e palazzi, abbiamo privato le colline delle foreste di lecci, naturale difesa, e le abbiamo sostituite con uliveti e vigne che, però, abbiamo successivamente abbandonato, con il corredo degli straordinari muretti a secco oggi impossibilitati a contenere alcunché. E non è un problema di manutenzione, o pulizia degli argini, dragaggio degli alvei o nuove opere, tutte operazioni che servono solo per calmare la popolazione, non ottenendo alcun risultato ai fini della mitigazione del rischio e, anzi, spesso incrementandolo.
    Non è un fenomeno nuovo, se è vero, come è vero che già Italo Calvino scriveva della "rapallizzazione", cioè dello "stravolgere a fini speculativi l'assetto edilizio e urbanistico dei piccoli centri urbani, in spregio a ogni criterio di pianificazione e alla tutela dei valori paesaggistici" (Treccani). Ma negli ultimi decenni ha conosciuto un nuovo vigore, che è arrivato perfino a leggi regionali che acconsentono le costruzioni a ridosso dei corsi d'acqua, in spregio a ogni normativa nazionale. Una bulimia costruttiva schiava del dio denaro che dimentica bellezza, qualità della vita e paesaggio.
    Ma quelle immagini debbono necessariamente essere lette assieme a quelle della stazione ferroviaria di Siena ridotta a un canale e a quelle analoghe che vengono dalla Francia meridionale, dove in 48 ore sono caduti fino a 870 mm di pioggia: la quantità che, in passato, cadeva in una decina di mesi. O a quelle provenienti da tutto l'emisfero boreale, dalla Biblioteca Nazionale di Spagna a Monterrey si va senza sosta sott'acqua e si muore: quasi duemila vittime per queste "nuove" inondazioni. Che andrebbero sommate a quelle delle regioni che sono, invece, tormentate dalla siccità, come la Sicilia, una siccità che, altrove, uccide. Perché si tratta delle due facce della stessa medaglia, quella della crisi climatica più acuta e più accelerata e globale che i sapiens abbiano mai subito. E dell'unica che hanno essi stessi creato, prelevando il carbonio sotterrato nei combustibili fossili, bruciandolo e spargendolo allegramente in atmosfera in aggiunta ai cicli naturali che, senza questo contributo, funzionavano egregiamente all'equilibrio.
    Ora, però, tutti i nodi stanno venendo rapidamente al pettine e, per citare due conseguenze a scala globale, le correnti oceaniche dell'Atlantico viaggiano verso il collasso, fenomeno che potrebbe portare, tra l'altro, a celle di tempesta anche fredde nell'emisfero boreale, come anni fa descritto da un film visionario (The Day after Tomorrow, di R.Emmerich 2004) e come paventato addirittura dal Pentagono già dall'inizio degli anni Duemila (Dough e Randall 2007). O come il fatto che i serbatori naturali di carbonio, che hanno assorbito CO2 in questi secoli e millenni (foreste e territori vergini) lo scorso anno non ne abbiano assorbita affatto, preludendo a un'accelerazione del riscaldamento globale fuori dalla nostra possibilità di previsione (il collasso dei serbatoi naturali di carbonio non veniva, in genere, messo nel conto della crisi climatica). In questa situazione ogni tentativo di adattamento (termine oggi molto alla moda per nascondere il fatto che non c'è alcuna volontà politica di intervenire) risulterà fatalmente inutile, se non verranno prese draconiane misure per azzerare le nostre emissioni clima alteranti, misure di cui non si vede alcun profilo all'orizzonte.
  2. L'hacker che spiava le mail dei giudici "Aveva le password di 15 pm torinesi"
    giuseppe legato
    Perché detenesse gli indirizzi mail con relative password del dominio giustizia.it di tutti quei magistrati (46) in servizio in diversi uffici giudiziari italiani è comprensibile solo in parte. E cioè – per una quota - con il tentativo di "bucare" le corrispondenze elettroniche dei pm che stavano indagando su di lui (Gela e Napoli in testa). Per acquisire eventuali atti investigativi che lo riguardavano. Non è ancora noto però – anzi è un giallo - il motivo per cui Carmelo Miano, 24 anni, originario di Sciacca (Ag), l'hacker arrestato dalla procura di Napoli alcuni giorni fa, detenesse nel suo pc anche gli indirizzi mail e relative password di 15 magistrati della procura di Torino.
    Non avrebbe effettuato accessi al contenuto delle caselle, ma riuscendo a bucare le password avrebbe comunque potuto farlo in qualsiasi momento.
    Così «nella serie indefinita» - scrivono i pm di Napoli – di magistrati colpiti dall'attacco informatico figurano i nomi di un terzo dell'organico della procura di Torino. Sono contenuti un'informativa agli atti dell'indagine. Si tratta del procuratore Giovanni Bombardieri, di Marco Gianoglio, il capo del pool che indaga contro i reati economici, Cesare Parodi a capo del settore Fasce Deboli, Enrica Gabetta "Aggiunto" che guida 8 sostituti nel contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione. Ma ci sono anche i pm Gianfranco Colace, Mario Bendoni, Giovanni Caspani, Vincenzo Pacileo, Paolo Cappelli, Chiara Canepa, Elisa Buffa, Delia Boschetto, Lisa Bergamasco, Emilio Gatti , Patrizia Caputo e Ruggero Crupi.
    A Napoli riflettono sulla possibilità che Miano non abbia agito, come ha sostenuto davanti al gip nell'interrogatorio di garanzia, solamente per conoscere i fascicoli d'indagine che lo riguardavano. Piuttosto «il possesso di documenti relativi all'architettura informatica di infrastrutture della Gdf e della Polizia di Stato; gli accessi abusivi ai sistemi telematici di uffici di Polizia di Stato – che nulla hanno a che fare con le indagini sull'indagato – appaiono elementi oggettivi che stridono con le dichiarazioni e con la versione sostenuta da Miano nell'interrogatorio». Ergo l'idea è che «possedendo Miano wallet contenenti criptovalute convertite per alcuni milioni di euro,» si possono intravedere «finalità di profitto connesse agli accessi e alle gestioni di dati, e che allo stato non possono far escludere l'esistenza di committenti o destinatari di dati e documenti sensibili esfiltrati». E negli esiti della perquisizione avvenuta lo scorso 1 ottobre «è stato riscontrato che. in più occasioni, Miano aveva prelevato dai sistemi della rete del Ministero della Giustizia il database relativo a tutti gli utenti di dominio (inclusi dunque i magistrati di tutta Italia), contenente le userame con le relative password, sebbene queste ultime memorizzate in forma di hash un codice alfanumerico non reversibile se non tramite specifici attacchi».
    Secondo l'avvocato Gioacchino Genchi, legale dell'indagato «la circostanza che Miano avesse nel suo computer gli account e le password di 40 magistrati, fra cui alcuni pubblici ministeri delle procure di Torino, di Firenze e di Perugia è assolutamente priva di alcuna significatività. Piuttosto – aggiunge - bisognerà considerare a quale di queste caselle email e pec Miano abbia effettivamente acceduto e a quali no. Sicuramente non è acceduto a quella dei magistrati di Perugia, di Firenze e di Torino, che nell'informativa depositata alla vigilia del riesame sembrano tirati apposta per i capelli, nello strenuo tentativo di tenere le indagini a Napoli». —

 

 

 

 

 

19.10.24
  1. Agente segreto sotto copertura si infiltra nei narcos: 13 arresti
    ludovica lopetti
    Il 31 ottobre 2023 sono stati i cani antidroga a guidare i finanzieri alla meta. In un deposito in via Cirenaica hanno trovato 386 chili di hashish. Una montagna di droga già suddivisa in due milioni e 486 mila dosi singole pronte a finire sul mercato, per undici milioni di euro. In tutto gli investigatori coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia hanno sequestrato 800 chili di stupefacente, anche cocaina. Ma è il retroscena dell'indagine che evoca la sceneggiatura di una serie tv. A stanare i narcos ha contribuito un agente sotto copertura, che per anni si è dedicato a quello che in gergo si chiama "money pick up". «Il funzionario - spiega il gip nell'ordinanza che ha portato in carcere 13 persone per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga - è riuscito a infiltrarsi nel sistema dei "prelevatori" dei contanti, ottenendo la consegna del denaro proveniente dai gruppi dediti al traffico di stupefacenti».
    L'agente tra maggio e agosto del 2020, solo a Torino ha preso in consegna borsoni di contanti per un milione e mezzo di euro. Il denaro sarebbe dovuto finire in Colombia, a saldo delle partite di hashish e cocaina che il «cartello criminale» aveva acquistato a credito dai narcos sudamericani. L'indagine è partita a Trento, dove la procura stava investigando sulla lavanderia di denaro che si reggeva sui "trasferitori" in contatto con il cartello colombiano. Intermediari incaricati di gestire i pagamenti senza lasciare traccia si inventavano passaggi tortuosi in grado di schermare la provenienza illecita dei soldi. Quando la procura torinese ha ricevuto gli atti, ha fatto mettere sotto controllo i telefoni dei sospettati che avevano portato i borsoni all'agente in incognito. Così sono risaliti a due diversi gruppi, organizzati con auto dal doppio fondo, camion, criptofonini e magazzini dove stoccare e lavorare la merce. Per i pm Dionigi Tibone e Laura Ruffino il primo sarebbe capeggiato dal marocchino Hicham Boussen, 45 anni, difeso da Alessandro Gasparini. Conterebbe su nove "partecipi" - difesi, tra gli altri, dall'avvocato Giuseppe Spataro - con compiti vari: approvvigionamento, trasporto e smercio al dettaglio. A capo dell'altro gruppo ci sarebbe il connazionale Salah Lemaaoui, 49 anni, difeso da Cosimo Palumbo. L'unico gregario identificato è latitante. Il terzo non è mai stato identificato. Gli investigatori hanno captato la sua voce al telefono e lo hanno visto all'opera durante gli appostamenti, ma è sempre sfuggito. Per i soggetti ritenuti «capi e promotori» che hanno scelto il giudizio abbreviato, la procura ha chiesto fino a 18 anni di carcere. Per quelli che hanno scelto il dibattimento si profila un acceso dibattito, perché il numero minimo per contestare il reato associativo è di tre persone. Ma il terzo partecipe forse è un "fantasma".

 

 

18.10.24
  1. "La salute non è soltanto un costo Si raddoppi il prezzo delle sigarette"
    Silvio Garattini
    Le liste d'attesa
    Le medicine
    "

    FRANCESCO MOSCATELLI
    MILANO
    «Per la sanità il governo non sta facendo quello che potrebbe fare. Però è facile criticare l'esecutivo in carica. In realtà tutti i governi che si sono succeduti in Italia si sono mossi considerando la salute una spesa invece che un investimento. Lo stesso accade con la ricerca o l'istruzione: vengono considerate un costo, mentre sono un investimento. Purtroppo chi governa guarda più ai voti che agli interessi del Paese». Silvio Garattini, 95 anni, fondatore e presidente dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, scienziato e allo stesso tempo combattivo difensore del diritto alla salute, si concentra sulle responsabilità della politica senza però dimenticare che «tutto dipende dai cittadini, perché se tutti andassimo a votare probabilmente avremmo anche politici migliori».
    Professor Garattini, il sindacato dei medici ospedalieri annuncia barricate contro la finanziaria. Qual è il suo giudizio?
    «Se i numeri sono quelli che sto leggendo in queste ore i fondi previsti dalla manovra per la sanità sono pochi. Soprattutto se guardiamo a quanto spendono gli altri Paesi. A mio parere il problema principale è che non possiamo continuare a mantenere gli stipendi dei medici, degli infermieri e più in generale del personale del Servizio Sanitario Nazionale ai livelli attuali. Sono fra i più bassi d'Europa e questo comporta il passaggio al privato, dove le retribuzioni sono migliori, o il trasferimento all'estero. E poi c'è il tema disuguaglianze, strettamente collegato alla questione liste d'attesa».
    Perché le disuguaglianze aumentano le liste d'attesa?
    «Oggi chi paga può avere visite e analisi rapidamente rivolgendosi ai privati, sempre più spesso attraverso le assicurazioni. E dato che le assicurazioni hanno la priorità, le liste d'attesa per chi non può pagare si allungano. È un'ingiustizia che non possiamo tollerare perché la nostra Costituzione dice che il Paese tutela la salute di tutti, non solo di chi può permetterselo».
    Come si possono ridurre le liste d'attesa?
    «Ci sono cose che si devono risolvere nel tempo perché ci sono liste d'attesa per troppe malattie evitabili. Promuovere la prevenzione, ad esempio, è il modo più efficace per ridurle. Intervenendo su fattori come fumo, alcol, droga, attività fisica e sovrappeso, si diminuiscono anche gli accessi al Servizio Sanitario Nazionale. Solo così si inverte la tendenza all'aumento dei costi. Per creare prevenzione, però, serve una rivoluzione culturale. Eppure i dirigenti della sanità, invece che uscire da una scuola ad hoc, che in Italia non esiste, continuano a essere scelti e nominati dalla politica».
    Cosa si può fare, invece, nel breve periodo?
    «Se ci fossero davvero le case di comunità, ovvero luoghi in cui venti o trenta medici di medicina generale lavorano insieme, ci sarebbero meno liste d'attesa. Le case di comunità, però, per ora esistono davvero solo nelle leggi».
    Il problema è sempre lo stesso: la scarsità delle risorse…
    «Non condivido questa idea. Trovare i soldi per la sanità sarebbe facile. Per cominciare si dovrebbe rivedere il prontuario terapeutico dei farmaci sul quale non si interviene da trent'anni. Noi paghiamo un sacco di soldi per farmaci che sono inutili o che sono in sovrabbondanza».
    Faccia qualche esempio...
    «Perché dobbiamo avere 70 farmaci anti-diabete? Se facessimo dei confronti e scegliessimo i più efficaci potremmo averne molti meno. Per trovare i soldi poi si potrebbe raddoppiare il costo delle sigarette. Oggi da noi è il più basso d'Europa. In Francia un pacchetto costa 12 euro, in Gran Bretagna 10 sterline».
    Non sarebbe una misura impopolare?
    «Raccoglieremmo miliardi di euro per la sanità. Anche perché dodici milioni di fumatori incidono tantissimo sul Servizio Sanitario Nazionale: abbiamo costi elevati per malattie che senza fumo sarebbero evitabili. Lo chiediamo da vent'anni. Idem per l'alcol».
    Cosa propone?
    «L'alcol è un altro fattore cancerogeno. Non si capisce perché non si fanno i festival delle sigarette ma si fanno quelli del vino. Non si fa niente di ciò che servirebbe davvero alla salute. La sanità è diventata un grande mercato. In Italia abbiamo 4,5 milioni di persone con diabete di tipo 2 e 180 mila morti all'anno per tumore. Il 40% di queste patologie sarebbe evitabile. Basta volerlo». —
  2. UN REAGALO IMMOTIVATO:   TFR
    Con silenzio assenso destinato ai fondi
    9,7 milioni
    Addio al Tfr? Fra le misure delle manovra, c'è l'introduzione di un semestre di silenzio-assenso per destinare il trattamento di fine rapporto dei lavoratori ai fondi di pensione integrativa (una strada già tentata nel 2007). La proposta, partita dal ministro del Lavoro Marina Calderone, aveva sul tavolo due ipotesi. La prima: conferire obbligatoriamente e automaticamente ai fondi pensione una fetta del Tfr – nella misura del 25% – di tutti i lavoratori o solo dei neoassunti. In alternativa, affidarsi a un meccanismo su base volontaria (opzione più gradita ai sindacati). Stando all'ultimo rapporto dell'Inps, l'ammontare di Tfr/Tfs accantonato è di 9,7 miliardi per i dipendenti pubblici mentre per il settore privato sfiora i 6,9 miliardi. Senza contare le piccole imprese che non lo versano alla tesoreria Inps (l'obbligo scatta dai 50 dipendenti in su) e che, anzi, hanno nel Tfr un'importante leva finanziaria. Secondo la relazione annuale Covip, oggi sono iscritti alla previdenza complementare 9,7 milioni di lavoratori italiani: solo il 36,9% della forza lavoro.
  3. UN GOVERNO DELIGITTIMATO : Banche
    I conti che non tornano

    gianluca paolucci
    «Aspettiamo di vedere il testo». All'indomani dell'annuncio del governo sul «contributo» di banche e assicurazioni alla manovra, nel mondo finanziario prevale la cautela. L'Abi (Associazione bancaria italiana), che in mattinata ha riunito il comitato esecutivo con all'ordine del giorno anche l'analisi della manovra, ha fatto sapere che si esprimerà solo «quando sarà possibile esaminare l'articolato». Perfino i commenti delle banche d'affari, che in mattinata sottolineavano l'impatto sostanzialmente neutro della misura, dopo le parole del ministro Giorgetti e dopo la diffusione del testo del Documento programmatico di bilancio (Dpb) hanno virato su un approccio più cauto: «Aspettiamo di vedere il testo». Una cautela che si è riflessa nell'andamento dei titoli del settore in Borsa: partenza in buon rialzo, flessione decisa durante la conferenza stampa del ministro dell'Economia, quando Giorgetti ha chiarito di ritenere «sacrifici» quelli chiesti al sistema bancario, lenta ripresa e chiusura poco mossa. Se Giorgetti e il viceministro Maurizio Leo hanno chiarito che i 3,5 miliardi di maggiori introiti riguardavano banche e assicurazioni e non solo le banche, il testo del Documento programmatico di bilancio inviato a Bruxelles nella tarda serata di martedì racconta un'altra storia.
    Secondo le tabelle allegate al Dpb, l'impatto della misura - calcolato sul pil reale del 2024 - sarà pari a zero per quest'anno, di circa 3,1 miliardi nel 2025 (quando si vedranno i suoi effetti in termini fiscali) e negativo per 1,35 miliardi e 1,75 miliardi rispettivamente nel 2026 e 2027. In sostanza, un anticipo di cassa che sarà restituito dallo Stato nei due anni successivi. Questa cifra comprende, hanno spiegato Giorgetti e Leo, il contributo delle imprese assicurative quantificato in conferenza stampa in un miliardo di euro. Anche in questo caso - come nel caso delle banche -, per quanto noto dovrebbe trattarsi di un anticipo: l'imposta prevista per alcuni tipi di polizze alla scadenza viene adesso spalmata anno per anno. Numeri diversi da quelli citati in conferenza stampa, che hanno causato un certo spaesamento anche negli uffici studi delle grandi banche. Tolto il miliardo a carico delle assicurazioni, per le banche l'anticipo sarebbe di circa 2 miliardi. Inferiore ai 2,5 miliardi citati in conferenza stampa ma concentrati in una unica annualità, il 2025 appunto. E non spalmati su due anni. «Per ora ci atteniamo ai numeri citati dal ministro», dice in serata un analista.
    Gran parte dei due miliardi a carico delle banche viene dalle cosiddete Dta, i crediti fiscali differiti, accumulatisi nei bilanci bancari nella stagione delle svalutazioni miliardarie per effetto della vendita delle sofferenze. Nei primi cinque gruppi bancari, questi crediti fiscali ammontano a 30,5 miliardi di euro, un bel tesoretto, che in questa stagione di ricchi utili servono ad abbattere il carico fiscale. Secondo le stime della Fabi, le minori deduzioni previste dalla manovra valgono 780 milioni per Unicredit e 913 per Intesa Sanpaolo. Una parte più piccola del contributo, inferiore ai 100 milioni, dovrebbe arrivare invece dalla sospensione degli sgravi fiscali sulle stock option. Anche in questo caso serve il condizionale, perché i testi normativi non ci sono ancora.
    Sta di fatto che nel documento di 38 pagine inviato a Bruxelles non mancano le curiosità. L'impatto sul pil della manovra, ad esempio, è stimato nello 0,3%. La spending review, nella forma della revisione della spesa dei ministeri, avrà un impatto positivo per 3,3 miliardi tra il 2024 e il 2026, nel 2027 rappresenterà un costo di circa 800 milioni. —
  4. BITCOIN=RICICLAGGIO ma PAOLO ARDOINO L'ad di Tether: "È una misura che colpisce soprattutto i giovani e le startup delle criptovalute"
    " L'aumento delle tasse su Bitcoin è un errore Farà scappare dall'Italia cervelli e capitali"

    Paolo Ardoino
    Arcangelo Rociola
    «La decisione del governo di portare le tasse sulle rendite da Bitcoin al 42% è illogica e pericolosa. Colpirà soprattutto i giovani e le aziende italiane nate in questo settore. Avrà un unico effetto: aumenterà la fuga di capitali e di cervelli dal nostro Paese». Nel mondo delle criptovalute, Paolo Ardoino è probabilmente l'italiano più celebre. È fondatore e guida di Tether, azienda dietro una valuta digitale dal valore stabile e ancorata al dollaro che vanta una capitalizzazione di 119 miliardi. Muove ogni giorno 53 miliardi di transazioni e solo nella prima metà del 2024 ha generato 5,2 miliardi di utili. Che giudizio dà alla decisione del governo?
    «È una scelta sbagliata, illogica e senza precedenti. Da italiano mi ferisce. Tassare le rendite più di tutte le altre è il culmine di una guerra al settore che va avanti da 10 anni».
    Perché illogica?
    «In conferenza stampa il viceministro Leo ha detto ai aumentano le tasse sulle rendite perché Bitcoin è diventato uno strumento più popolare. Cioè il principio è: visto che aumentano i suoi possessori, portiamo le tasse di chi li possiede dal 26% al 42%. È miope e pericoloso».
    In Italia si stima che i possessori di cripto siano 2,5 milioni, per circa 2,5 miliardi. Chi sarà più colpito?
    «I giovani, che sono la stragrande maggioranza dei possessori. A loro si sta dicendo che l'Italia tassa un'innovazione e la tassa più di altre cose. Questo scoraggerà ulteriormente chi vuole fare innovazione e creare aziende tecnologiche».
    Molti sui social dicono di voler lasciare l'Italia.
    «Non lo faranno tutti, ma molti penso di si. E poi sia chiaro, chi lascerà l'Italia sono i grandi possessori di Bitcoin, e sono tanti. Chi pagherà saranno i piccoli e medi risparmiatori».
    Che ne sarà delle aziende italiane del settore?
    «C'è un rischio sistemico. Una delle cose peggiori nella vita è non avere certezze. A queste aziende non solo non ne vengono date, ma vengono anche penalizzate più di altre. O venderanno o andranno via».
    Un concetto ricorrente nelle sue risposte è la fuga.
    «Bitcoin è un portafoglio digitale che ti porti ovunque. Il valore di Bitcoin è slegato dal Paese in cui ci si trova. È un modo diverso di intendere la ricchezza. E se un Paese offre condizioni migliori, uno va. Noi italiani siamo storicamente abituati».
    Lei perché è andato via?
    «Per necessità. Guadagnavo 800 euro come ricercatore. Ogni anno in attesa di un rinnovo. Ogni anno con la paura di non averlo. Ripeto, vivere senza certezze è la cosa peggiore».
    Oggi però è uno degli uomini più ricchi d'Italia. C'è chi pensa che la ricchezza dei possessori di cripto sia iniqua perché finora è sfuggita al fisco.
    «Conosco molta gente che ha cripto e vuole pagare le tasse. Anche al 26%, come avviene con gli altri investimenti. Ma mi faccia dire una cosa».
    Prego.
    «C'è una logica sbagliata in tutto questo. Io ho fatto impresa scommettendo su un'innovazione. L'Italia non ha mai premiato chi vuole fare innovazione. Non ha mai capito dove andava il mondo, anche prima delle criptovalute. Conosco menti incredibili nel nostro Paese che non vengono valorizzate, che a un certo punto si stancano e vanno via. E poi, se qualcuno riesce in qualcosa non solo non viene aiutato, ma criminalizzato».
    Darebbe un consiglio all'esecutivo?
    «Che facciano norme e leggi dopo aver studiato un settore. Si facciano aiutare da qualcuno. Quello che hanno fatto con le cripto ha dimostrato che non conoscono né l'industria, né il suo potenziale. E neppure le conseguenze enormi che avrà questa scelta sull'intero Paese»
  5. IL PREZZO DELLA SCELTA DEL TOSSICO MUSK : L'invito mancato da parte di Biden con Scholz, Macron e Starmer. La premier a Bruxelles minimizza: "Domani sarò in Libano, preferisco così" DISSE LA VOLPE ALL'UVA.
    Ucraina, l'Italia esclusa dal vertice Usa
    Ilario Lombardo
    Inviato a Bruxelles
    Per due volte in meno di una settimana Giorgia Meloni è stata esclusa dal vertice ristretto dei principali leader occidentali. La prima, solo virtualmente: perché la riunione, prevista venerdì scorso a Berlino, come preparatoria del summit di Ramstein sull'Ucraina, non si è mai tenuta, rinviata su richiesta di Joe Biden, costretto a restare negli Stati Uniti per affrontare le devastanti conseguenze dell'uragano Milton sulla Florida.
    Domani, sempre nella capitale tedesca, il presidente americano vedrà il primo ministro inglese Keir Starmer, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il presidente francese Emmanuel Macron. Meloni non ci sarà, nonostante sia la presidente di turno del G7, e in altri casi il formato del vertice tra gli Usa e i più grandi Stati europei – il cosiddetto Quint – era stato allargato anche all'Italia.
    Meloni, da Bruxelles, prova a minimizzare, puntando su un appuntamento personale, una missione organizzata negli ultimi giorni: «Non potrei partecipare all'incontro perché nello stesso giorno sono in Libano e in Giordania. E penso che in questa fase sia ancora più utile parlare con gli attori della regione. Questo viaggio è la mia priorità».
    La premier a Beirut vedrà il primo ministro e il presidente del Parlamento, mentre non andrà a fare visita al contingente italiano della missione Onu, Unifil, nel Sud, nell'area degli scontri tra Israele e Hezbollah.
    «Troppo pericoloso», spiega il ministro Guido Crosetto, dopo gli attacchi dell'esercito israeliano ai caschi blu. Di certo il viaggio è una coincidenza perfetta, che, almeno in parte, copre un'assenza che in qualche modo va spiegata. Stando a fonti diplomatiche, il motivo va ricercato nella progressiva marginalizzazione dell'Italia sul fronte delle commesse militari. Ieri Biden ha annunciato un altro pacchetto di aiuti per l'Ucraina, di 425 milioni di dollari, e la spedizione di armi a lungo raggio, in grado potenzialmente di colpire obiettivi in Russia. Il contributo del governo italiano, invece, nei mesi è diminuito, l'entusiasmo si è raffreddato, sempre più condizionato dalla disaffezione dell'opinione pubblica verso le resistenza ucraina. La destra che guida il Paese è spaccata, ma nessuno dei tre partiti, né FdI, né Lega, né Forza Italia, è favorevole a far cadere il divieto di utilizzo sul territorio russo delle armi fornite a Kiev.
    Colpisce un altro aspetto: per due anni Meloni e Biden hanno avuto un'intesa senza sbavature, affettuosa in pubblico, solida in privato, nonostante i legami politici della premier con Donald Trump. E questo di domani potrebbe essere l'ultimo importante vertice di Biden prima del voto americano e dello tsunami che si abbatterà sul mondo e sull'Europa, se il tycoon repubblicano riconquisterà la Casa Bianca. Trump potrebbe ridefinire nuovamente i rapporti con la Russia di Vladimir Putin, non solo degli Stati Uniti ma anche degli alleati. Rapporti che si sono incrinati, come prova anche l'ultimo episodio denunciato da Mosca, che ha protestato per la decisione di negare i visti alla delegazione russa che doveva partecipare a Milano al 75esimo International Astronautical Congress. Un atteggiamento delle autorità italiane che è stato duramente criticato dalla portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova: «Consideriamo questa come un'altra manifestazione del corso russofobo dell'attuale leadership italiana che assesta un altro colpo alle relazioni con la Russia»
  6. Nello Stato chiave il Tycoon provò a sovvertire la vittoria di Biden nel 2020. Oggi sarebbe lui in vantaggio
    Georgia, 320 mila elettori hanno già scelto E il giudice blocca la regola del riconteggio

    marco liconti
    Washington
    A fronte di sondaggi poco affidabili – il New York Times ha dedicato una lunga analisi al problema – un'indicazione reale su chi vincerà la Casa Bianca potrebbe essere già presente nelle urne. È la pratica dell'early voting, il voto anticipato per posta e di persona alla quale gli americani, a partire dal 2000, fanno sempre più ricorso. Dopo il picco del 69% nel 2020 causa pandemia, nelle elezioni di midterm del 2022 il 50% dei partecipanti al voto avevano scelto questa modalità. In attesa dei dati finali – si avranno dopo l'Election Day del 5 novembre – fa scalpore il record di 328 mila voti anticipati fatto registrare in Georgia (Stato-chiave) nella prima giornata di apertura anticipata del voto. E sempre in Georgia, dove Donald Trump nel 2020 tentò di sovvertire l'esito del voto favorevole a Joe Biden («Trovatemi i voti», diede ordine alle autorità elettorali dello Stato), un giudice, Robert McBurney, ha bloccato la nuova regola voluta dai Repubblicani di riconteggiare a mano tutti i voti che verranno espressi nello Stato, per verificare che il numero delle schede coincida con quello degli elettori. Una richiesta che avrebbe ritardato di giorni l'annuncio del risultato. McBurney è anche il giudice che presiede il processo (ora fermo) a Donald Trump per le vicende di quattro anni fa. Il tycoon, che per anni ha accusato (senza prove) i Democratici di sfruttare l'early voting per falsificare il voto, in questa tornata elettorale ha cambiato completamente rotta. La sua campagna sta incoraggiando gli elettori a votare anticipatamente. Appelli espliciti sono stati lanciati in questo senso in Pennsylvania e North Carolina, anch'essi Stati-chiave per la conquista della Casa Bianca. Forse perché un recente sondaggio dell'Università di Harvard gli assegna un lieve margine su Kamala Harris nel voto anticipato (48-47). Comunque, una conferma di quanto in questa elezione ogni singolo voto possa spostare gli equilibri. Nei sette Stati-chiave, il calendario dell'early voting prevede le urne già aperte per Arizona, Georgia e in gran parte delle contee della Pennsylvania. Entro la fine di questa settimana si aggiungeranno North Carolina e Nevada, entro la prossima Wisconsin e Michigan. Nel frattempo, fioccano le cause legali sulle regole elettorali. Soprattutto negli Stati-chiave, Democratici e Repubblicani hanno già presentato nei tribunali decine di ricorsi, contestandosi reciprocamente presunti vantaggi. È un'anticipazione di quanto potrebbe accadere dopo il 5 novembre.
  7. LA STORIA INFINITA : I dialoghi tra il direttore generale Iorio e l'imprenditore Massimo Rossi: "Quando arrivano i pacchi?". Per gli inquirenti si trattava di mazzette
    Inchiesta Sogei, gli indagati al telefono "Dai che qui c'è da lavorare per tutti"

    irene famà
    roma
    «Sono arrivati i pacchi? » . Insistente Paolino Iorio, il direttore generale di Sogei, che contattava l'imprenditore Massimo Rossi con cui era in affari. Voleva sapere se erano arrivati i soldi, quel denaro che tramite Rossi pare si intascasse per favorire questa e quella società in gare e appalti. Intercettato al telefono dalla Guardia di finanza, si informava sui tempi. «Quanto devo ancora aspettare? » . Spazientito continuava a chiamare. E quelle telefonate, che l'hanno portato agli arresti domiciliari per una vicenda di corruzione, sono tutte raccolte in un'informativa agli atti della procura di Roma.
    Iorio, una lunga carriera come manager pubblico, dal primo settembre 2023 è a capo della Direzione ingegneria, infrastrutture, data center e dallo scorso marzo diventa il numero uno della società che si occupa della gestione dei servizi informatici della pubblica amministrazione controllata al 100% dal ministero dell'Economia. L'altro giorno viene arrestato: con sé 15mila euro in contanti appena consegnati dall'amico imprenditore. Agli inquirenti ha confessato di aver preso centomila euro. Tangenti? Assolutamente no. «Davo consigli, facevo attività di consulenza».
    Gli accertamenti dei finanzieri del Comando provinciale di Roma e del nucleo speciale polizia valutaria raccontano una storia diversa. Massimo Rossi voleva favorire le imprese legate a lui, alla sua famiglia e ai suoi amici. E pagava Paolino Iorio. In questo modo, si legge negli atti, con Sogei avrebbe stipulato una «serie di contratti» per oltre cento milioni. I due si incontravano un paio di volte al mese. «Dal novembre 2023», sostengono gli inquirenti della procura di Roma. Iorio pare abbia raccontato che gli scambi erano iniziati già a febbraio 2023. Altro aspetto al vaglio degli investigatori che al manager hanno sequestrato pure un cellulare di quelli vecchi. Acquistato apposta per parlare con Rossi "riservatamente", senza pericolo che venisse inoculato un trojan. La sim? Intestata alla moglie dell'imprenditore. Massimo Rossi, anche lui finito ai domiciliari, davanti ai pm ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere.
    Le indagini proseguono. Sogei ha inviato un'informativa alla Corte dei Conti. In una nota spiega di aver revocato «tutte le cariche, gli incarichi e le procure conferite all'ingegnere», di aver avviato degli accertamenti interni e di essersi rivolta a un legale per potersi costituire parte offesa in un eventuale procedimento penale.
    L'inchiesta, coordinata dagli aggiunti Giuseppe Cascini e Paolo Ielo e dai magistrati Lorenzo Del Giudice e Gianfranco Gallo, ruota intorno a gare e appalti truccati banditi da Sogei, dal ministero dell'Interno-Dipartimento della Pubblica sicurezza, dal ministero della Difesa e dallo Stato maggiore della Difesa. E il ministro dell'Economia Giorgetti commenta: «Aspettiamo il lavoro della magistratura». Mentre il senatore Boccia del Pd chiede «al Governo di spiegare in Parlamento».
    Diciotto le persone indagate, quattordici le società, di cui due quotate in Borsa, Olidata e Digital Value. Ed è proprio su Olidata spa, noto nome del mondo hi-tech, che gli accertamenti si soffermano. Due degli indagati, un ufficiale di Marina e un dipendente del ministero dell'Interno, erano soci occulti tramite le mogli. E cercavano di stringere dei patti per riuscire a inserire la società in svariati affari.
    «Dai che qui c'è da lavorare per tutti». Così l'ufficiale Antonio Masala avrebbe detto al telefono ai "suoi" in Olidata, convinto di essere riuscito a concludere un contratto di forniture con il colosso SpaceX, azienda aerospaziale statunitense. Come? In cambio di informazioni con Antonio Stroppa, l'uomo di Elon Musk in Italia.
    Nei guai è finito anche il rappresentante legale della Spa Cristiano Rufini. Lui assicura «la massima disponibilità a collaborare con la magistratura». E da Olidata si dicono «a completa disposizione degli inquirenti». —
  8. MAFIA ISTITUZONALE : 'inchiesta
    Anzio, la mafia e il vertice segreto al bar L'ex assessore indagato pilota le liste

    Il bel mare da cartolina è lontano. Una via di periferia anonima, con casette basse e qualche artigiano. A metà strada un bar senza tante pretese, tavolini di plastica, un ombrellone inutile con il sole autunnale. Anzio, 54 mila abitanti, paesone a sud della capitale, sembra lontano miglia da questo luogo. Distanti i ristoranti di pesce, la movida, il chiasso estivo, le spiagge dei romani ad agosto. Nessuno sguardo curioso. Qui un gruppetto di persone sta decidendo parte del futuro della città. È proprio di discrezione che c'è bisogno.
    Il Comune, sciolto per infiltrazione mafiosa due anni fa, sta per tornare alle urne, in un'elezione delicata e tesa. Il 17 e 18 novembre si voterà. Una decina di giorni prima arriverà la sentenza del processo Tritone, l'inchiesta della DDA romana - pm Giovanni Musarò e Alessandra Fini - che ha colpito, per la terza volta, le cosche di ‘ndrangheta radicate sul litorale da decenni.
    Nel bar nella periferia di Anzio martedì scorso si stavano decidendo le liste elettorali di una parte dello schieramento della destra. Discussioni animate sui nomi, i candidati che arrivano per firmare l'accettazione della candidatura, qualche caffè, tante telefonate. C'è chi ricorda i bei tempi passati: «Ho lavorato otto anni con Candido», racconta un trentenne del posto, con ostentato orgoglio. Il riferimento è all'ex sindaco Candido De Angelis, oggi indagato per scambio elettorale politico-mafioso. Qualcuno commenta gli ultimi arresti, o gli esiti di altri processi. Qui, sul litorale romano, politica e inchieste giudiziarie spesso viaggiano in parallelo. Due i comuni attualmente sciolti: oltre ad Anzio, la vicina Nettuno, mentre ad Aprilia - il cui sindaco è stato recentemente arrestato per un'altra indagine della Direzione distrettuale antimafia della capitale - è arrivata la commissione d'accesso da un paio di mesi.
    A gestire la delicata fase della chiusura di alcune liste elettorali nel paese sciolto per mafia ci sono i protagonisti della giunta colpita dal provvedimento del ministro Piantedosi e, in parte, dall'inchiesta della Procura di Roma. Assessori, consiglieri comunali, esponenti della politica locale, alcuni di loro troppo vicini ai vertici della Locale di ‘ndrangheta di Anzio e Nettuno. Con qualche nome ben noto alle cronache giudiziarie. Quando la riunione sta per iniziare arriva sorridente Gualtiero Di Carlo, già assessore all'ambiente. Insieme all'ex sindaco De Angelis è indagato oggi per voto di scambio politico-mafioso, un reato che prevede la pena detentiva da dieci a quindici anni, la stessa prevista per gli associati alle cosche. Si siede al tavolo dove verranno decisi i nomi dei candidati. Poco prima una giovanissima studentessa aveva firmato i moduli per presentarsi in una lista delle prossime elezioni: «Che partito devo mettere, zio?», chiede ad un altro ex assessore presente (non indagato), Bruno Tuscano. «Forza Italia», risponde, mentre al telefono dà indicazioni per raggiungere il piccolo bar. Volti nuovi, certo. Puliti, senza dubbio. Ma la macchina elettorale appare - in questa desolata strada di periferia, lontano da sguardi troppo curiosi - nelle mani della classe dirigente sporcata dalle inchieste dei magistrati antimafia. La presenza sicuramente più ingombrante nella riunione di martedì scorso - che La Stampa ha potuto documentare - era quella dell'ex assessore Gualtiero Di Carlo. Un passato da pugile alle spalle, Di Carlo è legato da un rapporto di amicizia con Davide Perronace, indicato dai magistrati romani come uno dei tre vertici della Locale di ‘ndrangheta, insieme a Giacomo Madaffari e Bruno Gallace. Nei confronti di Perronace il pubblico ministero Giovanni Musarò ha chiesto 24 anni di reclusione nel processo Tritone. I captatori informatici del Nucleo investigativo del comando provinciale dei Carabinieri di Roma hanno documentato i tanti incontri di Perronace con il mondo politico di Anzio. Strettissimi i rapporti con l'ex assessore Di Carlo, fotografato, tra l'altro, mentre abbraccia e bacia uno dei capi della Locale di ‘Ndrangheta. Quando, il 17 febbraio 2022, scatta l'operazione Tritone con 65 arresti, il politico di Forza Italia organizza subito una raccolta di fondi a favore della famiglia Perronace, donando personalmente 1.500 euro alla moglie di Davide. Appena tre giorni prima il boss calabrese presentava l'amico al cugino, come assessore del Comune di Anzio: «Mi ci ha messo lui, mi ha mandato a fare l'assessore all'ambiente, il potere è il suo, mica il mio», si scherniva Di Carlo. Ancora più inquietante la scena che trovano i carabinieri, all'inizio del 2022, durante un controllo a Perronace, all'epoca agli arresti domiciliari. Nel salotto di casa c'erano tanti politici locali, tra i quali lo stesso Di Carlo. «Ma che state facendo qua, il consiglio comunale? È meglio che andiamo via», è stato l'incredibile commento dei militari.
    Tra i pilastri dell'inchiesta Tritone c'è proprio l'ipotesi di un condizionamento delle elezioni comunali da parte dei vertici della Locale di ‘Ndrangheta. Nel 2018, quando si votò per i consigli di Anzio e Nettuno, gli investigatori stavano già ascoltando in diretta le conversazioni telefoniche tra gli esponenti di punta della politica locale e le famiglie mafiose. Protagonista all'epoca per la compilazione delle liste elettorali era Vincenzo Capolei, ex coordinatore locale di Forza Italia per il collegio elettorale di Anzio, Nettuno, Ardea e Pomezia, nonché fratello di un consigliere regionale di maggioranza, Fabio. Quando fu scelto dalla coalizione di destra il nome del candidato sindaco per il Comune di Nettuno «Capolei informò subito Madaffari Giacomo», ovvero il capo dell'organizzazione ndranghetista attiva sul litorale romano, scrivono i pm nella memoria presentata dopo la requisitoria del processo Tritone. Il candidato, Alessandro Coppola, venne poi eletto.
    Oggi Capolei giura di essere lontano dalla politica locale: «Io non c'ero alla riunione di Anzio ieri, sto in Toscana - spiega a La Stampa - può essere che c'era mio fratello, il consigliere regionale, non io… Io quest'anno mi sono messo proprio in vacanza…». Di sicuro carriera ne ha fatta: oggi è uno degli uomini di fiducia del senatore Claudio Fazzone, coordinatore regionale di Forza Italia.
  9. Cogefa Stop per mafia
    giuseppe legato
    La scure dell'Antimafia si abbatte sulla società Co.Ge.fa, colosso di grandi cantieri e delle infrastrutture autostradali finita alcuni mesi fa al centro di un'inchiesta della Dda di Torino che ha svelato l'infiltrazione della ‘ndrangheta nei cantieri deputati alla manutenzione della A32 Torino-Bardonecchia. Il documento di analisi della Prefettura, frutto di un lungo e articolato lavoro di un gruppo investigativo interforze, annota i rapporti che collocano questa società, destinataria di plurime (e milionarie) commesse pubbliche ad ambienti della criminalità organizzata calabrese. E mette nel mirino le contiguità – storiche e recenti – con esponenti di criminalità comune e mafiosa.
    Tutto ruota intorno alla famiglia Fantini il cui capostipite, fondatore di Cogefa, (e già amministratore di Sitalfa) Teresio Fantini, deceduto 18 anni fa, viene analizzato dagli investigatori nei suoi rapporti con Giuseppe Pasqua soggetto definito «ben introdotto nell'ambiente ‘ndranghetista del torinese ed operante a Brandizzo» nonché destinatario di una condanna risalente al 1982 per omicidio e a oggi indagato per associazione di stampo mafioso nell'ultimo blitz del Ros ribattezzato "Echidna". Ci sono ancora i fili che collegano Teresio (ma stavolta anche i figli Roberto e Massimo) ad Antonio Esposito meglio noto come "Tonino", precedenti penali per associazione a delinquere finalizzata all'usura in concorso con Rocco Lo Presti, boss di primissimo piano degli anni Ottanta (e fino alla sua morte) in Valsusa, conosciuto come "il ras di Bardonecchia" e con Luciano Ursino (esponente di spicco della ‘ndrangheta) entrambi organici alla cosca Mazzaferro-Ursino.
    In quel gruppo – fanno notare gli investigatori – Teresio veniva chiamato "Il Generale". Risulta agli atti che Esposito – insieme a un socio – abbia beneficiato di incarichi di guardiania dei cantieri e commesse lavorative per la sua società cooperativa "Dyana".
    Ancora a fondamento del provvedimento interdittivo figurano i rapporti tra membri della famiglia Fantini e l'imprenditore Gian Carlo Bellavia, attualmente agli arresti domiciliari per concorso eterno in associazione mafiosa che gli è contestato nell'operazione Echidna (ma già attenzionato nel procedimento "Platinum Dia").
    E secondo quanto si apprende da fonti investigative anche il ruolo di Roberto Fantini ha un peso sullo stop amministrativo e sul concreto rischio di infiltrazione mafiosa. Gli investigatori considerano Roberto, figlio di Teresio, un amico dei Pasqua, indagati in quanto (presunti) affiliati alla ‘ndrangheta. Giuseppe Pasqua «aveva con Fantini – scrive il gip nell'ordinanza di custodia cautelare – un rapporto privilegiato». Infine, un focus riguarda le cointeressenze economiche nei rapporti tra clienti e fornitori: gli inquirenti mappano almeno quattro società riconducibili a loro avviso alla famiglia Fantini (Cogefa, Trama srl, società agricola "La Teresina" e consorzio Edilmaco) che hanno avuto rapporti commerciali con imprese "controindicate" tra queste diverse sono già state oggetto di diniego di iscrizione alla white list della Prefettura. Per un importo dal 2019 ad oggi di circa 450 mila euro. L'interdittiva antimafia è un provvedimento amministrativo adottato dal Prefetto, di natura cautelare e preventiva previsto dal cosiddetto "Codice antimafia" (decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159). L'obiettivo è «impedire i rapporti contrattuali con la Pubblica amministrazione di società, formalmente estranee ma, direttamente o indirettamente, comunque collegate con la criminalità organizzata». Viene emessa ogni volta che siano stati rilevati tentativi di infiltrazione (sono sufficienti forti sospetti) da parte della criminalità organizzata volti a condizionare le scelte e gli indirizzi dell'impresa coinvolta. A chi viene colpito dall'interdittiva è preclusa ogni possibilità di ottenere contributi, finanziamenti e mutui agevolati, concessi dallo Stato, da altri enti pubblici o dall'Unione europe.Il colosso delle costruzioni ha 400 dipendenti e 1.200 lavoratori al giorno in diversi appalti. Decine di cantieri in pericolo
    Dal Tenda alle opere per la Tav
    L'azienda: "Noi vittime, ora il ricorso"
    massimiliano peggio
    Alle otto di sera Cogefa annuncia: «Abbiamo già avviato tutte le azioni necessarie per impugnare il provvedimento emesso dalla Prefettura e richiedere la sospensiva presso il Tar per difendere la nostra reputazione e il futuro di dipendenti e collaboratori. Nonché per garantire la continuità delle attività aziendali e la corretta esecuzione delle commesse».
    Il tema è ampio e delicato. Cogefa è un colosso con 400 dipendenti diretti e 1200 lavoratori al giorno distribuiti nei vari appalti. In ballo ci sono (oltre agli appalti diretti) anche le partecipazioni ai consorzi di impresa in molti lavori pubblici. Uno per tutti al col di Tenda, dove l'appaltatore è Edilmaco. Oppure gli interventi al Moncenisio (tanto per fare due esempi): è possibile che anch'essi si debbano fermare. Commenta l'avvocato dell'azienda, Carlo Merani: «Cogefa in questo caso è una vittima. E il paradosso è che invece di aiutarla viene punita. Dico questo perché è la stessa Prefettura a scrivere nel documento che c'è la possibilità che l'azienda subisca, ripeto subisca, dei possibili tentativi di infiltrazione mafiosa». Nasce da qui, «la necessità» di presentare rapidamente il ricorso con la richiesta di sospensiva. Nel frattempo, però, ruspe e cantieri si fermano. Anche nelle opere dei privati, quelli che adottano per le assegnazioni gli stessi criteri degli enti pubblici.
    Ma cos'è Cogefa? È la testa di un impero che si occupa di grandi costruzioni, opere di rilevanza strategica: una produzione economica (a fine 2023) di oltre 214 milioni di euro. Seguendo le orme di partecipazioni e alleanze imprenditoriali si va dagli interventi complementari del traforo ferroviario della Torino Lione, al cantiere del nuovo tunnel del colle di Tenda, fino alla progettazione e realizzazione dei lavori di ottimizzazione della Torino-Milano con la viabilità locale.
    Il nome Cogefa emerge tra la opere collegate al cantiere Tav. È infatti nel raggruppamento di imprese che deve costruire l'impianto per il riutilizzo del materiale di scavo proveniente dal traforo ferroviario. Valore dell'intervento: oltre 648 milioni di euro.
    Il valore delle partecipazioni che fanno capo alla Cogefa supera i 6 milioni di euro. Tramite questo reticolato di società, si arriva a un altro tunnel, quello Cuneese, forse il più sfortunato. Quello del Colle di Tenda. Prima colpito dalla risoluzione del rapporto con il precedente appaltatore per clamorose magagne strutturali, poi le inchieste giudiziarie - che nulla hanno a vedere con l'attuale interdittiva antimafia - e infine l'alluvione dell'ottobre 2020. La Cogefa è collegata a quel cantiere tramite il Consorzio Edilmaco, di cui possiede il 50%. Ed è frutto di un tandem con un altro colosso delle costruzioni, la Mattioda Spa: è subentrato nell'appalto integrato per la «progettazione e l'esecuzione dei lavori del nuovo tunnel». Intervento problematico: l'alluvione di 4 anni fa ha distrutto il cantiere. Difficoltà così invasive da essere annotate nel bilancio societario. Di pregio anche la partecipazione alla società Alfa Batiment Sarl, nel Principato di Monaco, che realizza stabili di lusso. Tra le altre opere c'è palazzo Bernini a Torino.
  10. QUANDO C'ERA LA SOPRAELEVATA NON SUCCEDEVA, MA INTERESSI EDILIZI LA HANNO ELIMINATA:  Girone Baldissera
    pier francesco caracciolo
    Trenta minuti per percorrere un chilometro. Tanto ci hanno messo ieri mattina gli automobilisti di passaggio in piazza Baldissera, intricato snodo del quadrante Nord-Ovest di Torino. Il maltempo, che ha aumentato il numero di vetture in strada, sommato alla chiusura di due vie della zona, bloccate per la presenza di altrettanti cantieri: è nata così la "tempesta perfetta", che si è materializzata con code che, in corso Venezia, hanno raggiunto i tre chilometri di lunghezza.
    Il picco del traffico si è registrato tra le 8 e le 9, 30, quando centinaia di torinesi erano diretti a scuola o sul posto di lavoro. Gli agenti di quattro pattuglie della polizia municipale sono intervenuti per dirigere il voluminoso flusso di auto, riuscendo però solo a limitare i danni.
    Nel filmato girato da Carmela Ventra, consigliera in Circoscrizione 5, la coda di veicoli si perde all'orizzonte, sia in un senso di marcia che nell'altro. Il suono dei clacson delle vetture imbottigliate e la sirena di un'ambulanza impegnata a destreggiarsi tra i veicoli fanno da sottofondo al video. Il cuore dell'ingorgo, neanche a dirlo, è proprio la rotonda, dove le auto sono ferme una dietro l'altra.
    «Trentacinque minuti buttati e in ritardo sulla tabella di marcia già di prima mattina» scrive sui social Valerio Lomanto, presidente della Circoscrizione 6, rimasto imbottigliato nel traffico. A essere rallentati, oltre alle auto, i mezzi pubblici: «Sono rimasta un'ora alla fermata per portare mio figlio a scuola: inammissibile» scrive una mamma. «Oggi (ieri, ndr) tutta Torino ovest è bloccata» aggiunge Enrico Sola, automobilista. Ad essere chiuso al traffico, ieri mattina, uno dei controviali di corso Venezia, bloccato dal 16 settembre per un quadruplo intervento sulle condotte sotterranee. Interdetto alle auto, da lunedì scorso, anche l'imbocco di via Chiesa della Salute, che da piazza Baldissera dista 150 metri.
    Gli automobilisti dovranno convivere con l'attuale rotonda Baldissera, dove oggi passano cinquemila auto ogni ora, almeno fino all'inizio del prossimo anno. Entro la fine del 2024 il Comune metterà a bando i lavori per il restyling della piazza, finalizzati a snellire il traffico. I cantieri partiranno nel primo trimestre del 2025, con l'obiettivo di chiuderli in tredici mesi (dunque nel 2026). L'operazione costerà 7,5 milioni di euro, finanziata per 4,5 milioni con fondi della Città e per 3 milioni con le risorse assegnate dal Pn Metro Plus.
    Il progetto del Comune prevede di sostituire la rotatoria con un incrocio regolato da sei semafori. Il piano d'intervento contempla anche il ripristino dell'impianto tranviario (la linea 10) già presente lungo le vie Cecchi, Chiesa della Salute e Bibiana (il servizio sarà riattivato anche tra piazza Statuto e via Massari, dove oggi viene effettuato con autobus).
    La gestione dell'incrocio avverrà in modo dinamico, vale a dire con semafori intelligenti, in grado leggere in tempo reale i flussi di auto, pedoni e ciclisti e accendere le lampade rossa e verde di conseguenza. Ogni carreggiata, poi, sarà dotata di una corsia diretta a destra, per consentire di effettuare la manovra di svolta a monte dell'intersezione, senza dover impegnare l'incrocio.
    Nei prossimi mesi la Città si muoverà per illustrare ai torinesi i dettagli del cantiere. «Prima dell'inizio dei lavori convocheremo una serie di incontri pubblici» spiega Chiara Foglietta, assessora alla Viabilità. Saranno coinvolte, aggiunge l'assessora, le quattro Circoscrizioni il cui territorio ricade nella zona di piazza Baldissera (sono la Quattro, la Cinque, la Sei e la Sette). «Come sta avvenendo in questi mesi in via Po, non ci sarà mai una chiusura totale al traffico della zona – aggiunge Foglietta, con riferimento a piazza Baldissera – Si procederà per lotti, così da ridurre i disagi per gli automobilisti».
  11. TRIBUNALE INGIUSTO: Si spacca le vertebre a lavoro, per il pm il caso va archiviato: Cgil, Cisl e Uil contro la decisione
    La solidarietà dei sindacati all'operaio " Serve giustizia per Massimo Fasolio
    "
    Giovanni Turi
    «Serve giustizia per Massimo Fasolio. La responsabilità non è sua come singolo lavoratore che si è infortunato, ma di chi ha organizzato il processo di lavoro, indipendentemente dal contratto». Non le manda a dire il segretario generale della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo. I toni dei sindacati provinciali e regionali sono amareggiati. Ma anche di denuncia. Rimuginano e non accettano la storia di Fasolio, ex operaio metalmeccanico, oggi 61enne, che si è fratturato le vertebre sollevando pacchi a mano da 25 e 50 chili, inerme davanti alla richiesta della procura di Torino di archiviare il caso come infortunio sul lavoro.
    Una vicenda anticipata che porta a poche, dure conclusioni. Come quella della segretaria della Cisl Torino-Canavese, Cristina Maccari: «Valgono più i sacchi di paraffina della salute di un lavoratore. Un contratto di somministrazione di una settimana a 8 euro all'ora non guarda in faccia a nessuno, anzi rende chiunque ricattabile».
    Era questa la condizione di Fasolio: disoccupato da sei anni, alla prima chiamata dell'agenzia per il lavoro ha risposto subito presente. «Non poteva dire di no – continua Airaudo – Non aveva alternative. La precarietà sommata alle misure del governo sta portando a una stagionalità perenne. Se poi ai contratti dalla durata di pochi giorni, che rendono i lavoratori invisibili, aggiungiamo l'inadeguatezza dei salari italiani si arriva a episodi come questi». Duro anche il segretario della Uil Torino e Piemonte, Gianni Cortese. «Le aziende dovrebbero fare formazione e prevenire queste situazioni – spiega –Laddove non è possibile, servono più controlli. Anche se oggi la possibilità di un'ispezione sul luogo di lavoro è sotto il 5%, viste le carenze di organico tra gli ispettori». Poi, scandagliando la vicenda di Fasolio, aggiunge: «C'è una responsabilità dell'azienda – dice – Si ravvisa un'assenza degli ausili al sollevamento dei pesi, il che è anacronistico in un periodo in cui si parla di intelligenza artificiale e tecnologie che alleggeriscono il lavoro manuale». Si accoda Maccari che sottolinea come «il lavoratore non può auto valutarsi le condizioni di salute. Non comprendo la scelta della procura per cui l'operaio avrebbe dovuto dire di no. E poi le valutazioni sull'idoneità dovrebbero passare da un medico».
    Sulle denunce d'infortunio in Piemonte, gli ultimi dati Inail danno uno spaccato chiaro: nei primi 8 mesi del 2024 se ne contano 28. 328, +2, 6% rispetto all'anno precedente. Chiosa Federico Bellono, segretario generale della Cgil di Torino: «Questa sentenza non ci soddisfa e auspichiamo che il ricorso del lavoratore, a cui va la nostra solidarietà, venga accolto – sostiene – Ma il problema non è nei tribunali, ma fuori dalle aule di giustizia. Le persone sono sotto ricatto, hanno paura di perdere il lavoro e mantenerlo è più importante della tutela della propria salute. Ormai siamo di fronte a un sistema che mette al centro il profitto a ogni costo». —
  12. BANCOMAT ANTI AMBIENTE : «Indietro non si torna». Il progetto di mobilità sostenibile «A piedi tra le nuvole», tra Ceresole e il Colle del Nivolet, con tutta probabilità sarà definitivamente archiviato.
    Lo stop dell'estate appena trascorsa, voluto dall'Ente parco Gran Paradiso, potrebbe risultare propedeutico a una mezza rivoluzione, proprio come aveva anticipato, qualche mese fa, il direttore del Parco, Bruno Bassano. Rivoluzione che potrebbe passare (anche) dall'istituzione di un «pedaggio ambientale» per chi sceglie di salire in quota con il proprio mezzo a motore. Un po' quello che succede alle Tre cime di Lavaredo (tra Veneto e Trentino).
    «Per la prima volta in vent'anni, con la riapertura domenicale, abbiamo raccolto dei dati scientifici che a breve illustreremo nel dettaglio - conferma il presidente del Gran Paradiso, Mauro Durbano - presenteremo una proposta di regolamentazione organica del traffico verso il colle del Nivolet, valida tutti i giorni d'estate e non solo la domenica e i festivi».
    Negli ultimi due decenni, «A piedi tra le nuvole» ha visto la chiusura domenicale della provinciale 50 che dalla diga del Serrù si arrampica fino ai 2640 metri di quota del colle del Nivolet.
    «Auspichiamo che, dopo la pausa di riflessione di quest'anno, il Parco e il Comune di Ceresole Reale tornino a fare sistema con la Città metropolitana - dice in merito il vicesindaco metropolitano Jacopo Suppo - per salvaguardare, almeno nelle giornate festive dei mesi di luglio e agosto, un patrimonio naturale e un'infrastruttura viaria di grande valore, per la cui salvaguardia il nostro ente da sempre impegna ingenti risorse finanziarie e professionali».
    L'ex provincia, proprietaria della strada, ha ribadito dal canto suo l'impegno a proporre, soprattutto in ambiente montano, alternative alla mobilità motorizzata individuale: «Siamo disponibili ad un confronto per definire per il 2025 nuove modalità di regolamentazione estiva, considerando prioritaria la tutela dell'ambiente alpino ma anche la sicurezza della circolazione». Il confronto sicuramente ci sarà (allargato ai Comuni di Ceresole e Valsavarenche) ma il Parco Gran Paradiso non ha intenzione di fare passi indietro: «Apprezziamo la volontà di dialogare - conferma Durbano - ma questo non significa tornare al passato. Anzi sarà proprio l'occasione per proporre qualcosa di nuovo». Con la possibilità, come detto, di arrivare ad un «pedaggio ambientale» per chi sale in quota, anche solo con il pagamento dei parcheggi (oggi liberi e selvaggi) e l'istituzione di un numero chiuso per evitare gli «assalti» al colle.
    Intanto, da martedì 15 ottobre, per la provinciale 50 del Nivolet è iniziato il periodo di chiusura invernale che terminerà, neve permettendo, il 15 maggio del prossimo anno. Ci sono più di sei mesi per trovare una quadra in vista della prossima estate. —

 

 

17.10.24
  1. L'intervento
    Flavia Perina
    Multato perché invoca la pace La libertà vittima dell'eccesso di zelo
    «Quando ho messo lo striscione sul mio banco di miele ho pensato che non potevo più separare la mia attività lavorativa da una battaglia che sento urgente: quella per il ripristino dei diritti dei civili a Gaza. Così mi sono detto: perderò qualche cliente ma lo preferisco all'essere indifferente». Marco Borella ha 42 anni, è un apicoltore ed educatore comasco. Due giorni fa, davanti al suo banco al mercato di Desio dove vende il miele della sua azienda agricola, sono arrivati i Carabinieri che gli hanno fatto un verbale da 430 euro per aver esposto ed essersi rifiutato di rimuovere un cartello con la scritta "Stop bombing Gaza. Stop genocide".
    l1Lei si occupa di api. Cosa c'entra Gaza?
    «Per me non c'è giustizia ambientale senza giustizia sociale. I due temi non sono separati. Le api sono politica, esattamente come lo è lo smaltimento dei rifiuti, i trasporti. E a proposito di rifiuti, per ripulire Gaza ci vorranno anni».
    l2Come si è sentito quando sono arrivati i Carabinieri?
    «Ho cercato di rimanere tranquillo ma ero agitato. Sentivo di stare subendo un'ingiustizia. Ma ho spiegato le mie ragioni ai militari. Sarebbe stato ipocrita rimuovere lo striscione per quieto vivere».
    l3Perché la contestazione solo adesso, visto che lo striscione lo espone da due mesi?
    «Non so chi ha fatto la segnalazione alle forze dell'ordine. Non so se c'è un mandante politico. Mi hanno detto che qualcuno si è sentito offeso dal contenuto dello cartello. In ogni caso, non conteneva insulti, né incitamento all'odio. Per cui la contestazione (commi 1 e 11 del codice della strada, ndr) è per aver esposto un cartello che "distrae gli automobilisti". Ma il banco non guarda la strada».
    l4Cosa farà con il verbale?
    «Farò ricorso. Mi sono rivolto a un avvocato e finché non ci sarà la pronuncia non pagherò».
    l5Cosa pensa il suo legale?
    «Mi ha detto di star tranquillo. In ogni caso, il livello di intollerabilità della situazione in Palestina è a un livello tale che non potevo più stare zitto». —
  2. Siamo certi che sia solo eccesso di zelo la multa di 430 euro comminata dai carabinieri di Desio, Brianza, all'apicoltore Marco Borella che da mesi espone sul suo banco un cartello con due frasi in favore di Gaza: "Stop bombing" e "Stop genocide". Siamo certi che gli arriveranno le scuse, e ovviamente la rottamazione del verbale, e l'affetto delle organizzazioni agricole grandi e piccole, e le rassicurazioni della politica. Tranquillo, è stato un equivoco, Stop Bombing si può dire. Mica siamo a Kabul. Da noi ogni cosa che non sia un insulto o una minaccia si può dire, soprattutto se si dice a volto scoperto, senza bastoni, e per di più accompagnata dalla gentilezza del miele.
    Al momento non è ancora successo, ma siamo sicuri che succederà. Viviamo nell'Italia dell'Articolo 21, "tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", una frase che scolpisce il divieto di perseguire le opinioni per qualsiasi motivo, compresa (come è immaginabile sia successo a Desio) la protesta di chi non è d'accordo. E per di più siamo l'Italia che ama le api e gli apicoltori, ne ha fatto un tema anche politico, e pure sullo Stop Bombing, la fine dei bombardamenti sui civili di Gaza, la tregua, si è espressa ripetutamente ai massimi livelli, e anche se fosse stato il contrario: ma davvero può costituire un fastidio politico un cartello su una bancarella?
    Ecco, vorremmo che questa vicenda – dopo le scuse, la solidarietà, l'affetto – aiutasse anche a capire quanto l'eccesso di zelo può risultare irritante e dannoso per le istituzioni, ovunque. Irritante perché affoga nei verbali di caserma gli ultimi sprazzi di sogno personale, giusto o sbagliato che sia, chissà come sopravvissuti alla cultura dei social e dei reality. Borella, con la sua cooperativa tra i due rami del Lago di Como, la sua scelta di vita inconsueta – le api come simbolo di amore per il territorio e le relazioni umane – è uno degli imprevedibili romantici prodotti da una società che va da un'altra parte. Erano milioni ai tempi di Seattle e della Via Campesina, incendiarono le piazze no-global e poi sparirono, sconfitti da modelli più forti di loro. Non basta? Pure la multa agli ultimi giapponesi di quel tipo di scelta?
    Poi c'è il danno reputazionale, e anche quello non va sottovalutato. Una istituzione è forte quando usa la mano pesante con i più grossi, non con i piccoli, gli isolati, quelli che lanciano un messaggio con un cartello in un mercatino agricolo. E di grandi e grossi nella questione delle guerre ce ne sono tantissimi, parlano di odio, ritorsione e annientamento a milioni di persone. Attraverso i social incitano all'antisemitismo e alla violenza, diffondono notizie false, talvolta lavorano al servizio di autentiche centrali di disinformazione che minacciano le nostre democrazie. Nei loro confronti, anche in virtù della libertà di espressione, poco o nulla si è potuto fare ma è surreale che gli stessi principi che rendono incensurabile e inattaccabile il web non valgano per quattro parole scritte a mano in una piazza di paese.
    Sì, siamo sicuri che sia solo eccesso di zelo. Altri motivi non vengono in mente, sfugge pure quello della pubblica sicurezza (che avrà il suo da fare con le manifestazioni annunciate contro la multa) e dunque: stracciare in fretta quella multa, finirla lì prima possibile.
  3. "Sollevando pacchi mi sono rotto la schiena per i pm il caso va chiuso ma io voglio giustizia"
    Massimo Fasolio
    "
    elisa sola
    torino
    «Mi chiamo Massimo e sono un operaio. Ho 61 anni. E 34 di contributi. Ho passato la vita in fabbrica. Con turni di giorno e di notte. In catena di montaggio e in magazzino. Ma dal 2000 in poi le aziende in cui sono stato mi hanno lasciato a casa. Hanno chiuso o sono fallite. Mi sono sempre dato da fare. Ho mandato migliaia di curriculum. Solo che alla mia età non ti vuole più nessuno. Il giorno in cui mi sono spaccato le vertebre non me ne sono accorto subito. Ero disoccupato da sei anni. Mi hanno offerto un contratto di una settimana per otto euro lordi l'ora. Ero felice. Il primo giorno mi hanno messo a scaricare pacchi di paraffina da 50 chili. L'ho fatto per otto ore. Sono tornato a casa e mi sono seduto sul divano. Ho sentito delle scosse alla schiena. Da allora non sono più riuscito ad alzarmi per tre mesi». Massimo Fasolio non lavora dal 6 giugno del 2022. È stato il primo e l'ultimo giorno del suo ritorno in fabbrica. Addetto alla catena di montaggio, la mansione prevista. Lui ha fatto ciò che gli hanno chiesto. La frattura delle vertebre lo ha costretto a stare immobile, con il busto, per tre mesi. La procura di Torino ha chiesto l'archiviazione dell'infortunio sul lavoro perché «non è stato possibile risalire all'autore del reato, ben potendo il lavoratore rifiutare di effettuare le lamentate prestazioni di carico e scarico». L'avvocato Guido Anetrini, che assiste Fasolo, si è opposto alla richiesta, sulla quale deciderà il gup. «Siamo di fronte a una deriva dei diritti dei lavoratori che ci conduce verso il baratro - afferma il legale - eppure, e lo dico da liberale, la nostra Repubblica è fondata sul lavoro. Non può essere condiviso l'assunto per cui l'operaio avrebbe dovuto rifiutarsi».
    Fasolio, come sta?
    «Ho ancora mal di schiena».
    Dopo due anni dall'incidente?
    «Sì. Certi giorni quelle scosse le sento ancora. Ma non è quello il punto. Non voglio lamentarmi. Io vorrei lavorare. Non mi sono mai tirato indietro davanti a nessuna fatica nella mia vita».
    Lei ha sempre fatto l'operaio?
    «Sì. Sono stato in aziende metalmeccaniche. Dal 1983 al 2000 alle Fonderie Roz di Borgo San Paolo. Poi a Grugliasco. Ero operaio addetto ai trattamenti termici in catena di montaggio. La ditta è fallita nel 2013. Ci hanno messi in cassa integrazione, poi lasciati a casa».
    Come ha fatto a mantenersi, senza uno stipendio?
    «Ho preso il porto d'armi e ho fatto la guardia giurata. Giravo di notte nelle stesse fabbriche che mi avevano dato il lavoro e che erano ormai chiuse. Per mille euro e cinquanta al mese. Ho aperto e chiuso un'enoteca. Sono rimasto a casa, disoccupato, durante gli ultimi anni. Mandavo migliaia di curriculum e nessuno mi chiamava».
    Secondo lei perché?
    «Perché ero vecchio. Per loro. Non per me. Un giorno l'addetta di un'agenzia interinale me lo ha proprio detto. Avevo appena finito un colloquio, era andato bene. E ha aggiunto: Lei è piaciuto, ma sa, è per l'età... Eppure io non mi sono mai tirato indietro. A 14 anni lavoravo già, al bar della vecchia stazione di Porta Susa».
    Come ha fatto a resistere, economicamente?
    «È stato grazie a mio fratello che non sono finito in mezzo a una strada. Ha un posto fisso all'Iveco. Non vivo da solo ma con lui, nella stessa casa. Quando io non guadagnavo faceva lui la spesa e mangiavamo in due».
    Come ricorda il giorno dell'incidente?
    «Ero contento perché erano anni che nessuno mi chiamava. Mi hanno chiamato alle 10,30. Mi hanno chiesto due cose: se avevo le scarpe antinfortunistiche e se potevo iniziare alle 13. Ho detto sì».
    E poi cosa è successo?
    «Appena arrivato, con altri, ci hanno portato in una specie di capannone. C'era un Tir pieno di paraffina. Stavano aprendo il portellone dietro. E c'era da scaricare i pacchi. Uno più vecchio di me non lo ha fatto, perché non ce la faceva. Io ho iniziato con quelli da 25 chili. E poi con quelli da 50. Erano tonnellate di roba. Molto pesanti. Finito il turno sono andato in agenzia a firmare il contratto e sono tornato a casa. Ero felice».
    Era un contratto di una sola settimana?
    «Sì. Ma è normale nel nostro mondo. A volte ti fanno contratti da uno o due giorni».
    Cosa pensa della richiesta di archiviazione del suo infortunio?
    «Ci sono rimasto molto male. Ho ricevuto la raccomandata una mattina. Erano mesi che nessuno mi diceva più niente. Ho pensato che non era una cosa giusta. E sono andato da un avvocato. Io ho sempre lavorato e rispettato tutti. Non mi sono mai tirato indietro. E quel giorno non potevo rifiutarmi. So di essere nella ragione. Se fossi andato via, mi avrebbero accusato di non avere terminato il lavoro».
    Cosa si aspetta adesso?
    «Giustizia. Un risarcimento per la mia schiena e per il male che ancora ho. Penso alla pensione. Chissà se ci arriverò. Devo arrivare a 67 anni. Cosa avrei dovuto fare, più di così, non lo so. Mi sono fatto male lavorando. E se penso a quante volte ho rischiato, in fabbrica. Anni fa ci facevano salire su dieci pedane, una sopra l'altra, per raggiungere un silos. È tutto il sistema della sicurezza che non va. In Italia non esiste e non funziona». —

 

 

16.10.24
  1. Consulenze a Ernst & Young "Truccate le gare d'appalto"
    Dodici gare della Regione Lombardia truccate per 10 milioni di euro. Sei consulenti EY – anche in ruoli apicali nella compagine italiana del colosso – sono indagati dalla procura europea per turbativa d'asta. Per questo, la Gdf ha perquisito gli uffici milanesi e romani della società, ma anche le postazioni di alcuni consulenti in Regione, mentre i pm hanno sentito alcuni dipendenti dell'ente. Per l'accusa, EY si sarebbe aggiudicata le gare al centro delle indagini presentando le candidature degli «stessi gruppi di consulenti» con una «sovrapposizione di incarichi» tale da sommare una «quantità di ore di lavoro superiori a quelle che possono essere realizzate in un mese» da ognuno di loro. Si tratta di appalti, finanziati dal Fondo sociale europeo (Fse) e dal Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) tra il 2019 e il 2023. Progetti che miravano a seguire l'ente nell'intera gestione dei fondi, dall' assistenza tecnica ai corsi di formazione. Per i pm, la Regione è parte offesa, ma le indagini vogliono escludere eventuali responsabilità. «Esamineremo con attenzione quello di cui si parla e poi faremo valutazioni», è il commento del governatore Attilio Fontana.
  2. Nel mirino della Guardia di finanza i bandi gestiti dagli uffici sia dell'Interno sia della Difesa Sono diciotto le persone indagate: "Un giro di mazzette per pilotare le forniture informatiche"
    "Tangenti nei ministeri" Arrestato il dg di Sogei indagato l'uomo di Musk
    irene famà
    roma
    I lavori con il colosso SpaceX, l'azienda aerospaziale statunitense fondata da Elon Musk, e la gara da 180 milioni per la ristrutturazione della rete del comparto della Difesa. E ancora. La gara per le licenze software dei server Natanix, all'avanguardia della tecnologia di cloud. Ecco. Per raccontare «l'articolato sistema corruttivo» smascherato da un'inchiesta della procura di Roma bisogna partire da qui. Dai bandi finiti al vaglio degli inquirenti e dai personaggi coinvolti. Arrestato Paolino Iorio, direttore generale di Sogei, la società che si occupa della gestione dei servizi informatici della pubblica amministrazione controllata al 100% dal ministero dell'Economia. Il manager è stato fermato lunedì sera mentre intascava una mazzetta da 15 mila euro. Denaro in contanti, chiuso in una busta, appena consegnato dall'imprenditore Massimo Rossi, pure lui finito ai domiciliari.
    Indagati in diciotto, con reati che spaziano dalla corruzione alla turbativa d'asta, e quattordici società, di cui due quotate in Borsa, Olidata e Digital Value. Tra gli altri Andrea Stroppa, classe '94, referente di Elon Musk in Italia, che in questa storia avrebbe pure potuto consultare un documento riservatissimo della Farnesina in cui si valutava l'utilizzo delle tecnologie satellitari fornite dal dall'azienda americana SpaceX. Nell'elenco anche Antonio Angelo Masala, ufficiale della Marina distaccato presso il VI Reparto Sistemi dello Stato Maggiore della Difesa, e Amato Fusco, dipendente del ministero dell'Interno. E altri personaggi che, a capo di società minori, sono accusati di aver dato copertura contabile ai flussi di denaro utilizzato per pagare le tangenti.
    «Un sistema corruttivo con ramificazioni sia all'interno del ministero della Difesa, sia in Sogei, sia al ministero dell'Interno», è scritto negli atti. I finanzieri del Comando provinciale di Roma e del nucleo speciale polizia valutaria hanno intercettato flussi finanziari anomali tra alcuni imprenditori e dirigenti. Scattano le intercettazioni telefoniche e ambientali e il numero uno di Sogei in auto parla da solo, si racconta, si "confessa".
    Personaggio chiave, in questa vicenda, è Massimo Rossi, dominus di un gruppo temporaneo di impresa. È lui, secondo la procura di Roma diretta da Francesco Lo Voi, a creare relazioni, tenere i contatti, far girare i soldi. E tra le varie gare e i vari appalti ci si aggira intorno ai 300 milioni di euro.
    Con il manager Iorio, dal novembre 2023 si incontrano due volte al mese per scambiarsi decine di migliaia di euro. Rossi vuole favorire le imprese legate a lui, alla sua famiglia e ai suoi amici. Così paga. E con Sogei avrebbe stipulato «una serie di contratti» per un valore complessivo di oltre cento milioni. In particolare: «Sogei spa si è impegnata ad acquistare prodotti e servizi forniti da Italware srl per 98.617.126,37 euro e da Itd Solution spa per 5.772.010,11».
    Sogei, in una nota, «esprime piena fiducia nella magistratura, a cui sta prestando totale supporto», e si dichiara indiscutibilmente estranea ai fatti. «Se questi fossero acclarati in maniera definitiva l'azienda si dichiarerà parte lesa e si tutelerà nelle sedi competenti».
    Denaro, potere, influenze, contatti sono sullo sfondo di questa vicenda complessa. Un esempio è il caso che riguarda SpaceX. L'ufficiale della Marina viene a scoprire il progetto del governo di acquistare il sistema satellitare» Starlink. Lo scorso 29 agosto è in riunione e attorno al tavolo si valuta «il progetto finalizzato all'impiego, con scopi militari prima e dual use dopo, delle tecnologie satellitari fornite dall'azienda americana». Così aggancia Stroppa. Gli invia anche un «documento riservato redatto a margine della riunione». Gli propone una sorta di collaborazione: lui assicura informazioni confidenziali, «in cambio accetta la promessa da Stroppa della conclusione di un contratto di fornitura tra Spacex e Olidata spa», nota società di informatica. «Questa vicenda - si legge negli atti - è sintomatica di un accordo concluso, o in corso di conclusione, al fine di far beneficiare Olidata Spa degli affari del gruppo statunitense». E dalla Farnesina precisano: «Non si tratterebbe di un documento "riservato" secondo la classificazione di legge della documentazione "riservata" e "segreta". Dovrebbe trattarsi di un documento interno, un elenco di necessità espresse dal ministero (il numero delle ambasciate e consolati) da collegare al sistema se eventualmente fosse andata avanti la procedura».
    Stroppa affida una replica ai social: a un utente che su X gli chiede: «Puoi rispondere alle accuse che ti riguardano?», lui risponde: «Certo, non vedo l'ora». —
  3. Valentina Patrignani , sposata con l'ufficiale di Marina Antonio Masala, deteneva azioni in Olidata per tre milioni di euro
    Soci occulti attraverso mogli e compagne Così il sistema faceva affari anche in Borsa

    roma
    C'è un nome che torna nei vari appalti finiti al centro dell'inchiesta della procura di Roma. Ed è quello di Olidata spa, società di informatica quotata in borsa. Centrale, a quanto emerge dagli atti, per comprendere questo giro di appalti truccati, denaro e interessi. L'ufficiale di Marina Antonio Masala ne era «socio occulto» tramite la moglie Valentina Patrignani, pure lei indagata, «titolare di azioni per oltre tre milioni di euro». Così anche il dipendente del ministero dell'Interno Amato Fusco, che «tramite la compagna era titolare di azioni per 10 mila euro». Così si spiegherebbe almeno parte dell'interesse a inserire Olidata nelle «catene delle vendite».
    Il 30 gennaio 2024, il raggruppamento temporaneo di imprese che fa capo all'imprenditore Massimo Rossi, finito agli arresti domiciliari, si aggiudica l'ampia gara di ristrutturazione delle infrastrutture della rete del comparto della Difesa. E Antonio Masala, «l'Antonio della Difesa» per gli amici d'affari, si muove. Incontra Rossi, fornisce informazioni utili. Poi, «come illecito compenso per l'opera prestata nella gestione della procedura», Olidata spa viene inserita «dalle imprese aggiudicatarie nella catena di vendita con proventi quantificabili in oltre 4 milioni e mezzo».
    Stesso schema sarebbe stato attuato dal dipendente del Viminale e direttore della Centrale dei servizi logistici e della gestione patrimoniale della Polizia di Stato. Ad aprile 2024, il ministero dell'Interno apre la gara per le licenze software per il server Natanix, tecnologia di cloud. Fusco, secondo le accuse, incontra l'imprenditore Rossi. L'affidamento va ad Itd Solution e ad un'altra srl coinvolta nell'indagine. Olidata spa viene inserita nella catena di vendita.
    A febbraio 2024, invece, la stessa gara viene bandita dalla Direzione di Intendenza della Marina Militare. Qui è l'ufficiale Masala che si attiva. Anche qui «otterrà» dei favori. «Riceverà - si legge negli atti - un'indebita utilità attraverso partecipazioni occulte a società formalmente riferibili alla moglie».
    Olidata spa, che vede indagato il rappresentante legale Cristiano Rufini, torna anche nella questione di Spacex. L'ufficiale di Marina contatta l'uomo di Elon Musk in Italia, gli assicura informazioni utili. In cambio? «Un contratto di fornitura con Olidata».
    Lo Stato Maggiore della Difesa assicura «il massimo supporto alle autorità inquirenti». E aggiunge: «I presunti comportamenti per i quali si indaga non sono certamente compatibili con i valori e i principi fondanti delle Forze Armate italiane».
    Borsa Italiana comunica che da oggi, fino a successivo provvedimento sulle azioni ordinarie, a Digital Value spa e Olidata spa non sarà consentita l'immissione di ordini senza limite di prezzo. I titoli ieri hanno chiuso rispettivamente in calo del 10,46% e del 13,33%, dopo che le sedi delle due società sono state perquisite per le ipotesi di corruzione e turbata libertà degli incanti nell'ambito di diverse procedure di appalto e affidamento in materia di informatica e telecomunicazioni, bandite da Sogei, dal ministero dell'Interno-Dipartimento della Pubblica sicurezza, dal ministero della Difesa e dallo Stato maggiore della Difesa.
    L'inchiesta prosegue. I finanzieri del Comando provinciale di Roma e del Nucleo speciale polizia valutaria, a casa e negli uffici degli indagati e delle società, hanno sequestrato tablet, smartphone, computer, pennette usb e documentazione di ogni tipo, digitale e cartacea, per ricostruire i flussi finanziari delle operazioni finite nell'indagine. Al vaglio le fatture relative alle operazioni considerate inesistenti, i contratti e i bilanci. Si analizzano i conti. Mentre nelle chat, in particolare WhatsApp e Telegram, e nelle email si cercano le parole chiave. Va da sé i nomi delle società e delle persone indagate, soprannomi compresi come «Cr7» o «biondina». C'è pure la ricerca «AS Roma»: tra le utilità promesse in cambio di favori potrebbero risultare anche i biglietti per le partite di calcio.
  4. il retroscena
    Poche ore prima del blitz degli inquirenti aveva preannunciato che i "poteri forti" erano in azione A Palazzo Chigi scattano le verifiche sul 31 enne che lavorava con il governo all'accordo Starlink
    Stroppa, l'ex hacker evoca complotti "Vogliono fermare Elon e Giorgia"

    ilario lombardo
    roma
    «Giorgia Meloni capisce che il futuro è questo. Coinvolgendo le aziende italiane si creano lavoro e investimenti, con Starlink si connettono i cittadini e le Pmi fuori dai grandi centri abitati. Chi prova a ostacolarla dovrebbe vergognarsi». Alle tre e quaranta di pomeriggio del 13 ottobre, Andrea Stroppa scrive questo tweet su X, il social di proprietà di Elon Musk, suo mito, suo mentore, suo datore di lavoro. Un follower gli chiede: «Se veramente qualcuno si sta opponendo, sarebbe bene chiamarli pubblicamente a renderne conto». «Se sarà necessario –è la risposta – al momento giusto». È come se Stroppa sapesse qualcosa e volesse anticiparlo. Poche ore dopo, alle sette e mezza di sera, diventa ancora più esplicito: «Stiamo lavorando per far diventare Italia grande partner di SpaceX. Qualcuno – anche nei palazzi – sta provando a fermarci. Fate sentire la vostra voce! ». Passano solo venti ore da questo sfogo, e scatterà il blitz della Guardia di Finanza: così si verrà a sapere che Stroppa è indagato dalla procura di Roma. Senza mai staccare le dita da X, lui non si scompone, dice di non vedere l'ora di rispondere sulle accuse dei pm, e ripubblica, autocitandosi, il suo tweet, con un'aggiunta: « "Qualcuno sta provando a fermarci". Un giorno scriverò un libro». Segue faccina che ride.
    I palazzi. I poteri forti. Meloni tirata in ballo come vittima predestinata di un complotto. Trame evocate, ma senza nessun nome. Sembra il calco di uno dei tanti discorsi della premier in questi primi due anni di governo, sempre prontamente rilanciati nelle batterie delle dichiarazioni dei parlamentari di FdI, nei quali Meloni ha adombrato cospirazioni e intrighi ai suoi danni, senza mai portare una prova. La magistratura sospettata di muoversi per fini politici diventa così il naturale bersaglio della destra che governa e dei suoi principali sponsor. Lo fa Elon Musk in difesa di Matteo Salvini, imputato per aver tenuto in mare un barcone pieno di migranti. E lo fa Andrea Stroppa appena entrano in gioco gli interessi di Musk.
    Meloni è in Senato quando la notizia dell'inchiesta Sogei diventa pubblica. Le girano i primi articoli. A Palazzo Chigi scatta l'allarme per verificare ingressi e contatti con Stroppa, l'uomo che sta trattando l'accordo con il governo per integrare il sistema satellitare di Musk, Starlink, alla rete della banda ultralarga. La sua biografia racconta l'ascesa rapida di un ragazzo di trentuno anni di Torpignattara, prima periferia romana, cespuglio di capelli disordinato, spesso vestito in tuta Adidas, un hacker, un classico nerd che prima della guerra in Ucraina coltivava relazioni con pirati informatici russi, cooptato dalla politica, esperto di cybersecurity per Matteo Renzi nel 2017 (scoperto dall'amico e appassionato del settore Marco Carrai), diventato poi il braccio operativo di Musk in Italia, «referente della multinazionale SpaceX» scrivono i magistrati. Di fatto, un lobbista che sui social si fa chiamare Claudius Nero's Legion, dal nome del generale romano del 200 a. C, e che si muove agevolmente tra i ministeri, con un'interlocuzione costante che si intensifica nell'ultimo anno quando Meloni entra nell'orbita del pianeta Musk. Stroppa è a Palazzo Chigi con il guru sudafricano quando Mister Tesla incontra la premier. È con lui quando viene accolto tra gli applausi come ospite d'onore ad Atreju, la festa annuale di FdI. È con lui alla serata di gala del 23 settembre all'American Council di New York, mentre l'uomo più ricco del mondo siede al tavolo con Meloni dopo averle consegnato il Global Citizenship Award. Quando c'è Musk, c'è Stroppa, colpito come per osmosi dall'infatuazione politica del miliardario per Meloni e per Donald Trump.
    A Palazzo Chigi si minimizza l'imbarazzo ma non si negano le verifiche. La rete di Stroppa si allarga ai ministeri Esteri, Difesa, Interno, Imprese e Made in Italy. La premier chiede che sia il sottosegretario con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano, a occuparsene. Anche perché dalle carte spunta un documento della Farnesina – definito «segreto» dai pm – che un indagato, l'ufficiale della Marina Militare Antonio Masala, ha passato a Stroppa. Il ministero guidato da Antonio Tajani conferma, con una precisazione, però: non si tratta di un documento riservato ma a uso interno. Ed è un elenco di ambasciate e consolati da collegare a Starlink per «migliorare il livello delle comunicazioni di installazioni della presidenza del Consiglio, degli Esteri, della Difesa in aree problematiche, soprattutto nel Mediterraneo». È solo una piccola parte del grande affare che Stroppa esalta quasi quotidianamente su X, e di cui si fa vanto con gli indagati, interessati a entrarci con la società Olidata. Un accordo pubblico-privato che il governo sovranista di Meloni sta accarezzando per colmare i ritardi nei progetti del Pnrr sulla rete ultraveloce, che valgono 6 miliardi di euro. Lo conferma il sottosegretario all'Innovazione tecnologica Alessio Butti che ha ammesso una prima sperimentazione per portare il servizio "space-based" in aree remote, difficilmente raggiungibili dalle infrastrutture terrestri. Le resistenze di Telecom e Open Fiber, gli operatori che gestiscono la rete e che temono l'avanzata di Musk, sembrano ormai superate dalla volontà politica dell'esecutivo. Meloni è decisa ad andare avanti, nonostante i rischi evidenziati dal Pd con un'interrogazione alla premier e al ministro del Made in Italy Adolfo Urso, e con le dichiarazioni rilasciate da Lorenzo Guerini. L'ex ministro della Difesa e presidente del Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui Servizi, a fine settembre, durante gli Stati generali sullo Spazio, ha invitato il governo a riflettere su cosa comporti per la sicurezza dell'Italia affidare a un privato, proprietario di satelliti a bassa quota, i dati dei cittadini

 

15.10.24
  1. 10 ANNI DI PROTEZIONI E SILENZI, obiettivo LIBANO e poi IRAN con gli USA:  Dagli insediamenti a oggi: tutti gli affronti. Oggi consultazioni al Consiglio di sicurezza sul Libano
    Quelle 174 violazioni del diritto internazionale Tel Aviv da dieci anni sfida le Nazioni Unite
    alberto simoni
    corrispondente da washington
    Israel Katz, capo della diplomazia di Gerusalemme, dice che l'87% degli israeliani concorda con la decisione dell'esecutivo di considerare il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres «persona non grata». «Non cambieremo rotta», ha detto su X confermando che la decisione del 3 ottobre è irreversibile.
    La storia delle relazioni fra Onu e Israele tracima di incomprensioni, denunce, schermaglie, scontri e lo Stato ebraico si è sempre sentito bersaglio degli umori dell'Assemblea generale, storicamente più vicina ad abbracciare causa palestinese e discorsi dei leader dell'Olp e poi Anp che si sono avvicendati sul palco.
    Celebre fu quello di Arafat del 13 novembre del 1974, il capo palestinese pronunciò il discorso del «mitra e dell'ulivo». Quest'anno Mahmoud Abbas, che di Arafat è stato successore all'Anp, ha chiesto l'espulsione di Israele dalle Nazioni Unite in un discorso concluso fra gli applausi.
    È in questo clima che il sentimento di avversione di Netanyahu per l'Onu germoglia. «In dieci anni – disse Netanyahu il 27 settembre a Palazzo di Vetro – l'Assemblea ha formalmente denunciato Israele 174 volte, cento volte più che tutte le denunce riservate agli altri Paesi messi insieme, è uno scherzo!». Segno di pregiudizio per gli israeliani, fatti incontrovertibili di alcuni comportamenti imputabili – dal sostegno ai coloni, agli insediamenti, sino ovviamente alla campagna militare a Gaza – a Gerusalemme.
    Per Netanyahu, «l'Onu è uno stagno di odio antisemita e qui si accusa lo stato ebraico di ogni cosa».
    A Palazzo di Vetro solo gli Stati Uniti sono i veri alleati: pronti a bloccare in Consiglio di Sicurezza ogni risoluzione danneggi l'alleato e a prediligere azioni bilaterali per indurre Israele a moderare le sue azioni. Successe così nel maggio del 2021 quando Washington mise il veto a un risoluzione sulla West Bank sostenendo di voler lavorare sul canale privato con Israele.
    Oggi ci saranno consultazioni – in programma da tempo – a porte chiuse in Consiglio di Sicurezza su una risoluzione del 2004 (la 1559) che riguarda la sovranità territoriale del Libano. La sottosegretaria Rosemary DiCarlo riferirà che benché in 20 anni il contesto è mutato, la risoluzione – che già chiedeva il disarmo delle milizie libanesi e non, due anni prima della Risoluzione 1701 (quella che ha rafforzato l'Unifil) – rimane ancora attuale. Non è previsto alcun voto. Il piatto forte, ovvero la riunione d'emergenza chiesta dalla Francia su Unifil, non è ancora in calendario. Si capirà ancora una volta quanto Netanyahu può contare sull'alleato Usa e quanto la comunità internazionale sarà in grado di premere su Israele per fermare l'offensiva. Netanyahu vede Unifil come un ostacolo alla distruzione di Hezbollah, «la quintessenza del terrorismo nel mondo di oggi», disse il 27 ottobre. «Ha tentacoli ovunque e attacca Israele ferocemente da 20 anni. Ora è troppo» aggiunse prima di denunciare che per 18 anni Hezbollah non ha rispettato la risoluzione 1701. Linea condivisa dagli Usa. Che, tuttavia, hanno espresso sabato sera in una telefonata fra Austin e Gallant «profonda preoccupazione» per gli spari sui caschi blu.
    L'Unrwa (Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) è altro terreno di scontro permanente. Per Israele è il veicolo con cui i miliziani di Hamas sfruttano connivenze e copertura internazionale per colpire gli ebrei. L'Onu risponde che non «ci sono sufficienti evidenze» a dimostrare che «il personale Unrwa abbia partecipato» all'eccidio del 7 ottobre.
    Dove l'Onu vede violazioni del diritto internazionale (gli insediamenti nella West Bank, le operazioni a Gaza, l'invasione del Libano, le condizioni dei prigionieri palestinesi per citare solo alcuni casi recenti), Netanyahu fiuta un'ideologia perversa e distorta della realtà e la negazione del diritto di Israele di difendersi sancito dall'articolo 51 della Carta Onu.
    L'Unrwa, dicono gli israeliani citando loro inchieste, ha avuto 30 membri dello staff coinvolti nel 7 ottobre e centinaia di dipendenti hanno gioito per la strage. Nel 2004 Peter Hansen, allora commissario dell'Unrwa disse in un'intervista a una tv canadese: «Sono sicuro ci sono membri di Hamas sul libro paga dell'Onu». Per poi precisare che comunque Hamas è un'organizzazione politica e non solo militare. Ismail Haniyeh era un insegnante pagato da Unrwa, diversi quadri di Hamas sono stati formati in questa struttura. Pistola fumante secondo il Bibi-pensiero del cieco sostegno Onu per i palestinesi. Schermaglie, anche violente. Ma ora gli spari su Unifil aprono nuovi e incerti scenari.
  2. INASCOLTATI : per la soluzione a due stati
    Schlein e Conte: "Israele si fermi ora il governo riconosca la Palestina"
    «Dopo i violenti attacchi dei giorni scorsi alle postazioni Unifil, l'ennesimo sconfinamento di carri armati dell'Idf verso le posizioni delle forze di pace dell'Onu. Netanyahu va fermato, le sue azioni criminali non possono essere più tollerate». Lo ha detto la segretaria del Pd, Elly Schlein, in una nota diffusa ieri. «Il governo italiano riconosca subito lo Stato di Palestina per iniziare a costruire la soluzione dei due popoli, due Stati». Il leader dei 5 Stelle, Giuseppe Conte, dichiara: «Fermiamo la follia di Netanyahu, prendiamo decisioni serie per imporre il cessate il fuoco e la soluzione due popoli due Stati per Israele e Palestina.
  3. Fuoco
    Mamma Fatima
    "
    sulle
    famiglie

    inviato a beirut
    Sama ha tredici mesi e da 28 giorni i medici lottano per salvare il suo viso dalle terribili ustioni che hanno bruciato tutta la parte sinistra. Le medicazioni sono dolorose e quando comincia a piangere, sempre più forte, l'infermiera tira la tenda che chiude la stanzetta al primo piano del reparto ustionati all'Hopital Libanais de Geitaoui, un quartiere cristiano di Beirut, non lontano dal porto. È sdraiata su un fianco, con il suo pannolino, gli occhi spalancati, i capelli castani tirati da un lato, la fronte e la guancia bucherellate da macchie rosse, che devono rimarginarsi nel modo giusto. L'infermiera tira meglio la tenda, fino in fondo.
    Sarà una lunga lotta, ma almeno Sama non rischia la vita e non l'ha persa, come tanti nel suo villaggio. L'ospedale è nuovo, luccicante. Una struttura privata, pulitissimo, con aria condizionata, cartelli in inglese e arabo, le pareti in granito grigio, nitide come specchi. L'hanno ricostruito dopo la terribile esplosione del 4 agosto 2020, che ha devastato la parte bassa del quartiere, la più esposta all'onda d'urto. Le cure sono costose, e solo chi ha una buona assicurazione può permettersele. Ora però è diverso. C'è la guerra, e dal Sud continuano ad affluire feriti, soprattutto ustionati. Gente che non ha più nulla e viene curata gratis.
    «Eravamo sulla veranda, io e mio marito, i suoi amici», racconta Fatima, la mamma di Sama. Ha 36 anni, il velo nero ricamato ai bordi che le cinge il volto e copre i capelli e le spalle. Indossa una maglietta nera e pantaloni dello stesso colore, forse troppo attillati per una donna del Sud sciita. Glieli hanno regalati perché ha perso tutto nel bombardamento del suo villaggio, Deir al-Qanoun. «Abbiamo visto esplodere la casa di fronte – continua – così, di colpo, senza sentire nulla prima. Le bambine erano scese nel cortile e hanno preso la botta in pieno, non le vedevo più per il fumo, io e mio marito eravamo per terra, ma illesi, poi ho visto la plastica che copriva la veranda prendere fuoco». Si mette a piangere. Poi, dal telefonino, mostra le foto delle bimbe, Sama e la più grande, sette anni, appena arrivate all'ospedale, tutte coperte di bruciature. «La casa era in fiamme, abbiamo raccolto un po' di vestiti e li abbiamo messi in macchina, stavamo per salire e scappare quando un altro colpo l'ha distrutta, allora siamo corsi verso i campi, con loro due tra le braccia».
    Qualcuno li ha raccolti per strada e portati al primo ospedale decente, nello Chouf, ma non era abbastanza attrezzato. Poi, per fortuna, si è liberato un posto qui a Geitaoui. La dottoressa che le ha in cura non si ferma un attimo da più di un mese. «La prima ondata è stata quella dei cercapersone – ricorda –. Sono arrivati in tanti, con ustioni al volto, la vista compromessa. È stato molto brutto. Eravamo a disagio». Si ferma un attimo, e beve un altro sorso di caffè. «Sapevamo che erano di Hezbollah, ed Hezbollah non ama essere riconosciuto. E invece adesso li vedevamo in faccia, registravamo i loro nomi nel registro. Non ero tranquilla, anche se, certo, erano persone da curare». Si ferma di nuovo e riflette.
    «Ho fatto il giuramento di Ippocrate, ma ho avuto anche brutti pensieri». E cioè? «In questo quartiere l'esplosione al porto ha fatto tante vittime. L'ospedale è stato mezzo distrutto. Ed Hezbollah ha le sue responsabilità per quello che è successo quattro anni fa e soprattutto per questa guerra dove ha trascinato tutto il Libano. Ben gli sta, ho pensato».
    All'inizio non ha provato molta pietà ma una storia le ha fatto cambiare idea. «Una giovane di 22 anni – spiega – aveva perso tutte e due gli occhi. Aveva preso il cercapersone che squillava per portarlo dal padre, uno del partito, e le è esploso in faccia. Quando me l'hanno portata, e ho saputo, ho avuto un colpo al cuore, che destino terribile, che ingiustizia». Anche su Nasrallah ha pensieri ambivalenti. «L'esplosione che l'ha ucciso mi ha ricordato quella del porto, mi sembrava un giusto contrappasso. Ma tutto sommato mi fa anche pena. È che questa guerra ci porta troppo dolore e noi libanesi ne abbiamo vissuto già abbastanza».
    Fatima, la mamma di Sama, l'aspetta in una saletta vicino all'ingresso del pronto soccorso. Vuole sapere se la piccola tornerà come prima, avrà una vita normale. Viene da un villaggio dove Hezbollah la fa da padrone, e che adesso non esiste più. «Io non so niente di politica – sembra quasi giustificarsi –. Non abbiamo mai visto nulla, vivevamo tranquilli». In una grossa busta di plastica trasparente al suo fianco ci sono indumenti di ricambio. Da quasi un mese vive nell'ospedale. Dorme nella stanzetta della bambina, lei su una brandina a fianco al letto, il marito sul pavimento, sopra una coperta. Non sa se un giorno potrà ricostruire la sua casa. Vuole solo vivere, possibilmente in pace.
  4. progetto Albania
    Le falle

    del
    dall'inviato a Gjadër
    Mare calmo, visibilità ottima. «Niente, ancora niente», dice il direttore del porto Sender Marashi. Stanno smontando il luna park, qualcuno fa il bagno. Fra questi pescherecci che tornano carichi di sgombri e sardine, uno dei prossimi giorni attraccherà una nave della Marina Militare italiana. Porterà il primo carico di migranti della missione Albania. Una missione piena di incognite e di problemi. Si vedono tutti. A occhio nudo. In queste giornate di attesa e cielo terso.
    Roulette mediterranea
    È una questione di fortuna. Si capisce bene. Ogni singola persona che tenterà l'attraversata per arrivare in Europa avrà quattro possibili livelli di rischio e di sventura. Scampata la morte per annegamento, potrebbe essere portata indietro dalla Guardia Costiera libica finanziata dal governo italiano: altre torture, altre violenze, altri soldi da pagare. Il terzo livello di rischio è incontrare una motovedetta italiana. Perché da lì è probabile il trasbordo sulla nave hub della Marina, quindi una lenta navigazione verso l'Albania. Che non è ancora Europa, anche se sogna di farne parte. Per questo essere salvati da una nave Ong diventerà presto, per distacco, la migliore delle possibilità. Le Ong non vanno in Albania. Poco importa se verrà assegnato un porto di sbarco lontanissimo, come scelta punitiva. Genova, Ravenna, Ancona sono comunque Italia, sono pur sempre Europa.
    Paesi sicuri
    Possono essere deportati in Albania solo uomini adulti provenienti da Paesi considerati «sicuri». Ma l'Italia considera sicuri anche Egitto, Tunisia e Bangladesh. Mentre una sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia dell'Unione europea fissa altri parametri. Perché un Paese possa essere considerato sicuro, deve esserlo in qualsiasi parte e per qualsiasi cittadino. Chiedete a quel ragazzo tunisino a cui è stato tagliato un testicolo per ritorsione, dopo che aveva messo incinta la sua fidanzata, se tornare in Tunisia per lui sia effettivamente sicuro. Come si comporteranno i giudici che dovranno decidere sui singoli casi?
    Un destino in pochi giorni
    La procedura accelerata per chiedere il diritto d'asilo dovrà durare al massimo 28 giorni. Servono interpreti preparati. Servono informazioni precise che mettano le persone nelle condizioni di esercitare un diritto. Serve sapere chiaramente – per esempio – che in caso di diniego della commissione, il tempo per presentare ricorso è stato appena ridotto a 7 giorni. Fare tutto questo in Albania, in video collegamento, secondo molti giuristi discrimina fra migranti e migranti, il che è anticostituzionale. Di sicuro un migrante in Albania sarà molto più solo. Più indifeso.
    Avvocato d'ufficio o di fiducia
    Per esempio: vallo a trovare un avvocato di fiducia, stando dentro le gabbie del centro di detenzione di Gjadër. Devi difenderti in lingua italiana, in un Paese che parla albanese, mentre tu ne parli un'altra ancora. Da queste gabbie il diritto alla difesa appare fortemente indebolito.
    Un piccolissimo Stato italiano in terra d'Albania
    Lo dicono gli agenti di guardia: «Oltre il cancello cambia nazione». Lo dice il premier albanese Edi Rama: «Quei centri non ci riguardano». Non si capisce quindi cosa succederà in caso di rivolte, di incendio, di tentatitivi di fuga. O, più semplicemente, se una persona dentro si sentirà male e avrà bisogno di cure urgenti dall'altra nazione. Oltre le gabbie.
    Prigionieri di fatto
    «L'accordo con l'Italia prevede che nessun migrante uscirà mai da lì», dice sempre il premier albanese Edi Rama. Ma l'Italia non può costringere all'infinito un migrante dentro a quelle gabbie. Si prevedono molti viaggi di ritorno: Adriatico coast to coast.
    Il conto salato
    Per costruire l'hotspot al porto di Shëngjin e il centro di trattenimento di Gjadër, il governo Meloni ha già stanziato 65 milioni di euro. Il costo di gestione previsto è di 120 milioni all'anno. Ma è un costo ipotetico. Sottostimato. Perché nessuno sa quanti trasbordi – effettivamente – verranno fatti. Quanti poliziotti saranno impiegati in trasferta, quanti costi vivi e variabili dovranno essere sostenuti.
    Il miraggio delle espulsioni
    Nella prima metà del 2024 in Italia sono stati firmati 13.330 ordini di rimpatrio. Le espulsioni eseguite 2. 242. Questi sono i numeri reali. Cosa sarà dei migranti con il foglio di via in terra albanese? La probabilità che il governo italiano debba accompagnarli sul suolo italiano, per poi abbandonarli al loro destino, è molto alta.
    Ma allora perché?
    Per rimpatriare direttamente dall'Albania alcune nazionalità, pochissime. Quasi soltanto migranti tunisini, grazie all'accordo fra governi. Questo sembra l'obiettivo. Serve una foto simbolica. «Siamo nel propagandistico» dicono gli studiosi del fenomeno migratorio. Ma mentre il governo cerca la foto, il rischio è creare una zona franca. Sarà difficile testimoniare quello che accadrà lì dentro. I centri in Albania nascono per essere "un altrove". Un posto senza testimoni. —Nel decreto Flussi inserito un articolo per espellere anche chi non ha mai messo piede in Italia
    Quella norma ad hoc per i respingimenti "Il diritto al ricorso sarà solo sulla carta"
    serena riformato
    ROMA
    Mentre a Shengjin e Gjader si erigevano le mura dei centri, in Italia il governo ha silenziosamente cercato di costruire un impianto normativo per legittimare il sistema Albania. Nel decreto Flussi, approvato il 3 ottobre, almeno due norme sono state scritte ad hoc per le strutture albanesi. La più importante è all'articolo 13: l'esecutivo amplia le ipotesi di respingimento alla frontiera fino a comprendervi i migranti che in Italia non ci abbiano nemmeno mai messo piede. Finora, il questore poteva decidere l'espulsione – tramite la procedura accelerata, 28 giorni per esaminare la domanda – solo per gli stranieri bloccati alla frontiera o appena entrati nel Paese. Ma l'ipotesi non avrebbe compreso, formalmente, i migranti che verranno portati in Albania prima ancora di aver fatto ingresso in Italia. Con il codicillo inserito appositamente nel decreto Flussi, invece, il respingimento differito potrà essere applicato agli irregolari «rintracciati a seguito di operazioni di ricerca o soccorso in mare» durante le «attività di sorveglianza» dei confini esterni dell'Ue. Prima ancora di sbarcare. Che l'aggiustamento sia pensato per l'Albania è confermato anche da altre piccole modifiche: sempre in base all'articolo 13 del provvedimento, la decisione di rigetto della domanda di protezione porterà al respingimento anche «qualora la procedura si svolga direttamente alla frontiera o nelle zone di transito». Per Gianfranco Schiavone, giurista dell'Asgi, «con il decreto Flussi il governo italiano ha cercato di rafforzare la possibilità di espellere i migranti che transiteranno in Albania». Comprimendone i diritti. All'articolo 17 del provvedimento, infatti, si prevede anche un dimezzamento del tempo concesso allo straniero per presentare ricorso nel caso la sua domanda di protezione sia stata rifiutata: da 15 a 7 giorni. «La decisione di impugnare un diniego non rientra nei doveri dell'avvocato d'ufficio», spiega Schiavone: «Il migrante in 7 giorni dovrebbe trovarsi un legale in Italia, contattarlo non si sa come e convincerlo a depositare l'atto in pochi giorni». Secondo il giurista, «lo scopo di questa operazione è lasciare il diritto al ricorso sulla carta, ma svuotarlo di effetto.

 

14.10.24
  1. Chiara Gribaudo
    Le prospettive
    "Brandizzo ci ha dato una lezione non parliamo di errori umani"

    serena riformato
    roma
    «Dopo le tragedie, vorremmo che non ci fosse solo una corale indignazione, ma si imparasse qualcosa: quello che è successo a Brandizzo non deve accadere mai più». Chiara Gribaudo, vicepresidente Pd, alla Camera presiede la Commissione parlamentare d'inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia con questo obiettivo: dissezionare le stragi degli ultimi anni, comprenderne le cause e individuare le debolezze su cui intervenire. A settembre, la commissione ha pubblicato un rapporto sull'incidente di Brandizzo, dove 5 operai furono travolti da un treno mentre lavoravano sui binari. «La magistratura cercherà i colpevoli - specifica Gribaudo -. Noi cerchiamo le opportunità di miglioramento».
    La relazione riconosce il «comportamento umano» come «causa principale» della strage di Brandizzo. La politica cosa può fare?
    «Siamo certi che quelle persone, in quel momento, non dovevano stare sui binari. Ma ci vuole prudenza a parlare di "errore umano". Dietro la definizione arida c'è un problema più ampio: è l'organizzazione del lavoro che mette i dipendenti nelle condizioni di sbagliare».
    In che modo?
    «Influiscono i vincoli di orario, la spinta a fare in fretta, la percezione che si dà del rischio, anche solo nel linguaggio. La tendenza generale è certificare il rispetto delle norme dal punto di vista burocratico e poi vivere quotidianamente una realtà ben diversa. È un problema di formazione, di clima e cultura della sicurezza».
    Servono più corsi?
    «Non riguarda solo gli operai, ma anche i capi. Oggi, per la Giornata nazionale per le vittime degli infortuni sul lavoro sarò a Casteldaccia, nel Palermitano, dove a maggio cinque lavoratori sono morti respirando un gas mortale nel corso della manutenzione fognaria. Fra loro c'era il proprietario della ditta in subappalto».
    Ecco, le scatole cinesi dei subappalti quanto incidono sul fenomeno?
    «Purtroppo, se andiamo a vedere i dati, nella catena degli appalti e dei subappalti si concentra il maggior numero di infortuni. C'è sempre il rischio che si creino lavoratori di serie A e serie B. Non c'è dubbio che qualcosa vada ripensato. Con il Codice degli appalti si è fatto un primo passo. Ma non è abbastanza».
    Cosa bisognerebbe fare di più?
    «Nel rispetto dell'autonomia della magistratura, mi chiedo se sia opportuno che le stazioni appaltanti, dopo eventi particolarmente drammatici, possano continuare ad affidare le lavorazioni a imprese responsabili di inadempienze con gravi conseguenze».
    Nei primi otto mesi del 2024 l'Inail ha contato 680 morti sul lavoro, con un aumento del 3,5% sull'anno precedente. Com'è possibile che i numeri siano in crescita anziché diminuire?
    «Purtroppo, i dati Inail sono anche parziali perché non considerano il lavoro nero. Queste cifre ci dicono quanto sia importante non limitarsi alle norme spot annunciate dopo gli eventi tragici, e poi lasciar passare mesi senza prestare troppa attenzione al problema. Servirebbe un cambio di passo radicale. Per questo, dal 29 al 31 ottobre la Commissione d'inchiesta che presiedo organizzerà gli Stati generali su salute e sicurezza sul lavoro in Italia, in collaborazione con la presidenza della Camera».
    Come si svolgeranno?
    «Sarà presente il presidente della Repubblica e interverrà il commissario europeo per il Lavoro uscente Nicolas Schmit. Faremo tavole rotonde con tutte le istituzioni che si occupano del tema, dagli ispettori alla magistratura, passando per le associazioni di categoria. Approfondiremo i problemi dell'edilizia e dell'agricoltura, ma anche delle molestie sui luoghi di lavoro. E ci sarà anche un focus specifico sulla necessità di un massiccio investimento sulle nuove tecnologie».
    Come possono incidere sulla sicurezza?
    «Torno ai risultati della nostra inchiesta su Brandizzo. Oggi esistono meccanismi sofisticati che permettono ai treni di rallentare la velocità, se percepiscono la presenza di persone sui binari. Avrebbero evitato l'immane tragedia della notte fra il 30 e 31 agosto 2023. In altri Paesi, questi strumenti sono già operativi». —

 

 

13.10.24
  1. PUTIN CONTINUA AD UCCIDERE :   «Un colpo terribile», dice Volodymyr Zelensky mentre incontra Papa Francesco, «una notizia sconvolgente», secondo la diplomazia dell'Unione Europea, un «crimine di guerra» come viene qualificato dalla magistratura di Kyiv. La notizia della morte della giornalista ucraina Viktoria Roschina in un carcere russo, a 27 anni, è arrivata proprio mentre la sua famiglia aspettava di poterla riabbracciare: dopo lunghe trattative, era stata inclusa nella lista dei prigionieri da scambiare tra Russia e Ucraina. Invece, dopo lunghi silenzi, le autorità penitenziarie russe hanno infine comunicato al padre della cronista, Volodymyr Roschin, che sua figlia è deceduta, in circostanze e per cause sconosciute, mentre veniva trasferita dal carcere di Taganrog, nel Sud della Russia, in una prigione moscovita.
    Una fine terribile per una reporter diventata famosa per le sue inchieste scomode: aveva indagato la strage sul Maidan durante la rivoluzione in piazza del 2014, ed era andata più volte nei territori occupati dai russi per raccontare i crimini contro la popolazione civile. Cronista della tv Hromadske e della Ukrainskaya Pravda, Roschina aveva iniziato a fare la giornalista a 16 anni e veniva descritta dai colleghi come molto coraggiosa e determinata. Era già finita nelle mani dei militari russi nel 2022, mentre cercava di entrare nella Mariupol assediata dalle truppe di Mosca, ed era stata rilasciata dopo qualche giorno di prigionia, costretta a girare un video in cui ringraziava i militari di Putin per «averla salvata». Nonostante questa esperienza, portare la testimonianza degli ucraini rimasti sotto l'occupazione russa era diventata la sua missione: si era infiltrata nei territori occupati ed è proprio lì che era sparita, il 3 agosto 2023. Le autorità russe avrebbero ammesso di averla arrestata soltanto nel maggio 2024, ed era stata inserita ufficialmente nella lista dei prigionieri della Croce Rossa internazionale. Il 28 agosto scorso Volodymyr Roschin aveva chiesto ufficialmente ai russi notizie di sua figlia, e giovedì scorso ha ricevuto una mail (datata 2 ottobre) nella quale gli veniva comunicato che era deceduta il 19 settembre.
    Difficile immaginarsi una causa "naturale" di questa morte: il 6 ottobre Victoria avrebbe dovuto compiere appena 28 anni. Ma il carcere giudiziario numero 2 di Taganrog, dove era rinchiusa da più di cinque mesi, è celebre come "l'inferno in terra", dice Tetyana Katrychenko della ong ucraina "Media per i diritti umani". È uno dei penitenziari dove vengono tenuti i prigionieri ucraini, civili e militari, e gli ex detenuti che ci sono passati raccontano di «torture terribili per costringerli a confessare crimini che non hanno commesso». Manganelli, martelli e scosse elettriche sono gli strumenti utilizzati contro i prigionieri, insieme alla denutrizione e alle umiliazioni, come testimoniato da decine di uomini e donne ucraini che vi sono passati. Un carcere talmente pesante che perfino le autorità russe hanno deciso di sostituirne la direzione, dopo la morte di diversi detenuti. Prima, Viktoria era stata incarcerata nella prigione di Berdyansk, nei territori ucraini sotto occupazione russa, un altro penitenziario noto per torture e maltrattamenti degli ucraini.
    Un inferno dal quale però Roschina avrebbe dovuto uscire a breve, «avevamo fatto tutto il possibile per farla tornare a casa», ha dichiarato ieri il portavoce dello spionaggio militare di Kyiv Andriy Yusov.
    Secondo alcune indiscrezioni, la giornalista avrebbe dovuto venire scambiata già il 13 settembre. Qualcosa è andato tragicamente storto. Troppe torture, troppi maltrattamenti, o forse qualche vendetta dei servizi russi: Viktoria aveva indagato sui membri dei reparti speciali Berkut fuggiti in Russia dopo aver sparato sulla folla a Kyiv. Un indizio inquietante è il fatto che la Russia non restituirà, almeno per ora, il suo corpo: bisognerà attendere «uno scambio dei cadaveri di persone trattenute», recita la lettera ricevuta dal padre, quindi un nuovo negoziato, che durerà mesi, per fare tornare a casa la giovane reporter. Ci sono altri 25 giornalisti ucraini che restano nelle mani dei carcerieri russi, ha ricordato ieri durante l'incontro al Vaticano Zelensky, parte di quegli almeno 1.700 civili (tra cui più di 400 donne) imprigionati nei territori occupati dai militari di Mosca.
  2. Howard Kakita Il superstite: "Solo i testimoni comprendono l'enormità di quel disastro"
    Illusione STUPENDA  "Se Putin e Kim ascoltassero la mia storia non vorrebbero più usare le armi nucleari"
    TAipei
    «Sono incredibilmente felice». Howard Kakita ha 86 anni. Il 6 agosto 1945 ne aveva sette e si trovava a poco più di un chilometro dall'epicentro dell'esplosione della bomba atomica sganciata su Hiroshima dall'Enola Gay. Il premio Nobel per la Pace alla Nihon Hidankyo e a tutti gli hibakusha è stato annunciato quando in California, dove vive, era notte fonda. Appena appresa la notizia, dice a La Stampa di avere una speranza: «Spero che questo risultato rafforzerà gli sforzi globali volti a fermare la proliferazione delle armi nucleari e a promuovere un divieto totale del loro utilizzo». Lui quell'obiettivo lo persegue da decenni, tra le file della American Society of Hiroshima-Nagasaki A-Bomb Survivors, «la cui missione è strettamente in linea con quella della Nihon Hidankyo».
    Eppure, da qualche tempo quanto accade nel mondo sembra andare verso il riarmo e maggiori rischi di uno scontro nucleare.
    «Spesso mi sono chiesto se alcuni dei leader mondiali abbiano mai visto o ascoltato quello che è successo a noi. Forse no. Sono convinto che questo Nobel darà più visibilità alla nostra causa. Certo, purtroppo non credo che il premio basti per cambiare la mente di Vladimir Putin e Kim Jong-un, né che possa risolvere improvvisamente il conflitto in Medio Oriente. Ma io spero ci sia di aiuto per continuare a evitare che le armi atomiche vengano utilizzate, come fatto negli ultimi 80 anni».
    Che cosa ricorda del 6 agosto 1945?
    «Era un lunedì. Io e mio fratello stavamo andando a scuola, quando altri bambini ci dissero che le lezioni erano state cancellate perché c'erano degli aerei nemici nelle vicinanze. Ne fummo felici. Quando abbiamo sentito che un aereo stava venendo verso Hiroshima, io e mio fratello salimmo in cima al tetto della casa dove vivevamo coi nostri nonni per vedere le scie. Per nostra fortuna, mia nonna ci disse di scendere. Quando è arrivata la bomba, non ricordo il lampo, né il botto. Ricordo le fiamme sui pezzi di casa caduti sopra di me, l'odore di fumo. Non ero gravemente ferito e sono riuscito a tirarmi fuori. Mio nonno e altri uomini presero i secchi per cercare di spegnere un incendio, senza rendersi conto che l'intera città era completamente scomparsa. Allontanandoci, c'era un'enorme sfilata di persone simili a zombie. Alcune con orrende ferite, altre morte. Io mi ammalai a causa delle radiazioni, ma in qualche modo sopravvissi. Anche se le ferite psicologiche sono state più complicate da curare».
    Il direttore della Nihon Hidankyo ha paragonato la Gaza di oggi al Giappone del 1945. Che effetto le fa quanto sta accadendo nel mondo?
    «È da un paio d'anni, dopo la guerra in Ucraina, che mi chiedo come sia possibile che siamo in questa situazione. E le cose sono persino peggiorate. La Russia e la Corea del Nord minacciano di usare bombe nucleari, la Cina ne vuole avere mille entro la fine del decennio. Per non parlare dei rischi tra Israele e Iran, o tra Pakistan e India. Abbiamo 13 mila armi nucleari nel mondo, 13 mila. Se ascoltassero davvero le nostre storie non ne vorrebbero di più».
    Ha fiducia nell'ascolto e nella comprensione delle nuove generazioni, per evitare che si ripeta la tragedia?
    «Vado spesso a parlare nei licei e nelle università. I giovani mi sembrano molto interessati, ma a meno che tu non sia davvero testimone di qualcosa del genere, è difficile comprendere del tutto la grandezza del disastro. Noi la capiamo. Tra noi sopravvissuti, da quanto è iniziata la guerra in Ucraina diverse persone non riescono più a dormire, per il timore di dover rivivere quell'orrore».
  3. La barca e il canone del Palafuksas al centro dell'inchiesta con 10 indagati
    Ci sarebbero anche delle intercettazioni telefoniche a corredo delle accuse sollevate dall'aggiunto Enrica Gabetta e dal sostituto Giovanni Caspani nei confronti - anche - dell'imprenditore del gusto Umberto Montano e della super dirigente del dipartimento Commercio del Comune di Torino Paola Virano. L'inchiesta dello Scico della Polizia e della Squadra Mobile di Torino vede 10 persone iscritte nel registro degli indagati. La presunta corruzione lega le posizioni di Virano e Montano. Lei lo avrebbe consigliato su come rientrare da un debito di poco più di 500 mila euro e si sarebbe interessata per abbassare (di un milione circa) i canoni della concessione degli spazi del Palafuksas ricevendo in cambio il prestito di una barca durante un weekend di vacanza all'Isola d'Elba. g.leg. —

 

 

 

12.10.24
  1. MESSAGGIO FORTE E CHIARO : MONITORIAMO I VOSTRI  CONTI dalla filiale di Intesa Sanpaolo a Bitonto: il dipendente 50enne è stato licenziato Dal procuratore antimafia alla presidente del Consiglio, oltre 3500 conti controllati in tutta Italia
    La banca
    La difesa di Coviello
    Il bancario insospettabile spiava Meloni, politici e pm Ora si indaga sui mandanti
    "
    irene famà
    inviata a bari
    Insospettabile. Dietro il suo sportello di una filiale di Intesa Sanpaolo spiava i conti correnti di persone illustri. Illustrissime. La premier Giorgia Meloni, sua sorella Arianna, il suo ex compagno Giambruno. E ancora. I ministri Daniela Santanché e Guido Crosetto. Il procuratore della Direzione nazionale antimafia Giovanni Melillo e carabinieri e militari della Guardia di finanza. Quello di Vincenzo Coviello, cinquantenne di Bitonto, era un monitoraggio quotidiano. Settemila gli accessi abusivi effettuati dal 21 febbraio 2022 al 24 aprile 2024: trecento al mese, circa quindici al giorno, su oltre 3500 clienti portafogliati di 679 filiali sparse in tutta Italia.
    Sbirciava, questo è certo. Perché? Per chi? Difficile credere alla semplice ossessione. Alla raccolta spasmodica di dati solo per farsi "grande" con gli amici al bar. Secondo i primi accertamenti della procura di Bari, guidata da Roberto Rossi, Coviello avrebbe consultato conti correnti e anagrafiche. Ma quei dati non li avrebbe né scaricati né condivisi con altri della banca né salvati su supporti informatici. Insomma: nessun dossier mirato da condividere come quelli del caso Striano, l'ex tenente della finanza indagato per aver scaricato migliaia e migliaia di file segreti dalle banche dati della Dna e delle forze dell'ordine.
    Vincenzo Coviello per Intesa Sanpaolo si occupava della clientela legata al business agro-alimentare con accesso a conti di società e di aziende su tutto il territorio nazionale. «Quei dati li ho consultati perché è il mio lavoro farlo», avrebbe detto per giustificaris. Eppure l'alert è scattato lo stesso.
    A banca Intesa Sanpaolo funziona così: il dipendente «autorizzato» gestisce i dati della clientela e i sistemi di controllo automatizzati monitorano i comportamenti e segnalano quelli anomali. Ad esempio, se una stessa persona viene cercata troppe volte. Insomma, se le consultazioni assumono un particolare rilievo quantitativo o qualitativo. A quel punto scatta l'allarme. E così è stato per Coviello. Gli analisti informatici del mega centro di controllo che monitora i flussi telematici di tutto l'istituto bancario da Moncalieri, comune alle porte di Torino, riscontrano le anomalie. E la banca avvia un'indagine interna. A seguire il procedimento disciplinare, che è una procedura lunga e scrupolosa. Poi il licenziamento lo scorso 8 agosto.
    Oltre ad avere adottato «tempestivamente nei confronti del dipendente le opportune iniziative disciplinari», la Banca fa sapere di avere «provveduto ad informare le autorità competenti». Immediata la segnalazione al Garante della privacy e poi la denuncia in procura. Insieme a un correntista di Bitonto che sarebbe stato avvisato dal direttore dei numerosi accessi sul suo conto.
    Consultazioni random per mera curiosità? Dai primi accertamenti, risulta che Coviello abbia tenuto sotto controllo guadagni e spese di politici, magistrati, sportivi, esponenti delle forze dell'ordine. E l'elenco è davvero lungo. Compaiono, così raccontano le prime informazioni, anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, l'ex ministro Raffaele Fitto, ora alla Commissione Ue, il governatore della Puglia Michele Emiliano e quello del Veneto Luca Zaia e il procuratore della Repubblica di Trani Renato Nitti.
    Vincenzo Coviello era seriale. Non ha scaricato o copiato nulla, è vero. Ma quei dati, in gran segreto, nascosto dietro il computer e dietro quella teca di vetro che separa i dipendenti dai clienti, li ha consultati. Forse appuntati. E ora gli investigatori dei carabinieri della procura di Bari stanno cercando di ricostruire la questione. Di risalire ai possibili mandanti. E di capire se il funzionario ha agito da solo o con l'aiuto di qualcuno.
    I numeri di questa sorta di spy story sembrano enormi. E lo sono, se messi a confronto di un insospettabile funzionario. È doveroso, però, ricordare che Intesa Sanpaolo gestisce circa 13 milioni di clienti e al giorno transazioni che si aggirano intorno ai 20 miliardi. In questa vicenda, ciò che colpisce sono i nomi dei personaggi spiati. E c'è chi si spinge a ipotizzare un coinvolgimento degli investigatori privati. Faro degli inquirenti, che hanno acquisito documenti e file e continuano ad ascoltare testimoni, anche su eventuali pagamenti o altre utilità.
    E la storia, con i dovuti distinguo, ricorda anche quella di Carmelo Miano, l'hacker di Gela che dalla sua camera a Roma, a 24 anni, ha violato i server del ministero della Giustizia e ha messo le mani su fascicoli coperti da segreto di quattro procure. «Ho rubato le email dei pm perché avevo attacchi d'ansia», avrebbe detto agli investigatori della procura di Napoli.
    Ansia. Curiosità. Poi c'è chi ipotizza un grande complotto. E chi pensa a diversi mandanti impegnati a intercettare le persone giuste al posto giusto. Per ottenere le informazioni che desiderano. —
  2. Produzione al palo: -3,2% su base annua "Una Caporetto per la nostra industria"
    La produzione industriale dell'Italia resta al palo. Ad agosto, secondo l'Istat l'indice destagionalizzato della produzione industriale è aumentato dello 0,1% rispetto a luglio. Ma in termini tendenziali, la produzione industriale è scesa del 3,2% rispetto a un anno fa. Le associazioni dei consumatori Unc e Codacons parlano di «Caporetto» per l'industria tricolore. «Siamo al 19esimo calo tendenziale consecutivo» dicono i consumatori. Su base tendenziale, le flessioni maggiori si rilevano nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-14,2%), nella fabbricazione di macchinari (-11,6%) e nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-10,8%). Confcommercio parla di «situazione delicata» a cui si deve reagire e la Cgil chiede al governo di convocare subito un tavolo di confronto con imprese e sindacati a Palazzo Chigi.
  3. QUESTO E' IL FUTURO DI MIRAFIORI: Gli schiavi
    del
    tessile
    niccolò zancan
    inviato a seano (prato)
    Ecco quello che si deve sapere. «Mi chiamo Ehtisham Hussain, ho 29 anni, sono pachistano. Il mio lavoro nel distretto della moda di Prato consiste in questo: chiudo scatole, carico scatole, scarico scatole, metto i capi sugli attaccapanni e poi chiudo altre scatole, le carico e le scarico ancora. Ogni giorno. Per dodici ore al giorno. Sette giorni su sette. Guadagno 1200 euro al mese. Ma senza riposo, senza malattia. Quando devo andare in questura per il documento, il capo mi toglie 50 euro dalla paga. Ogni volta che c'è un problema, il capo mi toglie 50 euro dalla paga. Quando finisco il turno, devo lavare i bagni e i pavimenti».
    Ehtisham Hussain lavora in uno dei distretti economici italiani più redditizi del mondo per una paga di 3 euro e 33 centesimi all'ora. Ecco perché da domenica è in sciopero con altri lavoratori nelle sue stesse condizioni. Sono i dipendenti di cinque aziende della zona che chiedono di poter lavorare otto ore al giorno e di poter avere un giorno di riposo settimanale. Mercoledì notte stavano facendo un picchetto davanti ai cancelli della ditta di confezioni "Lin Weidong" a Seano, quando è arrivata la squadraccia di picchiatori.
    «In quel momento c'erano in tutto otto persone» spiega adesso la coordinatrice di "Sudd Cobas", Sarah Caudiero. «Due lavoratori e due sindacalisti erano a dormire nelle tende, due lavoratori e altri due dei nostri erano qui ai tavolini per il turno sveglia». La squadraccia di picchiatori è arrivata alle spalle. Scavalcando una rete. Era buio pesto. Notte nera. «Per prima cosa hanno urlato: "Fermi tutti, polizia!". Poi hanno iniziato a picchiare con dei bastoni. Avevano felpe scure, cappucci in testa. Picchiavano. Picchiavano tutti. Prima di scappare, hanno detto: "La prossima volta vi spariamo"».
    Erano italiani. «Leggera inflessione dialettale toscana», precisa chi si è preso quelle mazzate sulla schiena. Ieri pomeriggio le vittime del pestaggio - quattro persone con contusioni e lividi - sono state sentite in procura. E sempre da ieri, un'auto dei carabinieri resta di scorta davanti al presidio dei lavoratori. È qui che incontriamo Ehtisham Hussain: «Siamo tutti stanchi, troppo stanchi. Io mando 500 euro al mese a casa per fare vivere la mia famiglia. Quando arrivano i miei soldi, loro vanno a fare la spesa. Sono il più grade di cinque fratelli. Tutti dipendono dal mio lavoro in Italia». Ma quale lavoro? Quale tipo di lavoro?
    Il tessile: 10 mila aziende (compreso l'indotto) grandi, medie e piccolissime, 35 mila lavoratori emersi. Ma ogni volta che uno nomina questo distretto deve sempre ricordare i sei operai bruciati vivi nel laboratorio di Prato dove lavoravano e pure dormivano, deve sempre ricordare Luana D'Orazio stritolata da un orditoio a Montemurlo perché il sistema di sicurezza era stato manomesso per non rallentare l'impianto. E adesso? Ecco questi nuovi lavoratori picchiati mentre cercavano di affermare la loro stessa esistenza in vita. Avete paura? «No» risponde la sindacalista Sarah Caudiero. «Siamo abituati. Non è la prima volta che riceviamo minacce o peggio. A marzo un caporale di una ditta della logistica, "la AccaSrl", ha picchiato i lavoratori per farli uscire dal sindacato, mentre cercavamo un accordo per lavorare 8 ore al giorno invece che 12. Abbiamo contato sei aggressioni fra la primavera e l'estate».
    Era il distretto dei cinesi al servizio dei grandi marchi della moda internazionale. Ma adesso i lavoratori più poveri sono tutti pakistani e afgani. Sono loro che stanno cercando di portare all'attenzione di tutti quello che sta succedendo. Lo sciopero di domenica ha coinvolto i lavoratori di cinque marchi: stireria Tang, logistica Tredesi, tessitura Sofia, la fabbrica di cerniere Linzhong e - appunto - confezioni Lin Weidong. Le prime quattro hanno aperto un tavolo di trattativa. La quinta, per ora, rifiuta qualsiasi possibile accordo. Per conto di chi sono arrivati i picchiatori? A nome di chi stavano minacciando i dipendenti in sciopero?
    La procura indaga, la politica si indigna. La sindaca di Prato, Ilaria Bigetti, dice: «È inaccettabile che chi manifesta per i propri diritti sia intimidito e aggredito». Tutti chiedono chiarezza. Mentre i lavoratori sfruttati, che erano già scesi in strada la notte del pestaggio, torneranno a manifestare domenica.
    Per capire quello che ancora succede nel distretto del tessile più famoso d'Italia bisogna sempre tenere a mente il caso Montblanc. Erano lavoratori in committenza di due pelletterie di Campi Bisenzio, impiegati dodici ore al giorno, sette giorni su sette, che confezionavano borse vendute a 1200 euro al pezzo. Quando hanno protestato, la casa madre ha tagliato i ponti: «Perché l'appaltatore non ha rispettato gli standard delineati nel nostro codice di condotta per i fornitori». E loro - i lavoratori sfruttati - sono finiti per strada. Disoccupati.
  4. Due giorni di perquisizioni negli uffici dall'assessorato al Commercio; nel mirino anche i bandi per l'assegnazione dei posti al settore ittico
    Favori e consulenze al patron di Mercato centrale Indagata LA INTOCCABILE Virano, super dirigente del Comune
    giuseppe legato
    giulia ricci
    Il mercato coperto e quello ittico finiscono nel mirino della procura di Torino. A vario titolo bandi – in ipotesi d'accusa - sospetti , interessamenti per rideterminazioni di canoni di concessione, consigli su fideiussioni e per "rientrare" da esposizioni debitorie e – in cambio – regalie e favori. E nell'inchiesta del procuratore aggiunto Enrica Gabetta e del pm Giovanni Caspani, finiscono due nomi rilevanti. Si tratta dell'imprenditore Umberto Montano, presidente e Fondatore del brand "Mercato centrale", un format di grande successo aperto nel 2014 a Firenze ed esportato nel giro di 7 anni in altre tre città d'Italia: a Roma nel 2016, a Torino nel 2019 e a Milano nel 2021. E proprio Torino è costata a Montano un avviso di garanzia per corruzione. In questa contestazione figura in concorso Paola Virano, dirigente (con la carica di direttore) del dipartimento commercio della Città a sua volta accusata – solo di turbativa – per il bando relativo all'assegnazione del mercato ittico. Ma andiamo con ordine: l'altroieri e ieri mattina i poliziotti della Sisco (Sezione investigativa del Servizio centrale operativo) della polizia e della Squadra Mobile di Torino hanno notificato 10 ordini di esibizione ad altrettanti indagati, acquisito documenti anche a Firenze, dove il brand Mercato Centrale è nato e nella sede dell'assessorato al Commercio del Comune di Torino. I filoni dell'inchiesta sono tre, ma quelli più rilevanti conducono alla super-dirigente (già riferimento della macchina comunale in passato per le politiche urbanistiche) e all'imprenditore del gusto la cui iniziativa d'impresa a Torino – al contrario delle altre sedi con fatturati alle stelle e numeri di pubblico rilevanti – non ha riscosso per nulla successo. Doveva essere un locale stellato alla portata di tutti, ma il suo rapporto con Torino non è mai decollato. E questo nonostante all'epoca l'iniziativa contava su nomi di assoluto spessore del panorama della cucina e del gusto: Davide Scabin in testa (del tutto estraneo alla vicenda in oggetto). Secondo l'ipotesi d'accusa - da dimostrare in giudizio – Virano avrebbe dato consigli a Montano su come gestire il rientro da un debito pari a poco più di 500 mila euro con Soris e - sempre su richiesta di Montano - si sarebbe impegnata (senza ancora risultati concreti) per rivedere i costi della convenzione che regolava la concessione degli spazi su canone. Con un ipotetico risparmio di circa un milione di euro. In cambio Virano avrebbe ricevuto delle regalie – pare l'utilizzo di una barca – durante un weekend di vacanza trascorso all'Isola D'Elba dove la dirigente ha anche una dimora estiva. Il secondo fronte è quello del mercato ittico. Attualmente chiuso, più bandi (base d'asta 2,6 milioni) per l'assegnazione ad operatori di mercato sono andati deserti. L'ipotesi di turbativa, di cui Virano risponde insieme ad altre tre persone riguarderebbe un presunto intervento della dirigente per far abbassare l'iniziale importo fideiussorio a garanzia della partecipazione all'investimento che avrebbe potuto favorire o meno alcuni operatori. Il legale di Virano, Roberto Capra commenta: «La mia assistita è molto serena perchè ha sempre e solo lavorato per il bene della città e siamo fiduciosi che gli accertamenti in corso daranno conto della ‘assenza di qualsiasi ipotesi di responsabilità». In coda altri indagati a Trofarello in un terzo filone dell'inchiesta che coinvolge l'attuale segretario comunale in ordine a presunti reati in materia urbanistica.
  5.  professionisti da giovedì scorso non hanno più messo piede nell'ospedale
    Visite private in orario di lavoro Oftalmico, licenziati due medici

    Caterina stamin
    Timbravano come se stessero svolgendo regolare attività lavorativa per l'ospedale. Peccato che in quelle ore, in cui erano pagati con i soldi pubblici, visitassero pazienti privatamente. Per questo due giovani oculisti dell'ospedale Oftalmico sono stati licenziati "per giusta causa" dall'Asl Città di Torino. «A seguito di approfondite verifiche, abbiamo preso provvedimenti nei confronti di due professionisti - conferma Carlo Picco, direttore generale dell'Asl - perché agivano in libera professione durante l'orario d'ufficio».
    Per legge è prevista la netta separazione tra l'attività in orario di servizio dei medici ospedalieri e la loro libera professione. Una norma volta a evitare che i professionisti "rubino" tempo all'orario per cui sono pagati dai cittadini e durante il quale devono svolgere la loro attività da dipendenti. Nel caso in questione l'indagine, durata mesi, ha preso in considerazione le "bollature" di due anni consecutivi, dal 2022 al 2023. Per tutto questo periodo di tempo, i due specialisti dell'Oftalmico - Riccardo B. e Alessandra M. - in orario di "intramoenia"(ossia privato) più volte non si sarebbero "stimbrati dall'ospedale": non avrebbero, quindi, sospeso il loro orario di lavoro di dipendenti pubblici, mentre svolgevano la libera professione privata. Così facendo, i due medici avrebbero anche ricevuto un doppio compenso: dall'ospedale e dai privati cittadini che, ignari di tutto, si sono rivolti a loro.
    A mettere fine alle loro truffe alcuni controlli a campione dell'Asl su diversi professionisti dell'ospedale: sono state esaminate le prestazioni in intramoenia dei due oculisti e comparati gli orari. Quindi, una settimana fa, entrambi i medici hanno ricevuto la mail dall'Asl Città di Torino, che gli comunicava l'immediata interruzione della loro attività lavorativa "per giusta causa". Da giovedì scorso non hanno più messo piede all'Oftalmico. Dall'Asl è partita la segnalazione all'autorità giudiziaria. I professionisti potranno ricorrere contro il provvedimento di licenziamento, proposto dalla Commissione di disciplina alla direzione generale. Ma, viste le ripetute violazioni, sarà per loro difficile dimostrare la buona fede.

 

11.10.24
  1. MAFIA E STADI :   L'Antimafia
    Inter e Milan
    Le indagini
    su
    Grazia Longo
    Roma
    Sullo scandalo esploso dopo l'inchiesta della procura di Milano "Doppia curva", che ha portato all'azzeramento dei vertici delle tifoserie di Milan e Inter, interviene ora la Commissione antimafia. A Palazzo San Macuto hanno già acquisito gli atti relativi alle indagini e oggi il capogruppo Pd Walter Verini presenterà ufficialmente la richiesta di un Comitato che possa occuparsi della questione. La sua costituzione avverrà molto presto. «La presidente della Commissione Chiara Colosimo mi ha già comunicato per le vie brevi che accoglierà la mia richiesta - annuncia il senatore dem -. È dunque probabile che dopo la lettura delle carte si procederà alle audizioni dei presidenti dei club milanesi e delle persone utili alla ricostruzione della vicenda».
    L'idea del Comitato nasce dall'esigenza di una struttura più agevole e snella rispetto all'assemblea plenaria. E l'obiettivo è quello di estendere i lavori anche alle altre squadre per affrontare la piaga delle infiltrazioni mafiose nel mondo del calcio. «Dobbiamo affrontare un problema che non è solo milanese - precisa Verini -. È noto che in moltissimi stadi italiani c'è questa situazione, in un connubio pericolosissimo tra ultrà, criminalità e criminalità organizzata. E le società spesso chiudono gli occhi».
    Di qui l'idea di un Comitato che affronti, in un tempo definito, il tema criminalità negli stadi, i rapporti con la criminalità organizzata, le responsabilità delle tifoserie e cosa fare per sradicare questi fenomeni. «Ovviamente non ci vogliamo sostituire alla magistratura che fa la sua parte - prosegue -, come la fanno anche le forze dell'ordine. La Commissione antimafia accende un faro sul problema e il Comitato, dopo le audizioni può avanzare, magari dopo sei mesi di attività, delle proposte al Parlamento per liberare il calcio dalla criminalità organizzata che non ha niente a che fare con il calcio, ma è solo delinquenza».
    Verini pone l'accento sugli affari loschi che la criminalità organizzata macina intorno agli stadi attraverso il bagarinaggio, il merchandising, i parcheggi. Denaro che confluisce in attività illegali come il traffico di droga e il riciclaggio: «La collusione con la ‘ndrangheta è una miscela esplosiva molto pericolosa. La Federcalcio, la Lega, le società di calcio devono prendere coscienza e recidere questi collegamenti. Occorre restituire gli stadi ai tifosi e non lasciarli nelle mani dei delinquenti».
    All'attenzione del Comitato, inoltre, anche i pericolosi rapporti delle tifoserie con l'estremismo nero. «Un aspetto che, come la vicinanza ad ambienti mafiosi, riguarda varie città d'Italia, tipo Verona, Bergamo, Torino, Roma - aggiunge -. In merito, infine, al silenzio, spesso per quieto vivere, delle società di calcio, do atto al presidente della Lazio Claudio Lotito di aver reciso i rapporti con gli ultras, tanto da dover vivere sotto scorta».
  2. LI AVEVO SCONSIGLIATI A PEVERARO MA COME AL SOLITO MI RISE IN FACCIA : Il Comune ricorre in giudizio per 4 contratti con Jp Morgan e Dexia Crediop Un altro è con Intesa Sanpaolo. Il primo cittadino: "Resta partner strategico"
    La Città fa causa alle banche per i maxi-derivati del 2000 "Sono contenziosi ordinari"
    ANDREA JOLY
    Cinque cause a tre diversi istituti bancari per interrompere un salasso da quasi 200 milioni (e che rischia di salire di altri 50). La Città, stretta da anni nella morsa di cinque contratti derivati, ha deciso di fare ricorso alle banche con cui sono stati sottoscritti tra il 2006 e il 2007 dagli assessori al Bilancio Paolo Peveraro (fino a quando divenne vicepresidente della Regione con Mercedes Bresso) e Gianguido Passoni all'epoca di Sergio Chiamparino sindaco. L'obiettivo è quello di fronteggiare i debiti ed eventuali ulteriori rialzi dei tassi d'interesse. Tra speculazione e crisi economiche, infatti, quelli che sembravano affari 18 anni fa si sono rivelati una scommessa sconveniente per il Comune. Così, dopo la ricognizione della situazione la decisione di fare ricorso.
    A confermarlo è stato lo stesso sindaco Stefano Lo Russo, ieri, a margine della sua visita al mercato di Porta Palazzo. «È un fatto tecnico in mano agli avvocati, ma è una cosa ordinaria», ha precisato rispondendo alle domande dei giornalisti. Dei cinque contratti derivati citati in giudizio, due erano stati sottoscritti con la multinazionale statunitense di servizi finanziari Jp Morgan; due con l'istituto di credito specializzato nella concessione di mutui e prestiti a lungo termine per la realizzazione di grandi infrastrutture Dexia Crediop; uno con Intesa Sanpaolo.
    La Città «ha tanti contenziosi e di tutti i tipi, dalle buche alle multe - ha ricordato Lo Russo - Da sindaco vorrei averne meno, ma quelli che ogni settimana esaminiamo sono molti e questo è uno di quelli». E ha poi aggiunto, sollecitato sulla stretta collaborazione per numerosi progetti con Intesa Sanpaolo Intesa, come «resti un partner strategico della Città con il quale i rapporti sono eccellenti e con cui lavoriamo benissimo, continuiamo a lavorare e continueremo a farlo in futuro. Questo è un caso molto specifico». Il primo cittadino ha infine concluso citando il caso del contenzioso col ministero di Grazia e giustizia sul pagamento degli emolumenti della polizia municipale: «Non ha certo impedito di avere un buon rapporto in seguito».
    L'iniziativa si inserisce nelle numerose azioni intentate dal Comune per ridurre il debito della Città: «mettere a posto i conti» è tra le priorità di Lo Russo fin dai primi giorni di insediamento. L'assessora Gabriella Nardelli, anche alla luce del Patto per Torino siglato col governo Draghi per garantire l'equilibrio finanziario con risorse straordinarie fino a 113 milioni di euro, in questa prima parte di mandato ha studiato i bilanci e la rinegoziazione dei mutui. Nell'ambito dell'analisi della situazione finanziaria è emerso che i contratti stipulati non solo avevano procurato un buco da quasi 200 milioni, come filtra dagli uffici, ma forte anche di una serie di sentenze della Cassazione favorevoli ai ricorrenti si poteva recuperare almeno in parte la cifra persa.
    L'avvocatura della Città, filtra dalle prime indiscrezioni, ha affidato la pratica allo studio "Cedrini & Zamagni". Obiettivo: recuperare parte dei milioni persi e smettere di versarne altri. —
  3. GIUSTIZIA ? La decisione del giudice di Brescia sull'esposto del magistrato, a lungo nella Procura di Torino. Resta aperta la posizione dell'ex procuratore
    "Non c'è prova di complotto anti Padalino" Ma gli atti su Spataro finiscono a Milano

    elisa sola
    «Non vi sono elementi per ipotizzare con un minimo grado di fondatezza, tale da meritare il vaglio di un processo, che il magistrato Andrea Padalino sia stato vittima di un complotto ordito dai colleghi torinesi e della procura di Milano».
    Lo scrive la gip Angela Corvi, del tribunale di Brescia, nel provvedimento con cui ha archiviato la posizione di sette pubblici ministeri in servizio nelle due città, all'epoca dei fatti al vaglio delle indagini. La questione , però non è chiusa. La giudice ha trasmesso le carte alla procura di Milano perché si valuti un ultimo episodio, per il quale il nome di Armando Spataro, ex capo della procura di Torino e in pensione al dicembre del 2018, fu iscritto nel registro degli indagati per rifiuto in atti di ufficio. In questo caso la gip Corvi ha preso atto che, per ragioni di «competenza funzionale», non ha titoli per pronunciarsi, dal momento che non ci sono magistrati milanesi interessati.
    Il fascicolo era stato aperto dopo un esposto dello stesso Padalino. Il magistrato, quando era in servizio a Torino come pubblico ministero, era stato indagato per una vicenda di presunti favori in procura. Al processo, celebrato a Milano, fu assolto.
    Il caso di cui adesso dovranno occuparsi gli inquirenti di Milano, riguarda un presunto divieto impartito dall'allora procuratore capo Armando Spataro ai pubblici ministeri che stavano indagando sul collega Padalino per i presunti favori nel Palazzo di giustizia di Torino. A parlare del «divieto», come si ricava dalla lettura degli atti, sono stati Anna Maria Loreto, succeduta a Spataro alla guida della procura di Torino, e tre pubblici ministeri. La procura di Brescia ha già fatto presente che a proprio parere non si configurano illeciti di carattere penale.
    Padalino, nell'esposto che diede il via alle indagini, lamentò, fra l'altro, il mancato invio da parte di Spataro ai pm di Milano dei resoconti di due procuratori aggiunti (Paolo Borgna e Patrizia Caputo) che avrebbero potuto scagionarlo subito, senza passare per il vaglio di un processo. Il gip del tribunale di Brescia, a proposito, riporta ampi stralci di una relazione presentata nel 2023 da Anna Maria Loreto, da cui si dedurrebbe che i pm torinesi chiesero più volte nel 2017 di ascoltare Borgna come testimone, «vedendosi sempre opporre un netto rifiuto» da parte di Spataro. «In luogo della testimonianza - affermava Loreto - Spataro si determinò a chiedere a Borgna di redigere una relazione assicurandolo, su sua richiesta, che non sarebbe mai entrata nel fascicolo». Il documento, che non conteneva accuse contro Padalino, venne fatto leggere ai tre pm torinesi che stavano lavorando al caso, con il «divieto» di inserirlo negli atti di indagine. Una volta classificato «a protocollo riservato», fu chiuso in cassaforte. Dopo il pensionamento di Spataro fu Borgna, diventato reggente della procura, a trasmetterlo alla procura di Milano il 7 marzo 2019. —

 

 

10.10.24
  1. valentino Girlanda Sindaco di Bevilacqua: "In struttura pubblica avrei aspettato 18 mesi"
    "Cinquemila euro per non perdere la vista Ho dovuto chiedere un prestito in banca"
    Paolo Russo
    roma
    Sarà che la sanità non è più nelle mani dei sindaci come ai tempi delle vecchie Usl, ma non si può dire che per il primo cittadino di Bevilacqua, nel Veronese, qualcuno abbia avuto un occhio di riguardo. La vista anzi ha rischiato proprio di perderla a causa delle liste di attesa.
    Valentino Girlanda, 63 anni, è un paziente fragile. «Qualche anno fa ho infatti subito il trapianto di rene. Poi durante i controlli periodici ai quali mi devo sottoporre, ho scoperto che quelle prime difficoltà nel vedere rischiavano di diventare un problema decisamente grave a detta del medico». In entrambi gli occhi si erano formate due cataratte. Un male comune a una certa età, solo che al sindaco è avanzato velocemente, «limitandomi in breve tempo e in modo significativo la vista. Una situazione anomala, causata dai farmaci anti-rigetto che devo assumere da quando sono stato trapiantato», precisa Girlanda. Che a quel punto decide di prenotare una visita dall'oculista «anche perché di li a poco avrei dovuto rinnovare la patente di guida, che in quelle condizioni non mi avrebbero concesso. In regime pubblico però i tempi di attesa andavano da due a tre mesi». Troppi, «così sono andato a farmi visitare all'ospedale di Legnano ma in forma privata, sborsando per questo i primi 100 euro». Una bazzecola rispetto a quello che sarebbe seguito. «L'oculista mi consiglia di sottopormi subito ad intervento chirurgico e chiama il centro unico di prenotazione della Ulss. La risposta però è stata una doccia fredda: il primo posto libero era disponibile solo dopo un anno e mezzo. E pensare -aggiunge- che il mio medico nel fare richiesta aveva specificato che non c'era tempo da perdere perché la situazione avrebbe potuto peggiorare rapidamente, rendendo incerto l'esito dell'intervento». Questo perché se non operata la cataratta può causare un aumento della pressione oculare con danni irreversibili all'occhio.
    «A quel punto, per non rischiare di rimanere cieco, sono andato a un centro privato di Verona, dove dopo un paio di settimane mi hanno effettuato una seconda visita pagata altri 100 euro e poi, a distanza di 20 giorni, sono stato operato, sborsando ben 5.000 euro. Ho dovuto chiedere un prestito in banca per fare subito il bonifico ma non posso fare a meno di pensare che senza una buona pensione ora non vedrei più». —
  2. GRAZIE A SPERANZA PD E DRAGHI :    Collasso della sanità, pagano le famiglie 4,5 milioni di italiani rinunciano a curarsi
    Il 23 dicembre 1978 il Parlamento approvava a la legge 833 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in attuazione dell'art. 32 della Costituzione. Un radicale cambio di rotta nella tutela della salute delle persone, un modello di sanità pubblica ispirato da princìpi di universalismo, uguaglianza ed equità e finanziato dalla fiscalità generale. Un SSN che ha permesso di ottenere eccellenti risultati di salute e di aumentare l'aspettativa di vita e che tutto il mondo continua a guardare con ammirazione. Già nel marzo 2013, in occasione del lancio della campagna "Salviamo il Nostro Ssn", la Fondazione Gimbe aveva previsto che la perdita del SSN non sarebbe stata annunciata dal fragore improvviso di una valanga, ma si sarebbe manifestata come il lento e silenzioso scivolamento di un ghiacciaio, attraverso, lustri, decenni.
    Un processo inesorabile che avrebbe eroso il diritto costituzionale alla tutela della salute. E se fino alla pandemia la sostenibilità del SSN è rimasto un tema tra addetti ai lavori, oggi la tenuta della sanità pubblica, prossima al punto di non ritorno, coinvolge 60 milioni di persone. I principi fondanti del SSN sono stati traditi: l'universalismo è lettera morta, visto che i Livelli essenziali di assistenza (Lea) non sono esigibili da tutti; l'uguaglianza e l'equità sono ormai un miraggio, viste le profonde diseguaglianze nell'accesso a servizi e prestazioni. Il diritto costituzionale alla tutela della salute, in particolare per le fasce socio-economiche più deboli, gli anziani e i fragili, chi vive nel Mezzogiorno e nelle aree interne e disagiate si sta inesorabilmente sgretolando.
    Innumerevoli problemi gravano sulla vita quotidiana delle persone: interminabili tempi di attesa, pronto soccorso affollatissimi, impossibilità a iscriversi ad un medico di famiglia vicino casa, migrazione sanitaria, aumento della spesa privata e impoverimento delle famiglie sino alla rinuncia alle cure. I dati del 7° Rapporto Gimbe sul Ssn - presentati presso la Sala Capitolare del Senato della Repubblica - documentano che la sanità pubblica fa acqua da tutte le parti. Un divario della spesa sanitaria pubblica pro capite di 889 euro rispetto alla media dei paesi Ocse membri dell'Unione europea, con un gap complessivo che sfiora i 52,4 miliardi, frutto del costante definanziamento attuato da tutti i governi negli ultimi 15 anni. E il futuro non è affatto roseo: secondo il Piano strutturale di bilancio approvato dal governo nel 2026 il rapporto spesa sanitaria/Pil scenderà al 6,2%. Esplode la spesa pagata di tasca propria dai cittadini: nel 2023 è aumentata del 10,3%, 3,8 miliardi in più del 2022. Un impatto sulle famiglie che, oltre a rendere sempre meno esigibile il diritto universale alle cure, nel 2023 ha costretto quasi 4,5 milioni di persone a rinunciare a visite o esami diagnostici, di cui circa 2,5 milioni per motivi economici.
    La crisi motivazionale di medici e infermieri che abbandonano il Ssn ha generato una carenza di personale che compromette qualità e accessibilità dei servizi sanitari e aggrava i disagi per i pazienti. Tra il 2019 e il 2022 il Ssn ha perso oltre 11.000 medici e si stima che nel solo primo semestre del 2023 altri 2.564 medici abbiano abbandonato il servizio pubblico.
    Ma la crisi colpisce soprattutto il personale infermieristico: l'Italia conta solo 6,5 infermieri ogni 1.000 abitanti, uno dei numeri più bassi d'Europa. Riguardo i Lea, le prestazioni che il Ssn è tenuto a fornire a tutte le persone, nel 2022 solo 13 Regioni hanno rispettato gli standard, con un divario sempre più marcato tra Nord e Sud. Le uniche Regioni del Mezzogiorno promosse sono Puglia e Basilicata, che si posizionano comunque in fondo alla classifica. E la mobilità sanitaria riflette questo squilibrio, con i pazienti del Sud che migrano verso le Regioni del Nord, gravando ulteriormente sui bilanci già fragili delle aree meno sviluppate: in dettaglio, nel decennio 2012-2021 le Regioni del Mezzogiorno hanno accumulato un debito di quasi 11 miliardi. Diseguaglianze regionali su cui incombe lo spettro dell'autonomia differenziata che legittimerà tali divari.
    Nel frattempo, altrettanto in sordina, si è involuta la percezione pubblica del valore del Ssn: salute non più un bene supremo da tutelare secondo il dettato costituzionale, ma una merce da vendere e comprare. Una pericolosa involuzione che spiana la strada ad una sanità regolata dal libero mercato, dove le prestazioni saranno accessibili solo a chi potrà pagare di tasca propria o avrà sottoscritto costose polizze assicurative. Che, in ogni caso, non potranno mai garantire nemmeno ai più abbienti una copertura globale come quella offerta dal Ssn. E senza una rapida inversione di rotta, il "ghiacciaio" continuerà inesorabilmente a scivolare: da un Servizio sanitario nazionale fondato per la tutela di un diritto costituzionale, a 21 Sistemi sanitari regionali regolati dalle leggi del libero mercato.
    Il Paese corre un rischio gravissimo: perdere il Ssn non significa solo compromettere la salute delle persone, ma soprattutto mortificarne la dignità e ridurre le loro capacità di realizzare ambizioni e obiettivi. È per questoche la Fondazione Gimbe ha realizzato il Piano di rilancio del Ssn: un programma chiaro in 13 punti che prescrive la terapia necessaria a salvare il nostro Ssn "malato". Un piano che mantiene come bussola l'articolo 32 della Costituzione e il rispetto dei principi fondanti del Ssn, mettendo nero su bianco le azioni indispensabili per potenziarlo con risorse adeguate, riforme coraggiose e una radicale e moderna riorganizzazione. Per attuare questo piano, la Fondazione Gimbe ha invocato un nuovo patto politico e sociale, che superi divisioni ideologiche di partito e avvicendamenti dei governi, riconoscendo nel Ssn un pilastro della nostra democrazia, uno strumento di coesione sociale e un motore per lo sviluppo economico dell'Italia. Un patto che chiede ai cittadini di diventare utenti informati e responsabili, consapevoli del valore del Ssn, e a tutti gli attori della sanità di rinunciare ai privilegi acquisiti per salvaguardare il bene comune.
    Perché se la Costituzione tutela il diritto alla salute di tutti, la sanità deve essere per tutti.
  3. Aggirato il veto di Orban sul piano del G7: per il rimborso si useranno i beni russi congelati In forse l'arrivo di Biden al summit di Ramstein. Ipotesi incontro Zelensky -Meloni a Roma
    Maxi-prestito all'Ucraina l'Ue va avanti senza gli Usa "Garantiamo 35 miliardi"

    Viktor Orban
    MARCO BRESOLIN
    INVIATO A LUSSEMBURGO
    I governi dell'Unione europea hanno superato le titubanze interne e hanno deciso di andare avanti con il maxi-prestito all'Ucraina concordato dal G7 prima dell'estate. Anche se al momento non c'è la garanzia assoluta che gli Stati Uniti faranno la loro parte nel piano d'aiuti da 45 miliardi che sarà rimborsato con gli utili generati dai beni russi congelati. L'amministrazione americana ha subordinato il suo contributo alla modifica del meccanismo sanzionatorio dell'Ue, che prevede un rinnovo ogni sei mesi: Washington ha chiesto di estenderlo a 36 mesi, in modo da avere maggiore prevedibilità ed evitare che due volte l'anno il congelamento dei beni finisca ostaggio dei veti di un Paese. Ma il governo ungherese continua a opporsi a questa modifica.
    Per uscire dallo stallo, all'Ecofin di ieri i ministri delle Finanze si sono trovati d'accordo sulla proposta avanzata da Ursula von der Leyen in occasione del suo viaggio a Kiev del 20 settembre scorso: l'Ue si impegnerà a erogare «fino a 35 miliardi di euro» - vale a dire la propria quota da circa 17,5 miliardi più quella degli Stati Uniti - nella speranza che Washington si accodi in un secondo momento. I restanti dieci miliardi dovrebbero essere "coperti" da Regno Unito, Canada e Giappone. I tre testi legislativi che attiveranno il meccanismo finiranno oggi sul tavolo del Coreper, l'organismo che riunisce i 27 ambasciatori Ue: per la loro approvazione è sufficiente la maggioranza qualificata, mentre quello che modifica le tempistiche per le sanzioni richiede l'unanimità. Ed è proprio questo il motivo per cui si è deciso di "spacchettarli", mettendo da parte il tema delle sanzioni.
    «Ne riparleremo a novembre – ha tenuto il punto Mihaly Varga, ministro delle Finanze ungherese –. Noi crediamo che la questione dell'estensione delle sanzioni debba essere decisa dopo le elezioni americane. Dobbiamo vedere in quale direzione andrà la futura amministrazione Usa perché, come si può vedere dalla campagna, ci sono due modi assolutamente diversi per risolvere il problema: uno in direzione della pace e l'altro in direzione della guerra». In sostanza, per dare il suo via libera, il governo ungherese aspetta di vedere cosa farà la Casa Bianca, la quale però non prenderà una decisione fino a quando l'Ungheria non avrà sbloccato la questione delle sanzioni. Un cortocircuito che sembra non avere una via d'uscita.
    A Bruxelles c'è il timore che gli Stati Uniti potrebbero non entrare mai nel meccanismo del prestito: si tratta di uno scenario probabile in caso di vittoria di Trump. Per questo nelle prossime settimane continuerà il pressing sulla Casa Bianca per convincere il presidente Joe Biden a giocare d'anticipo e mettere così al sicuro i fondi. Ieri era stato annunciato per sabato un incontro a Berlino tra i leader di Usa, Regno Unito, Francia e Germania proprio per discutere della situazione in Ucraina prima del vertice a Ramstein, dal sostegno militare a quello finanziario. Ma poche ore dopo Biden ha cancellato la sua presenza per via dell'uragano Milton. Il vertice si sarebbe dovuto tenere nel formato Quad, dunque senza l'Italia. In serata, però, è arrivata la notizia di una possibile visita di Volodymyr Zelensky a Roma, prevista per domani, per incontrare Giorgia Meloni.
    Tornando al maxi-prestito all'Ucraina, il primo dei tre regolamenti Ue consentirà di introdurre un meccanismo per raccogliere sui mercati i 45 miliardi definiti dall'accordo siglato dal G7. Servirà anche il via libera del Parlamento europeo, che si esprimerà a fine ottobre: la prima tranche dei fondi sarà così erogata a Kiev entro la fine dell'anno, mentre le restanti nel corso del 2025. Gli altri due regolamenti modificheranno invece la destinazione d'uso dei proventi generati dai beni russi congelati, che valgono a circa 3 miliardi di euro l'anno. Prima dell'estate, l'Ue aveva deciso di utilizzare il 90% di questi fondi per il sostegno militare e il 10% per la ricostruzione, ma ora le proporzioni si sono invertite: il 95% servirà per ripagare il prestito (nell'arco dei prossimi 40 anni) e solo il 5% per finanziare l'invio di armi. —
  4. LO AVEVO INTUITO : Brescia, otto mesi a De Pasquale e Spadaro. Il legale: "Precedente pericoloso per l'autonomia dei magistrati"
    "Nascosero le prove alla difesa" condannati i pm del processo Eni

    monica serra
    milano
    Con l'accusa di rigetto di atti d'ufficio, il Tribunale di Brescia ha condannato a 8 mesi i pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, ora alla procura europea. Si è chiuso così, almeno in primo grado, il processo ai due magistrati che avrebbero omesso di depositare atti favorevoli alle difese nel procedimento Eni Nigeria, in ogni caso terminato con l'assoluzione di tutti gli imputati, compresi i vertici della compagnia petrolifera.
    «Questa sentenza rappresenta un precedente pericoloso, perché mette in discussione i principi fondamentali dell'autonomia e della discrezionalità delle scelte processuali di un pubblico ministero» ha dichiarato il difensore Massimo Dinoia, alla lettura del dispositivo di una decisione contro cui ha già annunciato di fare appello, mentre in quel momento i due pm hanno preferito non essere presenti in aula.
    Travolto a maggio dalla decisione del plenum del Csm di non confermarlo nelle funzioni semi-direttive nella procura di Milano, dove fino ad allora ha rivestito il ruolo di procuratore aggiunto a capo del pool reati economici internazionali, De Pasquale è stato l'unico pm in Italia ad aver ottenuto la condanna dell'ex premier Silvio Berlusconi per frode fiscale. Nel giugno del 2021, con il collega Spadaro, ha scoperto di essere indagato con la notifica di un decreto di perquisizione informatica eseguita su computer e dispositivi nel suo ufficio, al quarto piano del palazzo di giustizia.
    Per l'accusa, tra febbraio e marzo del 2021, i due magistrati avrebbero omesso «volontariamente» di depositare al processo «informazioni, prima verbali e poi documentali» che avrebbero minato la credibilità del ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, coimputato ma anche testimone «valorizzato» dai pm. Due, in particolare: un video e delle chat trovate nel cellulare di Armanna dal collega Paolo Storari (anche lui finito sotto processo a Brescia per rivelazione del segreto d'ufficio, poi assolto) che in quel momento indagava sul presunto complotto Eni e che le aveva inviate per mail ai due colleghi. Chat che dimostravano che Armanna avrebbe pagato un poliziotto nigeriano, chiamato come testimone per confermare le accuse a Eni. «Si trattava solo della bozza di una memoria informale» si sono difesi in aula i pm. Nella requisitoria, i colleghi Francesco Milanesi e Donato Greco con il procuratore Francesco Prete hanno sostenuto che avrebbero dovuto «adempiere agli obblighi di legge», ossia non tanto «selezionare» gli elementi di prova ma depositarli tutti alle parti processuali. Invece «con il loro comportamento omissivo», «nascondendo» atti favorevoli agli imputati, avrebbero «leso il diritto di difesa».
    Il Tribunale presieduto da Roberto Spanò li ha condannati a 8 mesi con sospensione della pena e non menzione, e ha stabilito che il risarcimento alla parte civile Gianfranco Falcioni, ex vice console onorario in Nigeria, da versare in solido con la Presidenza del Consiglio, sarà liquidato in seguito al giudizio civile. Entro 45 giorni saranno depositate le motivazioni della sentenza, solo dopo la difesa potrà fare appello.
  5. Inchiesta sugli ultrà Inzaghi e Zanetti tra i primi testimoni
    Tra una settimana o poco più parte delle carte
    dell'inchiesta sulle curve di San Siro, che ha azzerato i vertici ultrà della Nord interista e della Sud milanista, arriveranno alla Procura federale della Figc, che dovrà verificare, sul fronte della giustizia sportiva, eventuali condotte "rilevanti" da parte di Inter e Milan o dei loro tesserati. In queste ore, saranno ascoltati l'allenatore nerazzurro Simone Inzaghi, il vicepresidente del club Javier Zanetti e il capitano del Milan Davide Calabria. In seguito dovrebbero essere sentiti il centrocampista interista Hakan Çalhanoglu e l'ex difensore nerazzurro, ora al Psg, Milan Skriniar.
  6. Il presidente della Provincia di Imperia è indagato per abuso d'ufficio nell'inchiesta sulla compravendita di un'ex bocciofila. Si va verso lo stralcio
    Silurò la dirigente che non voleva firmare Scajola si salva grazie alla riforma Nordio

    mattia mangraviti
    imperia
    La riforma Nordio che ha cancellato il reato di abuso d'ufficio salva anche il presidente della Provincia di Imperia Claudio Scajola. L'ex ministro, infatti, risulta iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di abuso d'ufficio nell'inchiesta sulla compravendita di un'ex bocciofila, a Imperia. La sua posizione, però, verrà stralciata alla chiusura delle indagini, a meno che nel frattempo non venga modificata l'ipotesi di reato, dato che l'abuso d'ufficio è stato abolito lo scorso agosto.
    Il ddl del ministro della Giustizia Nordio ha eliminato la norma del codice penale che puniva il pubblico ufficiale che, violando consapevolmente leggi, regolamenti o l'obbligo di astensione, provoca un danno ad altri o si procura un vantaggio patrimoniale. Nel 2020 l'articolo era stato modificato specificando che il reato non si poteva configurare in presenza di margini di discrezionalità amministrativa nell'adozione di un provvedimento. Una disposizione ora cancellata del tutto.
    A Imperia, l'inchiesta per falso e abuso d'ufficio vede indagati Rosa Puglia, segretario generale della Provincia, Manolo Crocetta, dirigente del settore legale, Michele Russo, dirigente del settore Infrastrutture, Pier Carlo Gandolfo, geometra del settore Infrastrutture, e Fulvio Modugno, ingegnere del settore Infrastrutture. Oggetto dell'indagine presunte irregolarità nell'acquisizione, da parte della Provincia, dell'ex bocciofila di proprietà di un privato, Pietro Salvo.
    Nel mirino il valore dell'immobile che presenterebbe criticità per la presenza di vincoli urbanistici e di costruzioni abusive. In particolare l'ex Bocciofila, in base all'ipotesi dei pm sarebbe all'origine della decisione del presidente Scajola di sollevare dall'incarico una dirigente della Provincia, Patrizia Migliorini, perché si sarebbe rifiutata di firmare l'approvazione del progetto di demolizione - a carico della Provincia, per 48 mila euro - degli abusi edilizi commessi dal privato e il successivo atto di affidamento dei lavori.
    Secondo quanto contestato dalla procura Migliorini, dopo la posizione contraria assunta, sarebbe stata oggetto di un crescente "pressing" da parte della segretaria generale Rosa Puglia e di Scajola, culminato con la destituzione dall'incarico e la nomina del collega Michele Russo, più gradito all'ex ministro.
    Proprio nell'ambito delle pressioni contestate dagli inquirenti, la segreteria del presidente della Provincia, nonché sindaco di Imperia, avrebbe inviato a Migliorini una mail con, scansionata, la perentoria annotazione scritta da Scajola: «I dirigenti risolvono; se non riescono se ne vadano, questo è il dovere!!!». Secondo la procura una mail dal «degradante contenuto minatorio».
    In base alla ricostruzione degli inquirenti, la Provincia avrebbe quindi acquistato l'ex bocciofila da Pietro Salvo per 115 mila euro, accollandosi, dopo il rifiuto del proprietario a eseguirli, anche i lavori di demolizione degli abusi edilizi, 48 mila euro. Un totale di 163 mila euro, a fronte del prezzo, 30 mila euro, al quale Salvo aveva rilevato l'ex impianto nel 2010.
    Un'operazione fortemente contestata prima dal consigliere provinciale di opposizione Domenico Abbo («se c'è un abuso edilizio del privato, perché paga la Provincia la demolizione? ») e successivamente dalla funzionaria Migliorini che, in una nota inviata al suo Crocetta scrive: «Ritengo che l'amministrazione provinciale si stia accollando un onere non solo economico che spetterebbe al proprietario con conseguente maggiori costi rispetto al valore della perizia di stima».
    L'acquisto dell'area di corso Roosevelt, quest'ultima oggetto anche di un'inchiesta per corruzione che ha portato agli arresti dell'ex vicepresidente della Provincia Luigino Dellerba e di due imprenditori, Vincenzo e Gaetano Speranza, è stato voluto fortemente da Scajola per realizzarvi un parcheggio il cui progetto prevede la realizzazione di 28 posti auto. —
  7. I CINESI DELLA JAC AL POSTO DELLA FIAT: Il mercato
    I cinesi di Jac cercano casa per produrre a Torino

    claudia luise
    I cinesi di Jac sbarcano a Torino. Non una visita di cortesia, ma un viaggio lungo e articolato della dirigenza della casa automobilistica statale con sede ad Hefei, con funzionari governativi al seguito, per valutare la possibilità di aprire uno stabilimento produttivo in Piemonte. La visita è in programma per metà novembre e si stanno fissando gli incontri con istituzioni, università e rappresentanze imprenditoriali con lo scopo, oltre che di aprire una sponda produttiva in Europa, anche di cercare nuove partnership per la diffusione e la commercializzazione. Jac nel 2023 ha registrato ricavi intorno ai 5,8 miliardi di euro (in crescita del 23,7% sull'anno) e le sue vendite in Cina raggiungono il mezzo milione di veicoli. La sua gamma è composta soprattutto da veicoli elettrici: city car, suv e commerciali.
    La scelta di Torino non è casuale: Jac è da vent'anni a Pianezza, con un centro di ricerca e sviluppo che nel tempo ha avuto collaborazioni anche con Pininfarina per la J5. Ed è stato sempre un manager di Jac a fondare nel capoluogo piemontese, nel 2017, la Xev che poi ha lanciato la minicar elettrica Yoyo (tra i partner c'è Eni). In Italia ha collaborato pure con la DR Automobiles per commercializzare alcuni modelli di Suv riomologati secondo le normative antinquinamento europee: così è nata la DR 4. Il produttore orientale è anche entrato in un gruppo controllato al 50% da Volkswagen e che produce con marchio Sol i veicoli elettrici di Seat. La delegazione cinese sarà composta, oltre che dai manager della Jac, anche dal sindaco della città di Hefei, con il ministro dell'industria della provincia di Anhui, dove ha sede l'headquarter del prodottore (nato come Anhui Jianghuai Automobile). «Cerchiamo di giocare la nostra parte - spiega il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, che venerdì interverrà in commissione consiliare per fare un punto sullo stato di salute dell'automotive - che è quella di portare il più possibile nella nostra città occasioni di produzione e di lavoro, ovviamente dentro un quadro che sta cambiando e cambia molto rapidamente».
  8. sanita'
    Costi elevati il 9 per cento rinuncia alle cure

    Sanità: aumenta la frattura tra Nord e Sud del Paese. Aumenta la spesa per le famiglie. E aumenta anche il numero di quanti sono costretti a rinunciare alle cure. E' la sintesi del Rapporto che la Fondazione Gimbe pubblica periodicamente per monitorare lo stato di salute della nostra sanità. Restando al Piemonte, la percentuale di famiglie che nel 2023 ha rinunciato alle prestazioni sanitarie è pari al 8,8%. In diminuzione rispetto al 2022 (si attestava al 9,6%) ma comunque al di sopra della media nazionale, ferma al 7,6%. Quanto al personale sanitario, in Piemonte infatti (dato 2022) si contano 2,09 medici dipendenti ogni mille abitanti contro una media Italia di 2,11. Migliore la situazione nel comparto degli infermieri dipendenti: 5,4 unità ogni mille abitanti contro una media Italia pari a 5,1. Rapporto medici-infermieri: in Piemonte è pari a 2,59 ogni mille abitanti contro una media Italia ferma a 2,44. Edilizia sanitaria: entro il 2026 dovranno essere in funzione 82 case di comunità ma per ora ne sono state dichiarate attive 17, il 21%, contro una media nazionale peraltro ferma al 19%. Centrali Operative Territoriali: delle 43 da varare entro il 2024 ne risultano funzionanti a pieno regime 27, il 63% del totale (contro una media Italia ferma al 59%). Ospedali di Comunità: 27 da attivare entro il 2026, ad oggi siamo a zero contro una media italiana pari al 13% di opere realizzate. Terapie intensive e semintensive: al 31 luglio la Regione aveva realizzato il 57% dei posti letto aggiuntivi di terapia sub-intensiva, contro una media italiana ferma al 52%. ale.mon .

 

 

09.10.24
  1. Ordinario a soli 29 anni: il padre Annibale è stato presidente della Corte su indicazione di An
    Il giovane costituzionalista figlio d'arte che ha ispirato il premierato a Meloni
    f
    rancesco grignetti
    roma
    Cortese, discreto, sempre attento al confine tra decisione politica (di cui è rispettosissimo) e consulenza giuridica, Francesco Saverio Marini è l'uomo che sussurra di riforme costituzionali all'orecchio di Giorgia Meloni. Sono quasi coetanei, lui nato a Roma nel 1973 e lei nel 1977. L'area politica, poi, è comune, essendo Marini il figlio di Annibale Marini che come lui è stato professore di Diritto all'università romana di Tor Vergata ed è stato giudice costituzionale dal 1997 al 2006 (e nell'ultimo anno anche presidente della Corte) su indicazione di Alleanza nazionale.
    Di Francesco Saverio si dice che sia il padre della riforma sul premierato. E in effetti, dalla sua postazione a palazzo Chigi – da dove salterebbe alla Corte costituzionale con inedito passaggio diretto – ha pilotato i testi che il governo ha portato in Parlamento. E fin dai primi incontri che Giorgia Meloni ebbe con l'opposizione fu evidente che non era un caso se quel giovane professore le sedeva accanto.
    Il mantra della stabilità li accomuna, la leader e il suo consigliere giuridico. Diceva spesso Marini in quei giorni: «L'instabilità dei governi è il vero macro-problema italiano». Con quale forma arrivarci, però, in fondo conta poco per entrambi. E spiegava la riforma così: «Siamo rimasti nel solco del parlamentarismo». Per aggiungere: «Il nostro intento è quello di garantire stabilità e governabilità preservando per quanto possibile la nostra tradizione costituzionale e gli equilibri istituzionali esistenti». Per quanto possibile, appunto.
    Di suo, Marini ci mette anche una robusta sponda cattolica. È significativo il bastione dell'università di Tor Vergata, da sempre nell'alveo dei movimenti cattolici romani: qui era professore suo padre Annibale; qui insegna suo fratello Renato, ordinario di diritto privato; e qui Francesco Saverio si laurea, è nominato cultore della materia, professore associato, ordinario a soli 29 anni e ora è anche pro-rettore. Rettore peraltro era Orazio Schillaci, ministro della Salute.
    Le uniche sortite fuori da Tor Vergata sono nel 1998 alla facoltà di Giurisprudenza della Libera Università Maria Santissima Assunta-Lumsa e poi dal 2006 al 2011 nella facoltà di diritto canonico dell'Università lateranense. Dapprima è stato nominato giudice istruttore e giudice dell'esecuzione civile presso il tribunale della città del Vaticano, poi giudice applicato del tribunale del Vaticano, di recente il Papa lo ha nominato magistrato ordinario.
    Nel 2021 è vicepresidente del Consiglio di presidenza della Corte dei Conti, membro laico nominato dal Parlamento. Il suo studio di brillante amministrativista ha molti clienti importanti. Dal 2006 al 2011 ha curato il contenzioso costituzionale della Regione Valle d'Aosta e oggi presiede il Comitato paritetico Stato-Regione Valle d'Aosta.
    Ad introdurlo negli ambienti romani che contano è stato anche Antonio Catricalà, amico del padre, che anche lui nel tempo ha insegnato a Tor Vergata. Così dal 2009 al 2011 Francesco Saverio Marini è stato consigliere giuridico dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in anni della presidenza Catricalà. Lo avrebbe poi seguito come capo della segreteria tecnica quando l'ex presidente dell'Antitrust divenne sottosegretario alla presidenza del consiglio nel governo Monti nel 2011 e 2012. Giovane sopraffino tecnico al servizio di un aborrito (da Meloni) governo tecnico.
  2. ennesimo blitz da inizio settembre al cantiere nella cascina malpensata, dove nascerà il centro didattico
    Meisino, quarto stop degli attivisti
    pier francesco caracciolo
    Per la quarta volta in un mese hanno bloccato i cantieri nel Meisino. Questo hanno fatto, ieri mattina, attivisti e residenti nella zona di Sassi. Una decina di loro, alle 8.30, si sono parati davanti alla gru che, da circa un'ora, all'interno del parco stava arando una fetta di prato a ridosso di corso Sturzo. Così facendo, hanno indotto gli operai incaricati dalla Città a interrompere i lavori, che in quel punto del parco prevedono la realizzazione di una passerella pedonale nell'ambito del progetto per la realizzazione di un «centro per l'educazione sportivo-ambientale».
    È stata così bloccata sul nascere quella che doveva essere la ripartenza del cantiere nel verde del parco, dove i lavori erano fermi dal 24 settembre. Uno stop, quello delle ultime due settimane, deciso dalla Città per verificare l'eventuale presenza di ricci nel Meisino, poi esclusa dopo un accertamento di un pool di esperti. Quello delle 8.30 non è stato l'unico presidio anti-cantiere di giornata. Nel pomeriggio, alle 15, la scena si è ripetuta: da una parte una gru, di nuovo diretta verso il verde a ridosso di corso Sturzo, dall'altra una decina di attivisti del comitato Salviamo il Meisino. Gli operai, in nessuno dei due casi, hanno forzato la mano. Anche perché, a differenza dei giorni scorsi, l'area non era presidiata in forze dalla Polizia (presenti solo due agenti).
    Hanno però proseguito i lavori nella cascina Malpensata, destinata a diventare la base operativa del futuro centro didattico-ambientale, al cui interno i cantieri non si sono mai fermati. Un progetto, quello del Comune, da 11,5 milioni di euro, di cui gli attivisti non vogliono sentir parlare. Le venti strutture ludico sportive previste nel verde, a loro dire, devasterebbero una riserva naturale con caratteristiche uniche, a Torino, in termini di fauna e flora. Per questo presidiano il parco dal 6 settembre, data di apertura del cantiere. La prima volta avevano rallentato i lavori il 9. Quella mattina l'ingresso delle gru nel parco era stato bloccato per tre ore da un presidio pacifico, poi sgomberato dalle forze dell'ordine. La seconda due giorni dopo, quando le operazioni degli operai erano state fermate per circa mezzora. La terza il 24 settembre scorso, proprio nel verde a ridosso di corso Sturzo: in quel caso gli operai avevano fatto dietrofront.

 

 

08.10.24
  1. NON MERITOCRAZIA MA APPARTENENZA:  coop nere
    La rete
    delle
    L'ex Nar Luigi Ciavardini è una sorta di faro per la destra romana. Appena si entra nel mondo che gira attorno a Fratelli d'Italia il rischio di trovare le sue tracce è decisamente alto. Così fu per la presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo, ritratta sui social insieme allo stragista di Bologna, o per l'ex portavoce del governatore del Lazio Marcello De Angelis, imparentato direttamente con Ciavardini. Fabio Tagliaferri, l'amministratore delegato della Ales Spa, il braccio operativo del ministero della Cultura, nella sua carriera politica più recente ha visto passare il mondo imprenditoriale dell'ex Nar nei suoi uffici di assessore di Frosinone, che ha occupato fino alla nomina in Ales da parte dell'ex ministro Gennaro Sangiuliano, arrivata lo scorso febbraio. Tutto è accaduto a Frosinone, città da anni governata dalla destra, vero e proprio feudo politico di Fratelli d'Italia, un bacino elettorale in grado di decidere elezioni e nomine nell'intera regione. Tagliaferri, il 3 luglio 2017, ha ricevuto la delega ai Lavori pubblici e alla Manutenzione nel comune a sud di Roma, carica di peso mantenuta fino all'ottobre del 2021. Per quasi un ventennio è stato uno dei protagonisti della destra nella capitale ciociara.
    Il mondo imprenditoriale legato all'ex Nar si è incrociato per alcuni anni con la gestione dei parchi, dei viali e dei giardini di Frosinone – attraverso una serie di affidamenti partiti dagli uffici dell'allora assessore Tagliaferri – grazie ad una cooperativa sociale, la Essegi 2012. La società – che tra il 2019 e il 2020 ha avuto complessivamente più di 3 milioni di euro di fatturato – si occupa di inserimento dei detenuti ed ha come principale figura di riferimento Germana De Angelis, la moglie dell'ex Nar Luigi Ciavardini. A Frosinone, durante il mandato di Tagliaferri, ha ricevuto diverse decine di incarichi: dalla manutenzione ordinaria della viabilità, fino al supporto per le attività elettorali. I legami con la famiglia del terrorista nero appaiono anche con una seconda cooperativa, la Agm, aggiudicataria nel 2020 di altri affidamenti diretti. Una sorta di passaggio di consegne. In questo caso uno dei soci dell'epoca era Andrea Ciavardini, il figlio di Luigi. Il secondo socio – presidente del consiglio di amministrazione all'epoca dell'affidamento da parte dell'assessorato guidato da Tagliaferri – era Manuel Cartella, nominato durante la giunta Zingaretti vice garante delle carceri, legato anche lui al mondo di Luigi Ciavardini. Cartella – secondo i documenti consultati da La Stampa – risulta aver avuto il potere di firma nella cooperativa Essegi 2012 ed ha avuto un ruolo attivo nella Polisportiva "Gruppo Idee", l'associazione promossa nel 2009 da Luigi Ciavardini, fondata, tra gli altri, dalla moglie Germana De Angelis.
    Le determinazioni per gli affidamenti, come prevede la normativa sulle amministrazioni pubbliche, sono state firmate dal dirigente dell'assessorato Lavori pubblici. La legge poi permette di non effettuare la gara per le cifre sotto la soglia europea qualora gli affidatari siano cooperative sociali, come nel caso della Essegi 2012 e della Agm. Secondo alcuni comunicati stampa pubblicati \sul sito del comune di Frosinone un input di tipo politico era però arrivato negli anni precedenti l'inizio degli affidamenti, con la firma di un protocollo d'intesa tra l'associazione "Gruppo Idee" (riconducibile a Luigi Ciavardini) e l'ex sindaco Nicola Ottaviani.
    Nonostante il fatturato milionario, la Essegi 2012, destinataria dei fondi per la manutenzione del verde pubblico da parte dell'assessorato guidato all'epoca dall'ad della Ales, ha avuto negli ultimi due anni diversi incidenti di percorso, che hanno portato alla liquidazione. Prima è stata oggetto di verifiche ed interventi da parte del Tribunale civile di Roma, per poi finire al centro di un'ispezione dell'organismo di vigilanza del ministero dello sviluppo economico. Germana De Angelis, nominata nel 2018 membro del Cda della cooperativa, aveva fornito dati anagrafici «falsi o errati», come si legge in un provvedimento di annullamento di quella nomina da parte del Tribunale di Roma. Alla camera di Commercio aveva comunicato di essere nata nel 1976, invece che nel 1962; di conseguenza il codice fiscale inserito risultava diverso da quello originale. La sua nomina nel Cda è stata quindi revocata dal giudice del Registro delle imprese il 18 marzo 2023. Nell'agosto del 2022 il ministero dello Sviluppo economico ha avviato una verifica della gestione della società, ritenuta anomala; dopo la relazione degli ispettori, è stato decretato lo scorso anno la liquidazione coatta, per non aver rispettato «le finalità mutualistiche tipiche delle società cooperative».
    Le due cooperative scelte dagli uffici dell'assessorato ai Lavori pubblici del Comune di Frosinone hanno salde radici nell'estrema destra romana. La Essegi 2012 aveva nel Cda, oltre alla moglie di Ciavardini, Simona Catalano e Giulia Acciarini. Secondo un'informativa della Digos di Roma, la Catalano era una nota militante di Forza Nuova, sposata a sua volta con il responsabile di un'associazione romana legata al mondo Skinheads. Acciarini – estranea al mondo della destra – è la moglie di Manuel Cartella, il vice garante delle carceri della Regione Lazio, socio del figlio di Ciavardini: secondo quanto riferito dalla Digos di Roma, è membro di quella stessa associazione estremista della Catalano, "Casa d'Italia Monteverde". In altre parole, lo stesso giro, legato a doppio filo al mondo dell'ex Nar.
    La cooperativa Essegi 2012 ebbe un ruolo chiave anche nel garantire a Gilberto Cavallini – altro terrorista nero condannato in secondo grado per la strage di Bologna, oggi in attesa del giudizio della Cassazione – la possibilità di uscire dal carcere, grazie ad un contratto di assunzione firmato nel 2014. coop nere
    La rete
    delle
    L'ex Nar Luigi Ciavardini è una sorta di faro per la destra romana. Appena si entra nel mondo che gira attorno a Fratelli d'Italia il rischio di trovare le sue tracce è decisamente alto. Così fu per la presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo, ritratta sui social insieme allo stragista di Bologna, o per l'ex portavoce del governatore del Lazio Marcello De Angelis, imparentato direttamente con Ciavardini. Fabio Tagliaferri, l'amministratore delegato della Ales Spa, il braccio operativo del ministero della Cultura, nella sua carriera politica più recente ha visto passare il mondo imprenditoriale dell'ex Nar nei suoi uffici di assessore di Frosinone, che ha occupato fino alla nomina in Ales da parte dell'ex ministro Gennaro Sangiuliano, arrivata lo scorso febbraio. Tutto è accaduto a Frosinone, città da anni governata dalla destra, vero e proprio feudo politico di Fratelli d'Italia, un bacino elettorale in grado di decidere elezioni e nomine nell'intera regione. Tagliaferri, il 3 luglio 2017, ha ricevuto la delega ai Lavori pubblici e alla Manutenzione nel comune a sud di Roma, carica di peso mantenuta fino all'ottobre del 2021. Per quasi un ventennio è stato uno dei protagonisti della destra nella capitale ciociara.
    Il mondo imprenditoriale legato all'ex Nar si è incrociato per alcuni anni con la gestione dei parchi, dei viali e dei giardini di Frosinone – attraverso una serie di affidamenti partiti dagli uffici dell'allora assessore Tagliaferri – grazie ad una cooperativa sociale, la Essegi 2012. La società – che tra il 2019 e il 2020 ha avuto complessivamente più di 3 milioni di euro di fatturato – si occupa di inserimento dei detenuti ed ha come principale figura di riferimento Germana De Angelis, la moglie dell'ex Nar Luigi Ciavardini. A Frosinone, durante il mandato di Tagliaferri, ha ricevuto diverse decine di incarichi: dalla manutenzione ordinaria della viabilità, fino al supporto per le attività elettorali. I legami con la famiglia del terrorista nero appaiono anche con una seconda cooperativa, la Agm, aggiudicataria nel 2020 di altri affidamenti diretti. Una sorta di passaggio di consegne. In questo caso uno dei soci dell'epoca era Andrea Ciavardini, il figlio di Luigi. Il secondo socio – presidente del consiglio di amministrazione all'epoca dell'affidamento da parte dell'assessorato guidato da Tagliaferri – era Manuel Cartella, nominato durante la giunta Zingaretti vice garante delle carceri, legato anche lui al mondo di Luigi Ciavardini. Cartella – secondo i documenti consultati da La Stampa – risulta aver avuto il potere di firma nella cooperativa Essegi 2012 ed ha avuto un ruolo attivo nella Polisportiva "Gruppo Idee", l'associazione promossa nel 2009 da Luigi Ciavardini, fondata, tra gli altri, dalla moglie Germana De Angelis.
    Le determinazioni per gli affidamenti, come prevede la normativa sulle amministrazioni pubbliche, sono state firmate dal dirigente dell'assessorato Lavori pubblici. La legge poi permette di non effettuare la gara per le cifre sotto la soglia europea qualora gli affidatari siano cooperative sociali, come nel caso della Essegi 2012 e della Agm. Secondo alcuni comunicati stampa pubblicati \sul sito del comune di Frosinone un input di tipo politico era però arrivato negli anni precedenti l'inizio degli affidamenti, con la firma di un protocollo d'intesa tra l'associazione "Gruppo Idee" (riconducibile a Luigi Ciavardini) e l'ex sindaco Nicola Ottaviani.
    Nonostante il fatturato milionario, la Essegi 2012, destinataria dei fondi per la manutenzione del verde pubblico da parte dell'assessorato guidato all'epoca dall'ad della Ales, ha avuto negli ultimi due anni diversi incidenti di percorso, che hanno portato alla liquidazione. Prima è stata oggetto di verifiche ed interventi da parte del Tribunale civile di Roma, per poi finire al centro di un'ispezione dell'organismo di vigilanza del ministero dello sviluppo economico. Germana De Angelis, nominata nel 2018 membro del Cda della cooperativa, aveva fornito dati anagrafici «falsi o errati», come si legge in un provvedimento di annullamento di quella nomina da parte del Tribunale di Roma. Alla camera di Commercio aveva comunicato di essere nata nel 1976, invece che nel 1962; di conseguenza il codice fiscale inserito risultava diverso da quello originale. La sua nomina nel Cda è stata quindi revocata dal giudice del Registro delle imprese il 18 marzo 2023. Nell'agosto del 2022 il ministero dello Sviluppo economico ha avviato una verifica della gestione della società, ritenuta anomala; dopo la relazione degli ispettori, è stato decretato lo scorso anno la liquidazione coatta, per non aver rispettato «le finalità mutualistiche tipiche delle società cooperative».
    Le due cooperative scelte dagli uffici dell'assessorato ai Lavori pubblici del Comune di Frosinone hanno salde radici nell'estrema destra romana. La Essegi 2012 aveva nel Cda, oltre alla moglie di Ciavardini, Simona Catalano e Giulia Acciarini. Secondo un'informativa della Digos di Roma, la Catalano era una nota militante di Forza Nuova, sposata a sua volta con il responsabile di un'associazione romana legata al mondo Skinheads. Acciarini – estranea al mondo della destra – è la moglie di Manuel Cartella, il vice garante delle carceri della Regione Lazio, socio del figlio di Ciavardini: secondo quanto riferito dalla Digos di Roma, è membro di quella stessa associazione estremista della Catalano, "Casa d'Italia Monteverde". In altre parole, lo stesso giro, legato a doppio filo al mondo dell'ex Nar.
    La cooperativa Essegi 2012 ebbe un ruolo chiave anche nel garantire a Gilberto Cavallini – altro terrorista nero condannato in secondo grado per la strage di Bologna, oggi in attesa del giudizio della Cassazione – la possibilità di uscire dal carcere, grazie ad un contratto di assunzione firmato nel 2014.
  2. Ecco i falsi nell'inchiesta su 25 direttori (ed ex) della Città della Salute I pm: "Dissero al Mef che era tutto ok, ma i bilanci non erano veritieri"
    "Tutte le menzogne dei manager indagati alla Corte dei conti"

    elisa sola
    Non solo i bilanci falsificati. I crediti non riscossi e i "disordini" contabili accumulati anno dopo anno, dando consistenza a un passivo totale milionario. Ma ci sarebbero anche le false comunicazioni riferite alla Corte dei conti, al Mef e alla Regione, tra i reati contestati dalla procura di Torino nei confronti dei vertici della Città della salute.
    Nelle quaranta pagine dell'atto di conclusione indagini, notificato nelle scorse ore a 25 direttori (o ex) dell'azienda ospedaliera, a dirigenti e membri dei collegi sindacali, oltre alle contestazioni di falso, relative ai bilanci dell'ultimo decennio, e di truffa, che riguarda il mancato accantonamento del 5 percento delle visite intramoenia, ci sono alcuni capi di imputazione sulle presunte "bugie" che sarebbero state scritte, sullo stato dell'arte dei conti del polo sanitario, alla Corte dei conti. È uno degli aspetti sui quali hanno indagato i pm Giulia Rizzo e Mario Bendoni, che ad alcuni ex componenti del collegio sindacale, in totale sette, contestano il reato di falso ideologico in atto pubblico. «In concorso tra loro – scrive la procura - con più omissioni e azioni di un medesimo disegno criminoso in qualità di pubblici ufficiali, disattendendo i principi di diligenza professionale e correttezza che reggono l'assolvimento delle funzioni di vigilanza e controllo proprie del Collegio sindacale, hanno violato la normativa e gli obblighi di revisione e controllo previsti dal Mef». Le mancate verifiche riguarderebbero una serie di obiettivi di bilancio che vanno raggiunti e comunicati anno dopo anno. Tra le inadempienze, ci sarebbero quelle sul mancato controllo dell'esistenza di una contabilità separata per i soldi incassati con le attività di libera professione. Nessuno, in sostanza, avrebbe distinto i conti, generando una mescolanza ambigua che, ora, è al vaglio degli inquirenti.
    Ma non è finita. Uno dei fatti più gravi - secondo i pm - è descritto negli ultimi capi di imputazione dell'atto giudiziario. Gli indagati avrebbero mentito alla Corte dei conti, spedendo questionari con risposte false. I membri del collegio sindacale per legge devono relazionarsi alla Corte, ogni anno, inviando una relazione sul bilancio di esercizio e le risposte di un dettagliato questionario. Ora, secondo l'ipotesi dell'accusa, gli esponenti dei collegi sindacali della Città della salute, insieme ad alcuni ex direttori generali, avrebbero - dal 2014 al 2021 - «attestato falsamente di avere compiuto fatti e adottato comportamenti di vigilanza e controllo, dei quali i predetti atti erano destinati a provare la verità, attestando la corretta organizzazione e gestione contabile dell'Azienda e la corretta applicazione delle leggi sull'esercizio della libera professione». Gli indagati avrebbero anche accertato falsamente che «i sistemi amministrativo contabili fornivano ragionevole certezza al bilancio», tra cui appunto, l'esistenza di una «contabilità separata per l'attività intramoenia» e di avere svolto «puntuali verifiche sulla corretta applicazione della legge Balduzzi». Insomma, sulla carta, sarebbe stato tutto perfetto. Conti in ordine, bilanci puliti e normativa rispettata. Ma secondo la procura la realtà sarebbe stata ben diversa. Gli ex direttori Pier Paolo Zanetta, Silvio Falco e all'attuale Giovanni La Valle, secondo gli inquirenti, avrebbero anche scritto risposte false sui questionari di rilevazione Alpi recepiti dalla Regione Piemonte, inducendo in errore quindi, la Regione stessa e il Mef. Entrambi gli enti figurano parti offese in questa indagine, insieme alla stessa azienda di Città della salute al ministero della Sanità. Tutti gli indagati
    Ecco tutti i nomi dei manager indagati dalla procura che nei giorni scorsi hanno ricevuto l'avviso di chiusura indagine, atto che prelude a una richiesta di rinvio a giudizio. Hanno 20 giorni di tempo per chiedere di essere sentiti dai pm. Sono Mario Albertazzi, Valter Alpe, Vincenzo Altamura (Collegio sindacale), Lorenzo Angelone, Davide Benedetto, Paolo Biancone, Fabrizio Borasio, Beatrice Borghese, Andreana Bossola, Rosa Alessandra Brusco, Giacomo Buchi (Collegio sindacale), Angelo Del Favero, Maurizio Dall'Acqua, Eugenia Grillo, Giovanni La Valle, Pier Luigi Passoni, Andrea Remonato (Collegio sindacale), Lucia Scalzo, Margherita Spaini (Collegio sindacale), Giuseppe Stillitano, Renato Stradella, Alessia Vaccaro (Collegio sindacale), Nunzio Vistato, Gian Paolo Zanetta.

 

 

07.10.24
  1. L'intervista
    "Le banche pronte ad aiutare i conti ma ora il governo abbatta il debito "
    Gian Maria Gros-Pietro
    Le misure
    La crisi ai confini
    "
    I divari salariali
    TORINO
    Nessuna chiusura di fronte alla richiesta di sacrifici da parte del governo. «Il sistema bancario italiano ha sempre avuto come principio quello di venire incontro al sistema economico e sociale», dice Gian Maria Gros-Pietro. «Tuttavia», spiega il presidente di Intesa Sanpaolo, riguardo l'intervento di cui si starebbe discutendo al Ministero del Tesoro «ci si attende che non abbia impatti sul conto economico». Perché già ora quello del credito è il settore «che paga le imposte più elevate tra le società per azioni».
    Presidente, a ogni stagione si parla di tassare gli extraprofitti di banche e assicurazioni. Che ne pensa?
    «Nei principi contabili internazionalmente accettati, il concetto di extraprofitti non esiste. I profitti sono la differenza tra i ricavi e i costi, può essere positiva o negativa, l'extra non è aritmeticamente determinabile. Capisco, però, che ci si riferisca a un concetto morale: si parla di profitti non meritati, perché dipendono da qualcosa che non hai fatto tu. Nel caso delle banche, però, c'è stato il periodo dei tassi di interesse negativi, una situazione innaturale, in cui si stava "sott'acqua". Non ha senso considerare "extraprofitto", immeritato, il miglioramento rispetto a una situazione eccezionalmente negativa e assurda, nella quale chi prestava denaro, anziché essere remunerato, "pagava" la controparte affinché si godesse il prestito».
    È un'apertura al governo?
    «Una disponibilità c'è, certamente».
    Che manovra servirebbe, davvero, per i conti del Paese?
    «Comincio dal messaggio del Presidente della Repubblica a Cernobbio: bisogna abbattere il debito. Una delle strade, come ha proposto tempo fa il nostro consigliere delegato Carlo Messina, passa dalla vendita di una parte del patrimonio immobiliare pubblico che, se gestito in maniera più attiva e con investitori istituzionali, verrebbe valorizzato. Tutto questo unito al controllo dell'avanzo primario, che rimane imprescindibile».
    Una boccata d'ossigeno potrebbe arrivare già nei prossimi giorni, quando si riuniranno i vertici della Bce. È l'ora di un nuovo taglio dei tassi?
    «L'attività produttiva sta rallentando, l'inflazione scende: ci sono tutti gli elementi per un taglio dei tassi di interesse. Penso che la Bce continuerà con riduzioni di un quarto di punto. Ne farà una adesso e una più avanti».
    Dietro il cambio di passo di Francoforte, però, sembra esserci soprattutto la frenata della Germania. Preoccupante per l'Europa, per l'Italia e, in particolare, per il Nord-Ovest, che è un importante fornitore dell'industria tedesca. Quanto sarà grave il contraccolpo?
    «Possiamo aspettarci difficoltà, anche se non così gravi. Il rallentamento tedesco è legato a tre fattori: l'enorme rilevanza delle esportazioni per Berlino, la forte concentrazione su alcuni settori produttivi, come quello dell'automobile, e l'internazionalizzazione delle catene produttive, soprattutto nell'Est Europa».
    Ma l'Italia, oggi, è ancora così dipendente dalla Germania?
    «In parte sì, ma rispetto all'economia tedesca, il nostro settore industriale, e in particolare quello manifatturiero, è molto più diversificato, sia dal punto di vista merceologico che geografico, e flessibile. Abbiamo una struttura produttiva che può adattarsi rapidamente».
    Restiamo tra Roma e Berlino. Cosa pensa della possibile acquisizione di Commerzbank da parte di Unicredit e delle polemiche che ha scatenato?
    «Viviamo una situazione di forte dinamismo, cosa che non si riscontra allo stesso modo in altri Paesi. Se si dice che l'Europa ha bisogno di banche più grandi, e questo vale anche per la Germania. Finora, in Europa, le grandi operazioni transnazionali sono state fatte quasi tutte qui da noi: quando Crédit Agricole ha acquisito Cariparma, quando Bnp Paribas ha rilevato una banca di Stato come Bnl e quando, per un soffio, Banca Intesa e Sanpaolo Imi non sono finite nelle mani di Crédit Agricole e Santander».
    Ma quella doppia acquisizione sfumò...
    «Vero, ma non per intervento del governo. Bensì perché due grandi banche italiane si sono guardate allo specchio e hanno deciso di intervenire, fondendosi tra loro».
    Dunque Unicredit-Commerzbank va fatta...
    «È un'operazione di cui – secondo le forze produttive di quel Paese – la Germania ha bisogno. Dopo una prima levata di scudi, sono cominciate a emergere opinioni favorevoli, sia da parte dei clienti delle banche sia dai regolatori. Più di questo non penso si possa dire».
    I più recenti dati Ocse indicano che in Italia, all'inizio del 2024, si è registrato un aumento retributivo significativo, pur permanendo un notevole divario rispetto ad altri Paesi. Quali misure si potrebbero adottare per colmare questa distanza?
    «Il recupero del potere d'acquisto è fondamentale. Intesa Sanpaolo lo ha sostenuto durante il rinnovo del contratto collettivo dei bancari. Serve maggiore produttività, che consenta di pagare salari internazionalmente competitivi. Abbiamo ottime università, ma rischiamo di regalare all'estero i nostri talenti: una perdita di valore che bisogna fermare. Dobbiamo attrarre e trattenere il capitale umano diminuendo il divario di retribuzione tra il nostro e quello di altri Paesi».
    Le imprese lamentano ritardi, le amministrazioni locali troppa burocrazia. Teme che il Pnrr finisca per essere un'occasione mancata?
    «Certamente abbiamo un problema di burocrazia, ma il Pnrr può essere uno strumento che ci aiuta a superarlo. Il problema è l'interazione con le istituzioni, le cui autorizzazioni non arrivano tempestivamente. Anche questo va superato. Uno degli obiettivi di questo strumento è fare dell'Europa un posto in cui si può lavorare meglio. Detto ciò, potrebbe esserci qualche ritardo – la spesa già realizzata si limita a poco più di un quarto di quanto sarà disponibile (26%) – ma l'Italia è uno dei Paesi sopra la media in termini di assegnazione dei fondi. E questo anche grazie al lavoro del ministro Raffaele Fitto, oggi passato alla Commissione».
    Avete appena presentato un libro sulla storia del Sanpaolo. In un quadro economico così incerto, quali sono le strategie adottate da voi per affrontare le sfide attuali e future?
    «Nel grattacielo di Torino, al piano sotto a quello del mio ufficio, c'è l'Innovation Center, cinghia di trasmissione tra la banca e il mondo dell'innovazione. Attraverso esso controlliamo Neva, un operatore di venture capital. Abbiamo sottoscritto il suo primo fondo con 100 milioni di euro e il presidente Luca Remmert e l'ad Mario Costantini ne hanno raccolti altri 150 sul mercato. Recentemente, abbiamo dato via al secondo fondo in cui noi contribuiamo con 200 milioni e intendiamo raccoglierne sul mercato altri 300. Siamo sicuri che ce la faremo, perché i risultati, anche economici, del primo fondo sono ottimi. Un gruppo grande come il nostro ha la possibilità di investire in conoscenza. Noi guardiamo a lungo termine e questo libro lo evidenzia. Oltre all'innovazione, bisogna essere in grado di affrontare il cambiamento climatico, la distruzione di risorse non riproducibili e l'inquinamento. Cambiare il nostro modo di fare è un'urgenza, ma il processo deve essere socialmente tollerabile».
  2. Quel blitz sui giudici che mina il pluralismo
    Donatella Stasio
    Lo sblocco, improvviso e unilaterale, dell'elezione del quindicesimo giudice della Corte costituzionale conferma, se ce ne fosse bisogno, un tratto identitario del governo Meloni, quello di un potere autoritario, insofferente al pluralismo e ai diritti delle minoranze e, quindi, anche a chi quei diritti è chiamato a tutelare. Come la Corte costituzionale. Che la premier ha deciso di conquistare, forte di una maggioranza "qualificata" ottenuta grazie ai cambi di casacca di alcuni parlamentari. Appropriarsi della Corte significa appropriarsi delle nostre libertà, dei nostri diritti civili e sociali, messi a dura prova in questi due anni di governo. Significa farne ciò che si vuole, senza avere la spada di Damocle di una censura successiva. Significa eliminare ogni argine al proprio potere "assoluto". Ed è quanto sta accadendo sotto i nostri occhi, in un clima politico e mediatico di indifferenza che, forse, è ancora più preoccupante del tentativo delle destre di appropriazione indebita della Corte.
    Lo aveva detto a gennaio: sarebbe stata lei "a dare le carte" nella partita sull'elezione parlamentare dei giudici costituzionali, uno già scaduto a novembre 2023 e altri tre in scadenza a dicembre 2024. Detto, fatto: dopo aver tenuto la Corte zoppa per quasi un anno, ora Giorgia Meloni decide di incassare la sua prima vittoria, senza neanche giocare la partita con l'opposizione, come farebbe chi ha ben chiari i suoi doveri istituzionali rispetto a un organo di garanzia come la Consulta. Un fedele interprete di quei doveri avrebbe cercato subito un candidato che, al di là dell'orientamento culturale, fosse «meritevole, per cultura giuridica, esperienza, stima e prestigio, di assumere quell'ufficio così rilevante», per dirla con le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e sul quale far convergere anche i voti dell'opposizione. Ma la premier non ci pensa proprio a far sedere al tavolo Schlein e compagni. Il trasformismo politico dei parlamentari le ha regalato i 363 voti necessari ad eleggersi da sola i giudici costituzionali, ovvero la maggioranza "qualificata" dei 3/5 di deputati e senatori: un quorum alto – persino più alto di quello richiesto per eleggere il Capo dello Stato – stabilito proprio per garantire la più ampia convergenza politica, in considerazione della funzione "contromaggioritaria" delle Corti costituzionali, nate, dopo l'esperienza tragica del nazifascismo, come limite al potere assoluto e come garanzia del pluralismo e delle minoranze.
    Ma tant'è. Forse anche in vista dell'udienza del 12 novembre in cui la Corte deciderà i ricorsi regionali contro l'Autonomia differenziata, Meloni ha "ordinato" ai gruppi di maggioranza di presentarsi puntuali martedì prossimo alla Camera per votare il "suo" giudice, il primo dei quattro da sostituire, che sarà il "suo" consigliere giuridico, il costituzionalista Francesco Saverio Marini, figlio di Annibale, già giudice ed ex presidente della Corte nel 2005, designato sempre dalla destra.
    Un governo che si sceglie da solo i componenti degli organi di garanzia, sulla base di una maggioranza numerica non uscita dalle urne ma dal cambio di casacca politica di alcuni parlamentari, è assolutamente fuori dalle dinamiche di una democrazia costituzionale. Il che rende concreto il rischio di avere alla Corte non dei giudici ma dei "soldatini" con un preciso mandato politico. Un po' come i giudici della Corte suprema americana voluti da Trump all'epoca della sua presidenza, che il New York Times non chiama più Justice ma Mister, perché quello che era il baluardo della rule of law è diventato il baluardo di una linea politica. Bisogna impedire che avvenga la stessa cosa con la nostra Corte.
    Secondo Massimo Cacciari, stiamo facendo l'abitudine alla guerra e questo rende più difficile la difesa dei principi dello stato di diritto. Le guerre stanno rafforzando unilateralmente i governi, silenziando i Parlamenti e aprendo la strada a regimi autoritari in nome della sicurezza. Anche da noi. Pensiamo al Ddl del governo Meloni, impregnato di cultura del "nemico", che in nome della sicurezza criminalizza anche il dissenso. E pensiamo al divieto di manifestare in piazza. Inquietante, ha scritto ieri Vladimiro Zagrebelsky, ricordando che manifestare il dissenso è «un'esigenza propria del pluralismo, della tolleranza e dello spirito di apertura senza i quali non esiste società democratica». Eppure, siamo a questo. La Corte costituzionale è, per sua natura, un argine contro questa lenta erosione dei diritti e della democrazia ma i cittadini non lo sanno, altrimenti riempirebbero le piazze, come hanno fatto in altri Paesi, e il governo non tenterebbe di appropriarsene o di fare ostruzionismo alle sue sentenze (vedi il fine vita). Purtroppo, là dove le piazze non si sono riempite, le democrazie si sono svuotate. Perciò, come dice Cacciari, non accontentiamoci di sopravvivere.
  3. Torino, chiuse le indagini su Città della salute. I pm: boom delle visite in intramoenia, danno patrimoniale da 7 milioni di euro
    "Molinette, dieci anni di bilanci truccati Così i direttori incassavano i loro bonus"

    elisa sola
    torino
    Buchi dichiarati, che in realtà erano voragini. Crediti non incassati da anni. Anche da un milione e mezzo di euro. Conti che sembravano puliti. Obiettivi che apparivano raggiunti, con riscossione di bonus. Ma era – o meglio, sarebbe stata – tutta una grande farsa. Almeno questa è la tesi della procura di Torino, che ieri ha chiuso un'inchiesta colossale sui bilanci degli ultimi dieci anni dell'azienda ospedaliero universitaria della Città della salute. Sarebbero falsi. Scritti sulla base di omissioni e dichiarazioni non vere. «In modo da indurre – mettono nero su bianco i pm Giulia Rizzo e Mario Bendoni – i destinatari delle comunicazioni sociali, compresi i cittadini, a celare il reale andamento economico e patrimoniale» dell'azienda.
    I due magistrati torinesi hanno fatto notificare nelle scorse ore 25 avvisi di garanzia a molti vertici – ed ex – della struttura. Per i presunti bilanci falsi sono indagati l'attuale direttore generale della Città della salute, Giovanni La Valle e i suoi predecessori Silvio Falco, Gian Paolo Zanetta e Angelo Del Favero. Devono rispondere dello stesso reato anche direttori sanitari e amministrativi ai posti di comando negli ultimi dieci anni e vari componenti dei collegi sindacali. Per ogni bilancio esaminato dai carabinieri del nucleo investigativo compaiono anomalie. Cifre che non tornano. Il filo rosso che collega i documenti contabili di un decennio è la falsificazione dei passivi. Nel 2014, per esempio, il risultato di esercizio generale dichiarato relativamente al settore della libera professione era di meno 12 milioni e 753 mila euro. Ma in realtà, il "rosso" reale, sarebbe stato – secondo la procura – più profondo: di meno 14 milioni e 127 mila euro.
    La maggior parte delle cifre "false" per i pm sarebbe relativa alle attività intramoenia dei medici a libera professione, che svolgono in ospedale visite al di fuori del normale orario di lavoro, a fronte del pagamento da parte del paziente di una tariffa.
    I conti non tornano, secondo gli inquirenti, perché alcuni indagati avrebbero, commettendo (anche) il reato di truffa, violato la normativa sulla cosiddetta "quota a fondo Balduzzi". Anziché incassare il 5 percento del compenso dei liberi professionisti, destinandolo ad attività di prevenzione o alla riduzione delle lunghe liste d'attesa, i direttori della Città della salute avrebbero evitato di riscuotere sette milioni di euro dal 2015 al 2022. I fatti di reato precedenti al 2018 sono prescritti, quindi l'ammanco relativo a questa contestazione è di un milione e 700 mila euro. Sull'intramoenia si era innescato un circolo vizioso. Più le attività di libera professione si moltiplicavano, più si allungavano i tempi delle liste d'attesa, e viceversa. Le relazioni sulla libera professione sarebbero mandate, con dati falsi, alla Regione Piemonte (persona offesa nel procedimento insieme alla Città della salute e ai ministeri dell'Economia e della Sanità), che avrebbe elargito premi e bonus ai direttori, leggendo che avevano raggiunto determinati obiettivi. Tra cui, paradossalmente, quelli del «miglioramento dei tempi di attesa».
    Al di là di questo, ci sarebbero altre anomalie nei bilanci dell'ente. Una serie di crediti non riscossi risalenti a vicende giudiziarie, fallimenti, o fatti misteriosi ancora da accertare. Nel 2015, per esempio, gli indagati avrebbero omesso di svalutare i crediti nei confronti del fallimento di Ristor matik, società che gestiva la distribuzione di bibite e alimenti. L'importo complessivo è di un milione e 212 mila euro. Nessuno sa dove siano finiti quei soldi. E perché nessuno ha provato a riscuoterli. E ancora. Nel bilancio del 2017 sarebbero stati svalutati crediti nei confronti della Fondazione Ordine Mauriziano per quasi tre milioni di euro. Mancherebbe anche, nelle casseforti, un milione di euro che Michele Di Summa, cardiochirurgo condannato, avrebbe dovuto risarcire a Città della salute. È solo uno dei tanti misteri dell'indagine. —
  4. I boss al telefono: i Belfiore mirano al parcheggio dell'Allianz
    «Mi volevo prendere il parcheggio dello stadio di Torino, ma c'è la famiglia Belfiore che sono di San Luca e sono forti anche a Torino, hai capito?». Le mire di espansione di Giuseppe Caminiti, gestore-ombra dei parcheggi intorno a «San Siro», sono rimaste solo idee che non si sono mai concretizzate. Più volte l'ultrà nerazzurro-narcotrafficante, arrestato due volte la scorsa settimana per associazione per delinquere e per un omicidio del 1992, con l'imprenditore Gherardo Zaccagni ha pensato di poter entrare nel controllo delle aree di sosta dello Juventus Stadium. Come emerge dall'inchiesta della Dda milanese, che ha azzerato i direttivi delle Curve di Inter e Milan, a frenare le voglie di Caminiti sarebbe stato il suo protettore Giuseppe Calabrò, detto "dutturicchiu", eminenza grigia al Nord-Ovest delle famiglie di ‘ndrangheta. «Lo avevo chiesto a Peppe (Calabrò, ndr) e m'ha detto: "Pino.. non è giusto. Torino va bene, però magari se ci sono gli altri che mangiano non puoi tirargli via il mangiare dalla bocca. Tu ha già Milano. Tieniti Milano». A.SIR. —

 

 

 

06.10.24
  1. - Alla fine dell’estate del 2024 se n’è andato all’età di quasi 91 anni Bruno Sacco. Italiano di nascita (viene alla luce a Udine il 12 novembre del 1933) e tedesco di adozione, il suo nome è strettamente legato a quello della Mercedes, dove è entrando come designer nel 1958 dopo gli studi in ingegneria meccanica al Politecnico di Torino e alcune esperienze alla Ghia e alla Pininfarina. Dal 1975 è lui il capo del centro stile di Sindelfingen e resta responsabile di ogni auto (ma anche autobus e camion) con la stella fino al suo pensionamento nel 1999. In oltre 40 anni di lavoro ha firmato modelli iconici, che resteranno per sempre nella storia dell’automobile. Ho avuto il piacere di cenare con lui 40 anni fa e lo ricordo molto piu' dispobile ed affabile  a rispondere alle mie domande , come Giugiaro , al contario di Ramaciotti, capo designer di Pininfarina e Marchionne che quando piu' mi evita.
  2. Il ministro: coinvolte grandi imprese estere
    Urso rilancia sul nucleare: "Si parta ora" Sui chip verso investimenti per 10 miliardi
    Nucleare e semiconduttori sono al centro dei progetti del ministero delle Imprese e del Made in Italy, guidato da Adolfo Urso. «Il nucleare di terza generazione avanzata e poi quello di quarta generazione, infine il sogno che renderemo realtà della fusione nucleare, sono opportunità, anche e direi soprattutto, per l'Italia», ha spiegato il ministro. Secondo cui «sarà un processo di medio termine, ma che dobbiamo iniziare da subito».
    Allo stesso tempo, si punterà anche sulle nuove tecnologie. In particolare, i chip. «Nel 2024 chiuderemo accordi per quasi 10 miliardi di investimenti nei semiconduttori. Il rilancio della nostra tecnologia passa dal coinvolgimento di grandi imprese estere sia a Taranto, e negli altri siti di acciaieria d'Italia, che a Piombino», ha evidenziato.
  3. l caso
    Salassi
    tabacchi
    "
    Maria Castellone vicepresidente Senato
    Paolo Russo
    Una super tassa di scopo sulle sigarette per finanziare la sanità. L'idea non è nuova ma questa volta, con la caccia aperta ai fondi per asl e ospedali, potrebbe avere più chance di tagliare il traguardo. Perché non solo l'appoggiano gli oncologi e le opposizioni, ma riscuote consensi anche in frange della maggioranza.
    L'idea lanciata dai medici oncologi dell'Aimo della vice presidente del Senato, la pentastellata Maria Domenica Castellone, prevede di aumentare di 5 euro il costo di un pacchetto di sigarette per ricavarne un gettito di 13,2 miliardi da mettere sul piatto della sanità, riducendo contemporaneamente consumi e tumori. E realizzando un extra gettito che consentirebbe di riallineare il finanziamento della sanità rispetto al Pil agli standard europei. L'ipotesi non la disegna nemmeno il ministro della Salute, Orazio Schillaci, che sa però quanto poco favore incontri nel Palazzo dell'Economia, dove temono non solo un crollo dei consumi e quindi del gettito legato alle accise sulle bionde, ma anche un drastico calo della produzione nazionale di tabacco e dell'occupazione a questa collegata. Una analisi contraddetta dalla Castellone, «perché in realtà solo l'1% della produzione del tabacco consumato in Italia è prodotto nel nostro Paese, mentre la produzione nostrana è oramai altamente automatizzata».
    Ma in caso di muro da parte del Tesoro, 5S e il Pd, che appoggia l'iniziativa, hanno già un piano B. «Stiamo lavorando anche a una seconda ipotesi di un aumento limitato a meno di un euro a pacchetto che consentirebbe comunque di introitare circa 3 miliardi di euro», rivela la vice presidente del Senato. Somma che corrisponde a quanto Schillaci va cercando per finanziare la prima tranche del suo piano di assunzioni di medici e infermieri più la detassazione al 15% della indennità di specificità medica, che prendono tutti i camici bianchi ospedalieri, che in tal modo metterebbero in tasca circa 250 euro in più al mese. Un incentivo utile ad arginare la loro fuga dalla sanità pubblica. L'idea di tassare le sigarette per curare la sanità non piace comunque solo alle opposizioni. Come ammette la stessa Castellone, «ci sono stati contatti con ampie frange della maggioranza e l'idea ha trovato consensi soprattutto tra le fila di Fratelli d'Italia, dove al contrario non è vista di buon occhio l'idea alla quale starebbe lavorando il Mef di finanziare con nuove tasse la sanità pubblica». La tassa sulle bionde, maxi o mini che sia, dovrebbe entrare in manovra con un emendamento. Ma nel caso questo non fosse approvato c'è un'altra strada che si potrebbe seguire.
    «Grazie ad un cambio di regolamento del Senato, se ci sono proposte di iniziativa popolare che raccolgono 50mila firme, queste - spiega Castellone - possono essere discusse in aula entro tre mesi dalla data in cui sono depositate. Possiamo coinvolgere i cittadini su questo argomento». E i sondaggi dicono che non sarebbe un'impresa raggiungere il quorum. Secondo un'indagine del 2024 commissionata dall'Istituto farmacologico Mario Negri, il 62% degli italiani sarebbe favorevole a una tassa sul tabacco per finanziare l'Ssn. Anche la Banca mondiale approva, considerando la sovrattassa una delle più efficaci forme di lotta al tabagismo, visto che a un aumento del 10% del prezzo corrisponde un calo del 4% dei consumi.
    «Chiediamo alle Istituzioni di approvare una tassa di scopo sulle sigarette, con il duplice obiettivo di disporre di ulteriori risorse per l'Ssn e di ridurre il consumo di tabacco, perché il tabagismo è un fattore di rischio anche per altre neoplasie, per malattie cardiovascolari e respiratorie», afferma il presidente dall'Aiom, Francesco Perrone. E i numeri gli danno ragione, perchè 9 diagnosi di tumore al polmone su 10 sono causate dal fumo, al quale in Italia possono essere attribuiti 40mila nuovi casi l'anno, che diventano 93mila considerando anche le altre forme di cancro, che costano al paese 26 miliardi in cure.
  4. Morte
    I precedenti
    sui
    binari

    filippo fiorini
    San Giorgio di Piano
    Tre ore prima dell'alba di ieri, tra una fila di more selvatiche e 9 colleghi che saldavano una rotaia, Attilio Franzini è finito sotto a un treno. Probabilmente perché aveva appena rallentato per attraversare la stazione di San Giorgio di Piano, l'intercity partito da Bologna e diretto a Trieste era praticamente impossibile da sentire, se non all'ultimo secondo. Il 47enne è stato colpito di spalle.
    La sua squadra operava su un binario morto, il 4. Tra loro e il trasfertista di Formia, Latina, c'era un'altra via di manovra, il binario 3, che come il precedente si estende poco oltre la lunghezza delle pensiline della stazione ed è transennato a nord e sud. Poi, il binario 2, soppresso nella notte per garantire la sicurezza del cantiere. Attilio era sul numero 1, l'unico attivo. Perché?
    Una torre faro mobile con generatore annesso. Una troncatrice per rotaie. Il carrello di servizio appoggiato a un muro e una tanica blu:
    Questo è quel che resta del posto di lavoro in cui è caduta la più recente delle oltre 370 morti bianche registrate quest'anno in Italia. È sotto sequestro dalle 4,30 di ieri. Un'indiscrezione proveniente dall'indagine per omicidio colposo, che la procura di Bologna ha aperto contro ignoti e che sta conducendo attraverso la Polfer, sostiene che i colleghi di Franzini abbiano detto che stava trasportando degli attrezzi verso un capanno. Ma non c'è nessun capanno in quella direzione e gli attrezzi sono tutti sul lato sicuro della massicciata. Un'altra fonte riferisce invece che nessuno dei sopravvissuti abbia spiegato perché uno di loro stava in mezzo a un binario aperto.
    Se tutte le persone presenti in loco, in servizio sui treni e nelle centrali di controllo avessero seguito alla lettera quanto indicato nelle oltre 200 pagine del documento "Istruzione per la protezione nei cantieri" che Rete Ferroviaria Italiana (Rfi) aggiorna dal 1986 a oggi, se tutti i meccanismi avessero funzionato correttamente, il fatto non sarebbe accaduto. Qualcosa, però, è andato ancora una volta tragicamente storto. A qualche ora dall'incidente, con il traffico attorno al nodo già ripreso e solo qualche ritardo sui convogli in viaggio tra Bologna e Venezia, è possibile affermare solamente che i semafori e i segnali acustici funzionano.
    Qualche anno fa, Franzini aveva lavorato alla nettezza urbana di Formia. In seguito, è passato alla Salcef, una società per azioni di Roma che aveva in appalto le riparazioni in cui ha perso la vita. Tanto questa società, come Rfi, e il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, hanno espresso «cordoglio e vicinanza alla famiglia», offrendo collaborazione e rimettendosi all'esito dell'inchiesta per esprimere ulteriori commenti. Attilio non era sposato e non aveva figli. Suo fratello Emanuele l'aveva sentito al telefono poco prima che incominciasse il suo ultimo turno di lavoro. «Si era lamentato della pioggia e del freddo». Si è raccomandato con lui che stesse in riguardo e poi, le chiamate del giorno dopo non hanno più ricevuto risposta.
    Oltre a Emanuele, lascia un altro fratello, Andrea, e il padre, Gino. Il sindacato Fiom-Cgil ha indetto uno sciopero di 4 ore alla Salcef. Molte altre associazioni di lavoratori ed esponenti politici hanno denunciato il preoccupante susseguirsi di morti bianche, usando termini come «strage» o «guerra». Hanno denunciato le storture derivanti dal sistema dei subappalti e accusato il governo di non fare abbastanza per la sicurezza. Nei primi 5 mesi del 2024, l'Inail ha contato 369 vittime, un aumento del 3, 1% rispetto al 2023.
    Per il contesto in cui è avvenuta, la morte di Franzini ricorda la strage di Brandizzo: in quella stazione, la notte del 30 agosto 2023 Michael Xanera, Giuseppe Sorvillo, Giuseppe Aversa, Saverio Giuseppe Lombardo e Kevin Laganà, operai in subappalto, morirono investiti da un treno, mentre riparavano i binari della Torino-Milano.
    Massimo, padre dell'ultimo di questi cinque uomini, ha detto: «Nessuno sta facendo un bel niente. Tutti promettono, a partire dai politici, e poi si continua a morire. Brandizzo non ci ha insegnato nulla».
  5. Si è concluso il processo d'appello Platinum sulle infiltrazioni della 'ndrangheta a Volpiano Pene fino a sei anni e undici mesi per Mario Vazzana, al fratello Giuseppe sei anni e otto mesi
    Condannati i "boss imprenditori" Assolto l'agente della municipale

    andrea bucci
    ludovica lopetti
    Si è concluso con tre condanne e due assoluzioni il secondo grado del processo Platinum sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Canavese, tra Volpiano e Chivasso. Ieri la Corte d'Appello ha confermato le condanne inflitte in primo grado per associazione mafiosa nei confronti dei fratelli imprenditori Mario e Giuseppe Vazzana. Erano proprietari di un impero tra hotel, auto e conti correnti per un totale di oltre otto milioni di euro, disseminato tra Chivasso, dove gestivano un bar, Volpiano - dove avevano un ristorante, una tabaccheria e due locali - e il Canavese.
    Considerati 'ndranghetisti di rango (quantomeno dal 1991) e legati alla potente enclave mafiosa degli Agresta, per i Vazzana ieri la Corte ha confermato le condanne in primo grado, infliggendo a Giuseppe Vazzana sei anni e otto mesi e al fratello Mario sei anni e undici mesi. È stata confermata, inoltre, la condanna a dieci mesi verso Antonio Agresta.
    Al processo è stato invece assolto Paolo Busso, agente della polizia municipale di Volpiano accusato di aver ‘abbuonato' sei multe a Giuseppe Vazzana (condannato a 6 anni e 8 mesi) e aver tratto in inganno una funzionaria dell'anagrafe per ottenere un indirizzo. Busso era accusato di abuso d'ufficio. È stato assolto «perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato» in seguito alla riforma Nordio. Riguardo alla seconda contestazione di cui doveva rispondere, la Corte ha giudicato «di particolare tenuità» l'accesso abusivo a sistema informatico che, secondo l'accusa, avrebbe commesso il vigile, che dovrà risarcire di mille euro il comune di Volpiano (assistito dall'avvocato Giulio Calosso).
    «È stata ridata dignità a una persona che non meritava di essere implicata in una vicenda molto più grossa di lui», ha commentato l'avvocata Gabriella Vogliotti, che difende Busso, dopo la sentenza.
    Con la stessa formula - «il fatto non è più previsto dalla legge come reato» - è stato assolto anche Domenico Aspromonte, che era imputato per la bancarotta dell'hotel La Darsena. In primo grado era stato condannato a sei mesi.
    Per Aspromonte il pm Valerio Longi aveva contestato l'associazione di stampo mafioso e l'estorsione in relazione a una vicenda relativa al ristorante Lago Reale. Durante le trattative per acquistare un'altra attività commerciale attraverso la srl omonima, Aspromonte e i fratelli Mario e Giuseppe Vazzana avrebbero chiesto un forte sconto sul prezzo d'acquisto - 200 mila euro a fronte di 290 mila chiesti dai venditori - per via di un presunto abuso da sanare, minacciando di fare «un lago di sangue». Il tribunale ha riqualificato il reato in esercizio arbitrario delle proprie ragioni e aveva prosciolto gli imputati per difetto di querela, visto che le vittime non avevano denunciato e il reato non è procedibile d'ufficio. «Non hanno escluso la sussistenza dei fatti, cancellati i reati, ma non i favori», commenta l'avvocato Calosso. Al processo, oltre a Volpiano, si è costituito parte civile anche il Comune di Chivasso, assistito dall'avvocato Andrea Castelnuovo. «Non c'è spazio per nessuna attività legata direttamente o indirettamente alla criminalità organizzata nel territorio cittadino», ha detto.—

 

 

05.10.24
  1. tenuta a gaza da un miliziano legato a isis
    L'Idf libera una yazida rapita 10 anni fa
    L'esercito israeliano ha annunciato il salvataggio di una donna yazida di origine irachena che era stata rapita dieci anni fa ed era tenuta prigioniera nella Striscia di Gaza da un miliziano di Hamas con legami con lo Stato Islamico (Isis). Le forze israeliane hanno spiegato che il miliziano è stato ucciso durante la guerra a Gaza, forse a causa di un bombardamento israeliano, e la donna, identificata come Fawzia Amin Sido, 21 anni, ha poi colto l'occasione per fuggire. La giovane donna è stata trasferita prima in Giordania e infine in Iraq, dove si trova la sua famiglia. L'attivista yazida irachena Nadia Murad, premio Nobel per la pace 2018, ha affermato su X che «questa ragazza yazida è stata rapita nel 2014. Dopo la caduta del califfato in Iraq e Siria (rispettivamente nel 2017 e nel 2019), l'Isis l'ha trasferita a Gaza. Ma non è l'unica detenuta a Gaza dall'Isis».
  2. UNA RETE MISTA AV E NORMALE NON E' SICURA LO VEDRETE AL PROSSIMO INCIDENTE :Non c'è una vera linea per l'alta velocità noi appesi a un chiodo per altri 10 anni
    Andrea Giuricin
    L'Italia spaccata in due da un chiodo apre una riflessione sul sistema ferroviario italiano che è e rimane un esempio a livello globale per quanto riguarda la liberalizzazione dell'alta velocità.
    Il guasto di ieri deve ancora essere compreso completamente, anche perché sembra una vicenda abbastanza assurda. Al di fuori di quanto le indagini in corso indicheranno circa le responsabilità, ci sono diversi fattori per i quali i guasti creano dei problemi così vasti sia in termini temporali che in termini geografici.
    In primo luogo, è chiaro che il Pnrr ha degli effetti importanti proprio sulla situazione attuale, perché i quasi 30 miliardi di euro d'investimenti (compresi i soldi derivanti dai fondi europei Cef), hanno un impatto con migliaia di cantieri aperti contemporaneamente.
    Questi cantieri provocano ritardi e cancellazioni sia per il settore passeggeri che per il settore merci, che in realtà in questo momento è in grandissima sofferenza con perdite di quasi 100 milioni di euro come ricorda spesso l'associazione Fercargo.
    I lavori, come quelli di questa estate che hanno portato ad avere allungamenti dei tempi di percorrenza per l'alta velocità tra Roma e Milano, sono necessari per migliorare la nostra infrastruttura che per tanti anni non ha visto grandissimi lavori.
    Questi lavori sulla rete, che continueranno fino al 2026 e oltre, creano problemi aggiuntivi quando ci sono dei guasti all'infrastruttura, perché eliminano di fatto i buffer esistenti (come se non ci fossero più delle vie alternative).
    Tornando al guasto di ieri, c'è da fare una puntualizzazione importante. L'incidente è successo nel nodo urbano di Roma, il più trafficato d'Italia e che, come ogni nodo urbano, vede insistere il traffico non solo dell'alta velocità, ma anche di treni regionali, intercity e finanche treni merci.
    Il traffico misto nei nodi è una caratteristica italiana e provoca complicazioni che ad esempio in Giappone, Spagna o Francia non esistono, perché in quei paesi, l'alta velocità viaggia completamente su linee dedicate e separate dal restante traffico.
    Il nodo di Roma, al minimo problema rischia di andare in difficoltà perché il traffico è molto denso. Solo nella stazione di Roma Termini ogni giorno transitano circa 1000 treni e di questi solo 300 treni sono ad alta velocità.
    La gran parte del traffico è dato dai treni pendolari che nel caso della stazione principale di Roma incidono per quasi i due terzi del traffico complessivo.
    Quindi si comprende che c'è necessità non solo di diminuire i guasti, e anche per questo ci sono i grandi investimenti di RFI, ma anche di avere strategie di corto, medio e lungo termine.
    Partiamo dal lungo termine e in questo caso si parla di grandi opere infrastrutturali. Si può pensare al nodo di Firenze, storicamente molto trafficato e in questo caso si sta costruendo un passante con la nuova stazione di Belfiore, dando una soluzione alternativa come succede ormai da qualche anno anche a Bologna. Ci vorrebbe probabilmente un passante per l'alta velocità anche a Milano, ma è chiaro che per queste opere ci vogliono lustri e non anni.
    Ci sono poi soluzioni di medio termine, quale ad esempio la soluzione tecnologica dell'Ertms alta densità. Questo sistema di segnalamento permette di avere più treni a distanziamento minore ed in sicurezza sulle stesse linee esistenti. Di fatto si crea nuova capacità proprio in quei nodi dove la capacità inizia ad essere scarsa.
    Infine, nel breve termine c'è da risolvere il problema della congestione nelle due principali stazioni italiane, vale a dire Roma Termini e Milano Centrale. In questo caso la soluzione passa attraverso una prioritizzazione del traffico che deve essere fatta in funzione di criteri socio-economici. I treni "meno importanti" devono fermarsi nelle stazioni di Roma Tiburtina e Milano Garibaldi, andando a risolvere parzialmente e nel breve periodo i problemi delle stazioni congestionate.
    C'è però da essere franchi e ricordare che, con i tanti lavori sulla rete attuale, i problemi continueranno ad esserci per i prossimi anni. —
    *Docente di Economia dei trasporti all'Università Bicocca
  3. nove indagati. Perquisite le sedi di roma, milano e firenze
    Indagine sugli appalti concessi dall'Anas Accuse di corruzione per 846mila euro
    monica serra
    milano
    Mazzette in cambio di gare da centinaia di milioni di euro. È questa l'ipotesi della procura che indaga su un presunto sistema di appalti pubblici truccati che ruota attorno ai fratelli Stefano, Luigi e Marco Liani. Il primo è tuttora responsabile della struttura Anas Toscana, gli altri due «ex funzionari pubblici che, in virtù del ruolo rivestito in Anas, dopo aver interrotto il rapporto lavorativo con la società pubblica per passare all'imprenditoria privata, continuavano a operare nel settore dell'edilizia pubblica e della costruzione e manutenzione di strade e autostrade attraverso società a loro riconducibili» come si legge nei decreti con cui ieri il Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf ha perquisito le tre società riconducibili alla famiglia Liani e i nove indagati coinvolti nell'inchiesta: 4 di loro sono ancora oggi funzionari Anas. Acquisizioni di documenti sono state condotte invece nelle sedi di Anas di Roma, Milano e Firenze. Ma anche negli uffici del Consorzio stabile Sis di Torino che fa capo alla famiglia Dogliani.
    Quattro gli episodi su cui stanno lavorando i pm coordinati dalla procuratrice aggiunta Tiziana Siciliano, che ipotizzano a vario titolo le accuse di corruzione, turbativa d'asta e rivelazione del segreto d'ufficio. Il primo ruota attorno al Consorzio stabile Sis che non risulta indagato.
    Si sarebbe aggiudicato nel 2019 un appalto da oltre 388 milioni di euro per i lavori sulla SS340 Regina – Variante Tremezzina mentre «intratteneva rapporti di lavoro personali» per cui pagava fatture a Stefano Liani (486 mila euro) e al collega Eutimo Mucilli (360 mila euro). Somme per i pm «funzionali a garantire fedeltà e benevolenza dei due alti dirigenti pubblici». Gli altri episodi riguardano invece due lotti della A4 Brescia-Soave; i 33 km della SS 469 Sebina occidentale (un appalto da 2 milioni e mezzo di fatto subappaltato alla Nuove iniziative spa di Marco Liani) e quello per i lavori della Statale 412 della Val Tidone.
  4. l'allarme nel Rapporto aris: 6 pazienti su 100 vittime di infezioni durante la degenza
    "Settemila decessi l'anno per gli errori in corsia"
    paolo russo
    Un milione di ricoverati l'anno è vittima di errori in corsia. E tra i sei e i settemila muoiono a causa di questi. Un intervento o una terapia sbagliati, ma in oltre sei casi su dieci per colpa delle infezioni contratte proprio in ospedale. Per uso improprio dei cateteri, per scarsa igienizzazione degli ambienti e degli impianti di aerazione. O perché non si fanno i tamponi in ingresso ai pazienti fragili che possono così portare in corsia i super batteri resistenti agli antibiotici, come la Klebsiella o il Clostridium difficile. Fatto è che i nostri nosocomi sono molto meno sicuri di quel che dovrebbero. A denunciarlo è un Rapporto dell'Aris, l'associazione degli ospedali cattolici. Una pandemia silente che per ogni 100 pazienti ricoverati – si legge nel rapporto- ne colpisce 6,3, vittime di infezioni durante la degenza in ospedale. Su un totale di oltre 10 milioni di ricoveri annuali oltre 600 mila si infettano e almeno l'1%, ossia seimila e più di questi pazienti, va poi incontro al decesso. Morti evitabili in oltre il 50% dei casi con una corretta adesione alle linee guida di prevenzione, quelle per le infezioni del sito chirurgico in particolare.
    Se errori ed infezioni dilagano nei nostri ospedali, altrettanto rapidamente lievitano i contenziosi giudiziari, che oramai marciano al ritmo di 30 mila cause l'anno, mentre sono 3,8 milioni i casi pendenti nei tribunali. Una mole di contenziosi che finisce per costare 11 miliardi l'anno, spingendo verso la cosiddetta "medicina difensiva", quella che per paura di incappare in una causa fa prescrivere o operare ai medici anche quando non serve e li frena a farlo quando invece servirebbe ma i rischi per i pazienti sono troppo alti. —

 

 

 

04.10.24
  1. la procura di firenze: non ha comunicato i 42 milioni in regalo
    "Processate Dell'Utri per i soldi da Berlusconi"
    La procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per Marcello Dell'Utri e per la moglie Miranda Ratti in relazione alla mancata comunicazione delle variazioni patrimoniali, cosa cui Dell'Utri era tenuto per la legge Rognoni-La Torre come condannato con sentenza definitiva per concorso esterno in associazione di tipo mafioso nel 2014. Le accuse, a vario titolo, sono di trasferimento fraudolento di valori e di mancata comunicazione delle variazioni le quali, nei saldi di un decennio, la Dda di Firenze ha stimato per un ammontare di 42.679.200 euro. Nel marzo 2024 la Dda aveva ottenuto il sequestro preventivo di 10,8 milioni di euro individuati nei flussi nei conti correnti di Dell'Utri e di sua moglie. Per l'accusa le movimentazioni di denaro da Berlusconi verso i conti di Miranda Ratti erano in realtà a favore di Dell'Utri, ma lui non avrebbe comunicato niente alle autorità.
  2. LUIGI CHIAPPERO Parla l'avvocato che denunciò il racket per conto della Juventus
    "Stop al monopolio delle curve nel tifo bisogna vietare le trasferte ai gruppi"
    giuseppe legato
    torino
    In passato, ha assistito la Juventus in un lungo percorso di denuncia a proposito di minacce e intimidazioni degli ultrà alla società concluso con le condanne dei tifosi. Ed è dunque, l'avvocato Luigi Chiappero un tecnico sul tema stadi e curve.
    Cosa sta succedendo negli stadi italiani?
    «Direi che finalmente ci si sta muovendo per capire cosa succede all'interno delle strutture che non sono più zone franche. Il caso di Milano si configura come un intervento quanto mai opportuno».
    Dica la verità, le sembra un film già visto: ultrà che ricattano personale delle società, criminalità comune e organizzata che scalano le gerarchie del tifo…
    «La fermo subito».
    Per dire cosa?
    «Che a Torino la chiarezza è stata fatta anni fa senza che ci scappasse il morto per merito di un'azione congiunta di procura, questura e società».
    Perché siamo arrivati a questo punto?
    «Sono state tollerate situazioni che in fondo andavano bene a tutti. Perché fa piacere vedere le curve colorate che fanno festa negli stadi. Ma è ora di cambiare mentalità».
    E come si cambia la testa del tifoso?
    «Comprendendo che il tifo non è appannaggio dei gruppi organizzati, ma è di tutti. Mi passi la battuta: abbiamo in Italia una tradizione canora internazionale e non mi pare il caso di appaltare a un ultrà il lancio dei cori salvo poi sentire che il primo è "Noi non siamo napoletani"? Io, il Napoli, lo voglio battere 4-0 sul campo».
    Gli arresti risolvono da soli la questione?
    «Le investigazioni hanno liberato gli spazi che ci erano stati tolti per una nuova democrazia negli stadi. Sta a noi, tifosi comuni e appassionati riappropriarci di essi. Serve un cambio culturale. E poi c'è il tema trasferte»
    Cosa c'entrano le trasferte?
    «Ci vuole una uniformità di trattamento da parte di tutte le questure d'Italia: per esempio a Torino c'è molta rigidità nel senso che chi viene da fuori e non è in regola viene fermato fuori dallo stadio».
    E poi?
    «E poi è impensabile che delle persone per bene, che stanno a Torino e domenica prossima vogliono vedere il loro Cagliari in curva debbano aspettare un'ora per uscire dallo stadio scortati da un numero imponete di forze dell'ordine. Piuttosto si vietino le trasferte ai gruppi organizzati».
    Basta questo?
    «Ovviamente no. Una volta fatti gli interventi che stiamo vedendo bisogna essere in grado di mantenere la situazione regolarizzata. Sento dire che qualcuno vuole dare più potere ai privati, non è questa la strada».
    Per intenderci: non basta aumentare il numero degli steward?
    «Un ragazzo di 22 anni, anno più anno meno, pagato pochi euro l'ora, euro più euro meno, non può fronteggiare situazioni che già sono difficili per chi della tutela della sicurezza ne ha fatto un mestiere».
    Cosa devono fare le società?
    «C'è un profilo tecnico oltre che di merito: devono mettere a disposizione degli stadi moderni che abbiano tecnologie tali da mettere gli inquirenti nelle condizioni di intervenire con fermezza: e in Italia ci sono pochissime strutture attrezzate per questo».
  3. Feletto, il titolare di una ditta di materiale elettrico insospettito per gli ammanchi in magazzino La indagini dei carabinieri hanno portato a perquisizioni e denunce: due uomini e una donna
    Dipendenti infedeli in fabbrica rubavano per rivendere sul web

    alessandro previati
    Avevano organizzato tutto nei minimi dettagli: dal furto dei materiali fino alla vendita online sottoprezzo. A metterli nei guai, prima ancora delle meticolose indagini dei carabinieri di Rivarolo, ci ha pensato la frequenza stessa dei furti che, alla fine, ha insospettito i responsabili dell'azienda.
    Tre persone, due uomini di 33 e 44 anni e una donna di 46, sono stati denunciati per ricettazione in concorso dai militari dell'Arma. Uno dei complici è un dipendente di una ditta di Feletto, la Zeca, alla quale, secondo le indagini, era solito sottrarre dai magazzini, turno dopo turno, materiali elettrici di vario tipo. In particolare torce, lampade, avvolgi tubi e cavi. Tutti oggetti facili da rivendere via internet per i quali c'è sempre una grande richiesta. L'indagine lampo è nata a seguito della denuncia del titolare dell'azienda che, insospettito dagli ammanchi consistenti nel magazzino della propria ditta, ha deciso di rivolgersi ai carabinieri di Rivarolo. Ed è allora che i militari hanno individuato l'autore dei furti in un dipendente della ditta in questione, scoprendo quasi subito dei rapporti piuttosto stretti fra questo ed un altro operaio, ex dipendente della stessa azienda. Una serie di controlli a spot, nel corso delle ultime settimane, hanno permesso di acquisire la certezza del coinvolgimento dei due. Così l'altro giorno è scattata una perquisizione a carico del dipendente dell'azienda di Feletto, proprio al termine del turno di lavoro. I sospetti si sono concretizzati quando gli investigatori, nascosto nell'auto, hanno ritrovato del materiale appena sottratto dal magazzino. A quel punto sono scattate ulteriori perquisizioni, nelle abitazioni dei due uomini e della fidanzata di uno dei due.
    I militari hanno così potuto recuperare un'ingente quantità di materiale sottratto precedentemente allo stabilimento di Feletto, per un valore complessivo di circa 50 mila euro. Alcuni pezzi, trovati a casa della donna, erano già impacchettati e pronti per essere spediti a seguito della vendita on-line. Tutta la refurtiva è stata sequestrata in attesa della restituzione al legittimo proprietario. I tre, invece, incensurati e residenti in Canavese, sono stati denunciati a piede libero alla procura di Ivrea. Secondo le indagini la loro attività era iniziata già nella primavera dello scorso anno ed ora sono in corso ulteriori accertamenti per ricostruire la filiera dei clienti che (probabilmente) in buona fede, attraverso alcune piattaforme online, hanno acquistato i materiali rubati. Tutte transazioni probabilmente tracciate che serviranno a chiarire il giro d'affari messo in piedi dai tre. La facile vendita online, seppur a prezzi scontati, ha evidentemente convinto i componenti della banda a continuare con i furti, forse aumentando anche la frequenza dei «prelievi» non autorizzati dal magazzino. Un errore perché in questo modo l'imprenditore di Feletto si è accorto degli ammanchi e i carabinieri di Rivarolo sono riusciti ad incastrarli.

 

 

03.10.24
  1. Liste d'attesa
    la grande illusione
    Paolo Russo
    roma
    «Decreto fuffa» lo aveva definito Elly Schlein, vista la pochezza di risorse stanziate in piena campagna elettorale dal governo per abbattere le liste di attesa. Ora a distanza di 4 mesi dal suo varo, il DL venduto come toccasana per accorciare i tempi per visite e tac è ancora fermo al palo, perché mancano tutti i provvedimenti attuativi previsti per mettere le gambe al "piano Schillaci".
    Tanto per cominciare non c'è traccia del provvedimento che dovrebbe definire le modalità di applicazione della norma "salta code". Nucleo centrale del decreto, nel quale si stabiliste il diritto dell'assistito ad ottenere in automatico il rimborso delle prestazioni ottenute dal privato quando il pubblico non rispetta i tempi massimi stabiliti dal Piano nazionale liste di attesa. In teoria un passo avanti rispetto a oggi, perché al momento prima si anticipano i soldi e poi si chiede il rimborso con tanto di Pec e prova documentale di non aver ottenuto la prestazione nei tempi massimi stabiliti per legge. Un percorso arzigogolato che rende di fatto inesigibile il diritto. Che tale resterà fino a quando non verrà alla luce il decreto attuativo che spiega come saltare la fila senza sborsare denaro. Anche perché nessuno a fino ad ora visto il protocollo d'intesa Salute-Mef-Regioni che deve indicare come impiegare le risorse non spese in passato per abbattere le liste di attesa. Parte di 500 milioni, probabilmente insufficienti a finanziare il "salta code", ma che così resteranno ancora chissà per quanto inutilizzati. L'intesa era attesa entro 60 giorni dal varo del decreto legge ma non ce n'è nemmeno traccia.
    Missing è poi il decreto attuativo di un altro tassello fondamentale, quello che fa scattare i poteri sostitutivi dello Stato quando le Regioni sono inadempienti nell'applicare le misure taglia liste. In un primo momento il provvedimento, fortemente voluto da Schillaci, affidava al suo ministero poteri ispettivi e sanzionatori, che arrivavano ad attribuire agli ispettori ministeriali il compito di far scattare sanzioni e persino le manette nei casi più gravi. Una stretta che aveva fatto insorgere i governatori che erano riusciti ad ottenere da Giorgia Meloni il depennamento della norma, mitigato però dai poteri sostitutivi dello Stato, senza i quali anche il resto del castello rischia di sgretolarsi, lasciando in ogni caso alle regioni il doppio ruolo di controllori e controllati. La definizione dei poteri sostitutivi doveva essere messa nero su bianco entro il 7 luglio ma ancora si è in attesa di un testo. Così come manca il decreto, previsto entro 30 giorni, che dovrebbe provvedere alla «Classificazione e Stratificazione della popolazione», ossia a programmare l'offerta delle cure. Aspetto non trascurabile del piano taglia tempi di attesa.
    L'unico decreto attuativo messo per ora nero su bianco è quello che contiene le linee guida per realizzare la piattaforma nazionale sulle liste d'attesa, essenziale per monitorare i tempi di attesa reali per visite specialistiche e accertamenti diagnostici, visto che quelli riportati dai siti regionali risultano essere spesso poco attendibili. Un tassello importante del piano, perché bisogna prima sapere dove le cose non vanno per poter poi intervenire. Secondo il decreto di giugno le linee guida dovevano essere adottate entro 60 giorni dal suo varo, ossia al massimo il 29 agosto. Da pochi giorni abbiamo il testo che è però ben lungi dall'essere approvato dalla Conferenza delle Regioni, che ne ha appena iniziato l'esame a livello tecnico. Con il risultato che, secondo quanto ammesso dallo stesso ministero della Salute, la piattaforma non sarà operativa prima di gennaio, se non febbraio. Come dire che fino ad allora non sarà possibile sapere chi rispetta i tempi e chi no e quindi nemmeno mettere in atto le misure pensate per accorciare i tempi.
    «Questo ritardo sul piano è inaccettabile, incomprensibile e insostenibile per i cittadini che si misurano tutti i giorni con il problema di attese troppo lunghe per curarsi. Se Regioni e governo ritardano ancora bisogna pensare a un commissario straordinario per le liste d'attesa», propone Tonino Aceti, presidente di Salutequità. Tentando così di tirare fuori il decreto liste di attesa dalle sabbie mobili in cui lo tiene impantanato la burocrazia.
  2. L'affaire
    Scajola

    mattia mangraviti
    imperia
    Una nuova grana, fonte di più di qualche imbarazzo, si abbatte su Claudio Scajola. La causa sull'ineleggibilità a sindaco di Imperia approda davanti alla Cassazione. È l'ultimo capitolo di una vicenda nata dal ricorso presentato da tre consiglieri comunali di opposizione, Ivan Bracco, Luciano Zarbano e Lucio Sardi, contro l'elezione dell'ex ministro dell'Interno e che rischia di complicarsi ulteriormente per una recente pronuncia della Corte dei Conti sull'ingresso del Comune di Imperia in Rivieracqua, società consortile incaricata della gestione del servizio idrico in provincia di Imperia. Un doppio incarico che potrebbe rivelarsi incompatibile, un caso di conflitto d'interessi piuttosto imbarazzante, almeno a detta della magistratura contabile.
    Al centro della vicenda c'è l'incarico di commissario ad acta assegnato a Scajola dalla Regione Liguria con decreto firmato dal presidente Giovanni Toti: una nomina che, a detta dei ricorrenti, era incompatibile con il ruolo di primo cittadino. In primo grado il Tribunale di Imperia ha respinto il ricorso in quanto «non ravvisabile alcuna forma di controllo istituzionale da parte del commissario sul Comune di Imperia», accogliendo di fatto la tesi difensiva del legale dell'ex ministro, il vice sindaco di Genova Pietro Piciocchi. La causa è poi approdata in Appello dove la Corte, a sorpresa, non è entrata nel merito e ha annullato la sentenza di primo grado per un problema di notificazione rimandando gli atti al Tribunale di Imperia. In sostanza i ricorrenti, secondo i giudici di secondo grado, avrebbero erroneamente chiamato in causa Scajola in quanto sindaco di Imperia e non come persona fisica. Da qui la nullità dell'intero procedimento.
    Ma è la Corte dei Conti a rimettere tutto in discussione. Dando il via libera all'ingresso del Comune di Imperia in Rivieracqua, scrive che l'operazione «è stata avallata dal commissario». Scajola che avalla Scajola, insomma. E, ancora, che «sulla base delle proiezioni fornite dal commissario (sempre Scajola, ndr) in esito all'operazione il Comune di Imperia (e dunque nuovamente l'ex ministro, ndr) dovrebbe acquisire una partecipazione in Rivieracqua spa pari al 28,63%». Ma non è tutto. Perché anche la delibera con la quale il Consiglio comunale ha approvato l'ingresso del Comune in Rivieracqua lascia qualche dubbio. L'aula, infatti, trasmette l'atto al commissario ad acta «per quanto di competenza» e «dichiara la deliberazione immediatamente eseguibile al fine di rispettare il termine del 30 aprile 2024 stabilito dal commissario ad acta». Il Consiglio comunale presieduto da Scajola, insomma, invia gli atti a Scajola per rispettare i termini stabiliti da Scajola.
    Considerazioni che per lo meno aprono qualche interrogativo sul fatto che non sia ravvisabile «alcuna forma di controllo istituzionale da parte del commissario sul Comune di Imperia». Una pronuncia che rischia di mettere più di un dubbio al Tribunale nuovamente chiamato a esprimersi sulla presunta ineleggibilità del sindaco.
    Scajola in un primo momento si era lasciato andare a toni trionfalistici: «Altra sconfitta per Bracco e Zarbano, la verità viene sempre fuori». Ora ha deciso di impugnare la sentenza di Appello davanti alla Cassazione. A oggi, però, la situazione risulta radicalmente cambiata rispetto al passato dato che la pronuncia della Corte dei Conti rischia di mettere il sindaco in una posizione piuttosto scomoda, almeno sulla carta.
    Per Scajola si tratta dell'ennesima querelle giudiziaria nel corso di una lunga carriera politica contraddistinta da grandi successi e rovinose cadute. Dalle polemiche per il G8 (era ministro dell'Interno quando morì Carlo Giuliani) alla casa al Colosseo pagata in parte a sua insaputa da un imprenditore (fu assolto in primo grado e poi prosciolto per prescrizione), dal caso Biagi, ucciso dalle Nuove Br (di lui disse «era un rompicoglioni») all'arresto per aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena (condannato in primo grado a due anni di carcere, poi prosciolto per prescrizione). Un percorso tortuoso che però non ha impedito all'ex ministro di recitare a Imperia ancora un ruolo da grande protagonista. Sindaco, presidente della Provincia e commissario dell'autorità idrica, tira le fila della politica ponentina con all'orizzonte un ritorno nei salotti che contano, tra i vertici dell'amata Forza Italia dell'amico Tajani. —

 

 

 

 

02.10.24

  1. L'incontro con Fink, ad del fondo. Un comitato per gli investimenti su AI, energia e trasporti
    Meloni chiede il soccorso della grande finanza
    Cabina di regia a Chigi per i soldi di BlackRock
    ilario lombardo
    roma
    «No alla grande finanza internazionale» urlava Giorgia Meloni dal palco di Vox a Marbella, il 12 giugno 2022. Due anni dopo, il governo guidato dalla leader di Fratelli d'Italia apre il portone di Palazzo Chigi e il mercato italiano al più grande fondo finanziario del mondo. Il bagno di realtà del governo – e dei soldi a disposizione – vale più delle promesse elettorali dal facile suono populista. I soldi del Pnrr finiranno nel giro di un paio di anni e le casse dello Stato saranno ancora più strizzate dalle nuove regole fiscali europee. Il privato, anche se è lo squalo globalista, vecchio nemico di tanti comizi di Meloni, torna molto utile oggi. Un comitato composto dai principali collaboratori della premier sarà l'interlocutore formale e istituzionale di BlackRock. È il risultato dei 35 minuti di colloquio tra Meloni e Larry Fink, il numero uno del fondo con sede a New York che gestisce oltre 9 trilioni di dollari di patrimonio globale, 102 miliardi per conto di clienti italiani. I due si erano già visti a Borgo Egnazia, nel corso del G7, durante la Partnership for Global Infrastructure and Investment, copresieduta dalla presidente del Consiglio e dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden.
    Secondo una nota di Palazzo Chigi, il gruppo di lavoro che verrà costituito a breve sarà una sorta di cabina di regia e avrà il compito di individuare e «coordinare i progetti che andranno sviluppati in collaborazione» con BlackRock. Dovrebbero farne parte quasi sicuramente il consigliere diplomatico Fabrizio Saggio e il capo di gabinetto Gaetano Caputi. Di fatto riguarderà società partecipate e settori strategici, a partire ovviamente dall'Intelligenza Artificiale, ambito a cui la premier italiana ha dedicato importanti colloqui già durante la missione a New York, a margine dell'Assemblea Onu, dove ha incontrato non solo il supermiliardario Elon Musk, ma anche i vertici di Google, Open Ai, Motorola. Meloni e Fink hanno analizzato i margini di investimento nell'ambito di sviluppo di data center e delle correlate infrastrutture energetiche di supporto. Si tratta di trovare enormi bacini di alimentazione. Secondo fonti finanziarie vicine al fondo, gran parte dell'incontro – al quale era presente anche il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti – si è focalizzato proprio su questo, in particolare su come gestire i nuovi centri di elaborazione sul territorio nazionale. È il cuore del business che fa gola ai giganti digitali, compresa Microsoft che con BlackRock sta già investendo su infrastrutture informatiche ed energetiche.
    In tal senso, spiegano le stesse fonti vicine al dossier, «non si può escludere una collaborazione con Enel, con il fine ultimo di raccogliere la sfida energivora dell'AI». I dialoghi sono a un «buon stadio d'avanzamento», ma l'intenzione di BlackRock è quella di mantenere la massima prudenza. «Si tratta di un dossier molto delicato, che ha richiesto una discussione dettagliata sui prossimi passaggi».
    Il colosso statunitense è già ampiamente presente, con i suoi miliardi, in grandi aziende e banche italiane. E dal momento che è il secondo azionista di Enel, dopo lo Stato italiano, circolano indiscrezioni riguardo a un'ulteriore salita nel capitale della società energetica guidata da Flavio Cattaneo. Oltre agli utilizzi delle reti per pompare energia dentro i data center per l'AI, un interesse particolare è quello delle colonnine di ricarica per i veicoli a trazione elettrica. Un ambito che, salvo sorprese, potrebbe essere discusso prima della fine dell'anno. Negli stessi mesi in cui, dopo aver conquistato il 3 per cento di Leonardo, dovrebbero finalizzarsi le trattative con Sace, gruppo assicurativo-finanziario di sostegno alle imprese nazionali controllato dal Ministero dell'Economia: in ballo c'è la gestione di asset fino a 3 miliardi di euro. Ma gli obiettivi di Fink sono tanti altri. Nel confronto con Meloni sono stati toccati possibili partecipazioni pure nel settore idrico, nei trasporti (BlackRock è già dentro Italo), in strutture portuali aeroportuali, e si è discusso di un ruolo di primo piano all'interno del Piano Mattei. Meloni cerca risorse per finanziare tutti i progetti di sviluppo che faticano a essere avviati con i Paesi africani. E Fink ha già un'idea su quali strumenti utilizzare. BlackRock sta lavorando a un secondo fondo sulla finanza climatica, al quale vuole che partecipi anche l'Italia. —

  2. la fed punta a due tagli del costo del denaro entro l'anno
    Draghi: verso una stagione di tassi alti
    MARCO BRESOLIN
    CORRISPONDENTE DA BRUXELLES
    L'epoca dei tassi d'interesse negativi non tornerà. Anzi, «vivremo in un periodo in cui avremo pressioni da deficit troppo alti e un eccesso di domanda», quindi «potenzialmente con livelli d'inflazione più alti e tassi più alti». È la previsione di Mario Draghi, l'uomo che per 8 anni ha gestito la politica monetaria a capo della Bce in una fase critica per l'economia europea. Pur rispondendo con un «no, grazie» a chi ha provato a rimetterlo per un attimo nei panni del banchiere centrale, Draghi è tornato brevemente sulla questione durante una discussione organizzata dal think tank Bruegel e dedicata al suo rapporto sulla competitività realizzato per conto della Commissione. Poche ore dopo, intervenendo al Parlamento europeo, Christine Lagarde ha mantenuto le carte coperte sulla decisione che sarà presa a ottobre dalla Bce, mente oltre oltreoceano Jerome Powell, presidente della Fed, prevede altri due tagli dei tassi, per un totale di 50 punti entro l'anno, visto che l'economia Usa «è solida».
    Draghi ha molto insistito sulla necessità di aumentare gli investimenti, ricordando che la cifra di 800 miliardi annui citata nel report è frutto di «una stima prudente». Ha ribadito che una quota significativa dovrà essere costituita da fondi pubblici, ma che gli Stati non hanno i mezzi per poterla sostenere e che bisognerà agire a livello europeo. Se necessario, anche con l'emissione di debito comune.
    Alla luce delle reazioni negative in alcune capitali, il tema resta controverso, ma Draghi avrà la possibilità di confrontarsi con i 27 leader Ue al vertice informale che si terrà all'inizio di novembre a Budapest . L'appuntamento cadrà a poche ore dall'elezione del nuovo presidente Usa e Draghi ha messo in guardia l'Europa dai rischi del protezionismo. Quella dell'Ue, ha sottolineato, «è un'economia aperta e se facessimo come gli Usa ci danneggeremmo da soli».
    Su una cosa, però, è tornato a martellare: «Tutti i nostri Paesi sono troppo piccoli per essere all'altezza delle sfide attuali». Serve «una sovranità europea» perché «la sovranità nazionale è troppo debole come concetto». Ed è in questa chiave che dovrebbe maturare lo scambio già alla base del Next Generation EU: cessione di una parte della sovranità (riforme concordate a livello europeo) in cambio di risorse comuni. Anche perché, secondo Draghi, «l'attuazione delle riforme ridurrà l'ammontare degli investimenti necessari».

  3. I nerazzurri intercettati
    Marco Ferdico
    "
    La mafia d i San Siro
    I rossoneri intercettat
    i
    Gherardo Zaccagni
    Andrea Beretta
    Luca Lucci
    monica serra
    andrea siravo
    milano
    Parcheggi, biglietti, trasferte, merchandising. Ricchi business criminali che garantiscono una montagna di soldi dentro e fuori San Siro, e che con la passione sportiva non hanno nulla a che vedere. Del resto, come diceva intercettato il capo ultrà nerazzurro Andrea Beretta: «Lo sai benissimo. .. io non faccio le cose per lo striscione... a me non me ne frega un emerito c…! Nessuno lavora per il popolo». Affari milionari ottenuti con le botte e le minacce («Non mi tradire sennò mi tocca ammazzarti») che le Curve di Inter e Milan si spartivano in base a un «patto di non belligeranza» che ha moltiplicato i «comuni profitti». E ha fatto diventare il Meazza «terra di nessuno» piegando i club a una «situazione di sudditanza rispetto agli ultrà», come sottolinea il gip Domenico Santoro nel provvedimento che, all'alba di ieri, ha azzerato i direttivi delle Curve.
    Sono 19 in tutto le misure cautelari: 16 in carcere, 3 ai domiciliari nell'indagine della Dda, diretta da Alessandra Dolci. A cui si aggiungono una pioggia di Daspo del questore Bruno Megale. Tra gli arrestati figurano i capi della Nord, Andrea Beretta – già in carcere per l'omicidio di Antonio Bellocco, ucciso con venti coltellate il 4 settembre a Cernusco sul Naviglio – e Marco Ferdico con il padre Gianfranco. Ma anche i capi della Sud, il narcos Luca Lucci e il fratello Francesco. Sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere – in alcuni casi aggravata dalla agevolazione mafiosa – dedita a una sfilza di estorsioni per fare la cresta su biglietti, abbonamenti, ingressi gratuiti e mettere le mani su servizi di catering e di vendita di bevande nello Stadio. Ma anche aggressioni e pestaggi contro steward, tifoserie rivali, bagarini e magliettari per imporre il loro predominio.
    Pesanti pressioni sono state esercitate sulle società di Inter e Milan che, come ha specificato il procuratore Marcello Viola sono considerate «parti lese» in queste indagini. Ma che hanno più volte ceduto alle intimidazioni e ora rischiano il commissariamento con l'apertura di un procedimento di prevenzione e la nomina di due consulenti della procura che le aiuteranno a munirsi dei «necessari anticorpi per evitare che col cambio dei volti sulla balaustra la situazione si ripeta», specifica il pm Paolo Storari che ha coordinato le indagini con la collega Sara Ombra. Nonostante i divieti di legge, negli atti dell'inchiesta della Squadra mobile sono certificati i contatti dei capi della Nord con il calciatore slovacco Milan Skriniar che hanno provato a convincere di restare all'Inter mentre «tremava dalla paura». Ma anche con l'allenatore Simone Inzaghi e l'ex calciatore ancora vicino alla squadra Marco Materazzi. Emblematico l'episodio della finale di Champions contro il Manchester City. I capi della Nord pretendono dal club 1.500 biglietti da rivendere. Sotto la minaccia di «non andare a Istanbul e non tifare», Marco Ferdico telefona anche a Inzaghi e gli chiede di intervenire: «Te la faccio breve mister...ci hanno dato mille biglietti...noi abbiamo bisogno 200 in più per esser tranquilli...ma non per fare bagarinaggio mister... arriviamo a 1200 biglietti?». È l'allenatore a rispondere: «Parlo con Ferri con Zanetti con Marotta… poi ti faccio sapere qualcosa... gli dico che ho parlato con te e che tanto avevi già parlato con Ferri e Zanetti… Marco io mi attivo e ti dico cosa mi dicono». Il capo ultrà chiede poi l'intercessione di Materazzi che si impegna: «Fammi... fammi provà… fammi provà». È sempre lui a rivelargli il motivo del dietrofront del club: «I biglietti da 80 li rivendono a 900… questo mi è stato detto, tienilo per te». Alla fine, la società cede a pochi giorni dal match.
    Al direttivo nerazzurro viene anche contestata l'aggravante dell'agevolazione mafiosa per aver favorito la cosca dei Bellocco di Rosarno dopo l'omicidio dell'ex leader della Curva Vittorio Boiocchi, con la scalata dell'erede Antonio Bellocco, Toto u'Nanu, che ha garantito i guadagni alla famiglia in Calabria anche per finanziare i detenuti fino alla morte, per mano di Beretta. Come accertato dalla polizia, era stato Ferdico a procurargli casa e lavoro fittizio col compito di arginare gli appetiti degli altri gruppi criminali. Ma il potere assunto da Bellocco, lo «spacchioso calabrotto» era sempre più ingombrante. Diceva Beretta intercettato: «A parte che tu di stadio non capisci un c… devi solo firmare e lascia fare a noi...tu fai quello che devi fare, cioè mandare via i tuoi paesani…».
    Capitolo a parte è quello relativo alla gestione dei parcheggi su cui ha indagato anche la Gdf e gestito soprattutto da Giuseppe Caminiti, legato al boss di 'ndrangheta Giuseppe Calabrò, u'dutturicchio. Insieme hanno permesso all'imprenditore Gherardo Zaccagni con la «società Kiss and Fly» di accaparrarsi i parcheggi dello stadio in cambio del pagamento di un obolo di 4 mila euro al mese ai capi della Curva. Un affare per cui è indagato anche il consigliere regionale di centrodestra Manfredi Palmeri, ex manager di «M.I. Stadio srl» ed ex componente della commissione antimafia del Comune. È lui l'uomo identificato da Zaccagni per intercedere con la dirigenza rossonera e ottenere la gestione dei parcheggi in cambio di un quadro da 10 mila euro che ieri è stato sequestrato a casa sua nel corso della perquisizione. Contro di lui si ipotizza la corruzione tra privati.
    «Non è giusto dire che tutti gli ultrà sono criminali – è il commento del procuratore della Dna Giovanni Melillo – ma che una componente non secondaria del mondo ultrà pratichi attività criminali è sotto gli occhi di tutti. Bisogna smettere di far finta di niente». —

  4. Il cantante, non indagato, fino a un paio di giorni fa si è fatto fotografare con due degli arrestati
    I legami di Fedez con narcos e picchiatori Il business dei concerti in giro per l'Italia

    monica serra
    milano
    Dai servizi di sicurezza all'intera organizzazione di eventi e concerti in Italia e all'estero. Sono tante «le ambizioni imprenditoriali» del narcos Luca Lucci, come emerge dall'indagine dell'Antimafia che ha azzerato le Curve milanesi. «Il suo ruolo di capo della Sud gli ha consentito di tessere, relazioni di carattere lavorativo nel settore musicale con noti artisti italiani come Fedez, Emis Killa, Lazza, Tony Effe, Cancun, Gue Pequeno» permettendogli di moltiplicare «in maniera esponenziale e con pochissimi controlli i guadagni» fino a gestire «i concerti di questi artisti, sia sul territorio nazionale, sia internazionale». E ora il gip Domenico Santoro chiede alla polizia di approfondire queste relazioni pericolose.
    Prima tra tutte, quella con Fedez, che in questa inchiesta non è indagato ma che fino a due giorni fa si è fatto fotografare in un hotel di Parigi in compagnia del suo bodyguard Christian Rosiello e dell'amico picchiatore Islam Hagag, noto come Alex Cologno, dopo gli scatti di quest'estate su un lussuoso yacht a Porto Cervo. Entrambi sono finiti in carcere: frequentazioni compromettenti che anche l'ex moglie, Chiara Ferragni, ha in più occasioni criticato.
    Per il gip c'è un «rapporto consolidato» tra Federico Lucia e il narcos Lucci (quello della stretta di mano con Salvini). A lui si rivolge Fedez per avere un bodyguard, per introdurre a San Siro la bibita Boem che promuove con Lazza. E sempre con lui progetta una scalata (finita in nulla) per acquisire la discoteca Old Fashion, tanto da assicurare al telefono: «Ho già chiamato Boeri», il presidente della Triennale, proprietaria degli spazi del locale. Fedez va a trovare Lucci anche due giorni dopo il pestaggio del personal trainer dei vip, Cristiano Iovino, in via Traiano, dopo una rissa al The Club, nata nell'ambito della disputa con Nicolò Rapisarda, in arte Tony Effe, sfociata nel dissing delle ultime settimane. Una spedizione punitiva a cui ha partecipato anche Rosiello, tra botte e minacce di morte alla vittima: «Chiedi scusa…devi chiedere scusa, noi torniamo e ti ficchiamo una pallottola in testa…».
    Il caso si è chiuso con una transazione stragiudiziale e Iovino - che chiamano Jimmy palestra - non ha denunciato. È sempre Fedez a spiegare la situazione a Lucci: «Son proprio stupidi, vabbè, quando torna il Tony...niente dobbiamo e basta… – spiega Fedez intercettato – è semplice la cosa frate! Tony ha un amico, tutti sanno che quello è amico suo, l'amico di Tony si fa male e Tony siccome deve fare il ragazzetto ghetto non può permettersi che si sappia che un suo amico si è fatto male senza che lui poi l'abbia difeso! Perché, a casa mia, lo difendi quando c'ha bisogno non dopo, però… adesso ha fatto brutto a Lazza… far brutto a Lazza, vuol dire far brutto a mio figlio, ti pare!?».
    Ma c'è di più. E si è scoperto nelle pieghe dell'indagine. Facendo leva sull'intraprendenza del suo fedelissimo Hagag e ai suoi rapporti col mondo criminale calabrese, è stato Lucci a organizzare una serie di concerti di Fedez ad agosto soprattutto nel Sud Italia. Tanto che il nome del picchiatore Hagag «è comparso sul sito ticketone.it in qualità di organizzatore del concerto di Fedez previsto per il 6 agosto del 2024 al Calura di Roccella Jonica e di tutti gli altri eventi previsti nel mese di agosto in quel locale e in altri locali notturni calabresi, grazie alla mediazione della Why Event di Lucci»

  5. Il vicepremier nel 2018 era stato immortalato con il capo della tifoseria Luca Lucci arrestato ieri
    Le amicizie pericolose che sfiorano Salvini "La violenza deve restare fuori dagli stadi"

    FRANCESCO MOSCATELLI
    ANDREA SIRAVO
    MILANO
    Per Matteo Salvini l'inchiesta sugli ultras milanesi non è un bel modo per cominciare la settimana del raduno leghista previsto per domenica prossima a Pontida. Una settimana che, nelle sue intenzioni, dovrebbe essere di rilancio dell'azione politica sui fronti dell'immigrazione (il 18 ottobre a Palermo è attesa l'arringa del suo legale Giulia Bongiorno nel processo Open Arms) e del sovranismo (domenica sul «sacro pratone» ci saranno il premier ungherese Viktor Orban e l'olandese Geert Wilders).Perché se è bene chiarire che né il segretario né altri esponenti del Carroccio sono stati anche solo sfiorati dalle indagini, è inevitabile che il blitz della Dda milanese riporti a galla il legame tra Salvini e la Curva Sud del Milan, a cominciare dalla celebre foto del dicembre 2018 in cui l'allora ministro dell'Interno stringeva la mano a Luca Lucci, il leader indiscusso dal 2009 del tifo organizzato rossonero con già due condanne definitive per droga dopo gli arresti nel 2018 e nel 2021.
    «Io ho fotografie con circa 100 mila persone - ha detto ieri mattina Salvini a margine di un convegno sulla gestione idrica che si svolgeva a Milano -. Vado allo stadio da quando sono piccino e con milanisti ho alcune migliaia di foto, sperando che siano tutte persone per bene. Però mi fido assolutamente delle forze dell'ordine, penso anche agli scontri prima del derby di Genova. Io sono un tifoso appassionato però la violenza e la mafia devono stare assolutamente fuori dagli stadi». Quindi ha aggiunto: «Io vado allo stadio da quando ho cinque anni e se qualcuno usa lo stadio per farsi gli interessi suoi, poi con puzza di mafia, camorra e ‘ndrangheta, va assolutamente isolato, beccato e allontanato». Una presa di distanza molto netta che a qualcuno, però, potrà sembrare tardiva. Un anno e mezzo fa, infatti, il segretario e vice-premier era tornato a far parlare del suo rapporto con gli ultras rossoneri per aver difeso pubblicamente la protesta (vietata dalla giustizia sportiva) andata in scena dopo una clamorosa sconfitta della squadra allenata allora da Stefano Pioli allo stadio Picco di La Spezia. «Penso e spero che ci siano cose più importanti di cui occuparsi», disse Salvini.
    Tra i tifosi che avevano costretto giocatori e mister a un'umiliante tirata d'orecchie sotto la curva degli ospiti c'era Francesco Lucci, fratello di Luca arrestato ieri sulla pista di Orio al Serio appena sceso da un volo che lo riportava in Italia da Dubai. La violenza è il dna dei fratelli Lucci. «C'ho una sete di sangue che solo Dio lo sa!», si rammarica Luca, detto il «Toro» tornando a San Siro nel novembre 2023. Non sulla balaustra del secondo anello Blu ma in tribuna. Quella che lo ha fatto resistere a tentativi di detronizzazione di Giancarlo Lombardi, detto Sandokan. L'ex fedelissimo divenuto nemico. «Gli dico "non dividiamo la curva"… eh allora lui mi dice "Allora mi dai sotto come avevamo detto prima". Ho detto: "Non ti do neanche sotto" … Io gli dico no su tutto», si sfoga Lucci con Loris Grancini, capo del gruppo ultras dei Viking della Juventus. Tra le preoccupazioni c'era anche quella di essere nuovamente arrestato quando a luglio 2023 scopre un'ambientale in casa sua: «Sicuro sono indagato per associazione, capirai questi fino a che non mi massacrano non son contenti», profetizza ai suoi parenti il Toro. —

  6. Partite le audizioni nell'inchiesta che ha condotto in carcere il dipendente della Filca, Ceravolo I segretari nazionali della sigla (non indagati) saranno sentiti come persone informate sui fatti
    Mafia, tessere e sindacato i vertici della Cisl in procura

    giuseppe legato
    Nei prossimi giorni i vertici del sindacato Cisl (e Filca Cisl) saranno sentiti in procura come persone informate sui fatti. La cornice delle audizioni notificate a tre dei massimi rappresentanti della sigla confederale è quella dell'inchiesta Factotum che ha portato in carcere la scorsa settimana Domenico Ceravolo, dipendente del sindacato edili a Torino e dallo scorso 13 febbraio componente della segreteria provinciale. L'accusa per Ceravolo è quella di associazione a delinquere di stampo mafioso. Di questo lo accusano i pm Paolo Toso, Marco Sanini e Mario Bendoni titolari del fascicolo. A Torino, in procura, arriveranno Mauro De Lellis, segretario provinciale della Filca (da 4 giorni promosso responsabile regionale), Ottavio De Luca e il segretario nazionale della Cisl Luigi Sbarra (non indagati). La notizia delle convocazioni è emersa da ambienti sindacali.
    Considerato uomo vicino a Franco D'Onofrio, anche lui finito in manette con l'accusa "di dirigere la rete della ‘ndrangheta in Piemonte", Ceravolo, assistito dal legale Christian Scaramozzino, si professa innocente. Il tema delle audizioni però non sarà questo. E basta leggere gli atti finora pubblici su questa inchiesta per cogliere come il focus il comportamento del sindacato nei suoi confronti. Per i pm «è dimostrata la consapevolezza da parte dei vertici Filca Cisl dell'appartenenza/vicinanza di Ceravolo al contesto 'ndranghetistico». Lo dimostrerebbero i benefit che gli vengono riservati come ad esempio il pagamento del viaggio per andare in Calabria a deporre come teste della difesa di un boss nell'aula bunker di Lamezia Terme per testimoniare nel maxi-processo Rinascita Scott. Le spese di viaggio vengono "coperte" dal sindacato. Gli investigatori sottolineano nel decreto di fermo che «tale esborso, che non può di certo ritenersi una spesa attinente le attività istituzionali dell'ente». Di più: che di questo «non è stato tenuto all'oscuro il vertice romano dell'organizzazione sindacale stessa». Ancora: «Che i nominati responsabili della Filca Cisl (non indagati, ripetiamo) fossero a conoscenza del motivo inerente la trasferta calabrese di Domenico Ceravolo. Con le prossime audizioni si chiarirà un altro punto emerso agli atti che riguarda il trojan (un virus informatico) inoculato dal Nucleo di polizia economica della Finanza nel telefonino di Ceravolo. Secondo gli inquirenti ci sarebbe stato «un accertato diretto interessamento dei vertici sindacali a favore di Ceravolo allorquando sono emersi chiari segnali di una possibile attività investigativa svolta nei confronti di quest'ultimo». Ovvero: «Dopo l'inoculamento del trojan sul telefono aziendale del dipendente è uno dei vertici della Filca Cisl a contattare il gestore Vodafone «per rappresentare alcune anomali che stava riscontrando su quel telefono: «Senta, la chiamo per un problema che ha il proprietario, l'intestatario di questo numero. Non riusciamo a disinstallare o quantomeno a bloccare un ... un'applicazione che è "Assistenza in linea" che continua a lavorare in background, volevamo capire se era possibile disattivarla tramite il servizio o c'è qualche anomalia». Per gli investigatori «è un chiaro segnale di aver compreso che si trattasse di un trojan». Pochi giorni dopo a Ceravolo arriverà un cellulare nuovo: «Questo costa 1300/1400 euro». Chiosano i pm: «Tale dispositivo, avrebbe reso impossibile un nuovo tentativo di inoculazione». —

  7. Il risanamento prevede la decontaminazione del terreno dai veleni
    Parte la maxi bonifica dell'ex area Thyssen Sei anni di cantiere

    diego molino
    Il futuro dell'ex Thyssenkrupp, una ferita ancora aperta sull'asse di corso Regina Margherita, è tutto da scrivere. Un primo bagliore di luce si intravvede adesso, visto che nei prossimi giorni partiranno le opere di bonifica di tutta l'area. Un cambio di passo annunciato dall'assessore all'Urbanistica Paolo Mazzoleni, nel corso di una commissione che si è svolta ieri a Palazzo Civico, dopo una serie di ritardi e rinvii sul cronoprogramma dei lavori. Non sarà un processo breve: gli interventi di messa in sicurezza operativa avranno una durata di sei anni e dovrebbero concludersi nel 2030, mentre il costo complessivo sarà di 4,5 milioni di euro, a carico degli attuali proprietari di Arvedi Ast.
    Parte dunque l'iter per preparare il futuro di questa porzione di città dove 17 anni fa, nella notte del 6 dicembre del 2007, scoppiò un incendio all'interno della fabbrica che provocò la morte di sette operai. La bonifica sarebbe dovuta partire già nello scorso luglio, ma la proprietà aveva chiesto - e ottenuto – dal Comune una proroga di tre mesi. Oggi invece Arvedi Ast ha comunicato alla Città di aver individuato un operatore e un direttore dei lavori. Il piano di risanamento del terreno prevede un mosaico di attività che sono mirate alla riduzione della presenza di cromo esavalente e del rischio che possa fuoriuscire dal perimetro dell'ex sito industriale. Un'altra parte di opere serviranno al controllo delle emissioni di acqua contaminata, all'eliminazione degli idrocarburi e all'impermeabilizzazione di una parte scoperta del vecchio stabilimento, per prevenire il rilascio di sostanze inquinanti all'interno della falda.
    Questo per ciò che riguarda le operazioni di bonifica dell'area. Al contempo, però, si lavora anche per disegnarne la futura vocazione. Nello scorso mese di marzo, il consiglio comunale decise di approvare una delibera con cui si stabiliva una variante al piano regolatore, prevedendo una successiva destinazione d'uso dei terreni a parco urbano, che possa collegarsi alla vicina area del parco della Pellerina. Un documento contro cui i proprietari di Arvedi hanno presentato ricorso al Tar, come ha spiegato l'assessore Mazzoleni in commissione: «In merito al ricorso la Città si è costituita in giudizio, riteniamo che la delibera approvata sia assolutamente solida e difendibile, anche se la variante non è ancora stata approvata».
    Nei mesi scorsi il progetto del "verde su soletta" aveva attirato però anche diverse critiche di alcuni comitati di cittadini, che al contrario chiedevano una bonifica in profondità dell'ex sito industriale. Al momento non ci sono invece conferme sul fatto che Arvedi abbia trovato un nuovo acquirente per l'area. —

 

 

 

 

 

01.10.24
  1. FUOCO SOTTO IL VESTITO CINESE : 

    La BYD ha avviato una procedura di richiamo per 97.000 auto elettriche prodotte tra il novembre del 2022 e il dicembre del 2023: il problema, che potrebbe portare a un rischio di incendio, riguarda un difetto di fabbricazione relativo alla centralina del servosterzo delle Dolphin e delle Yuan Plus. Stando ai dati della China Association of Automobile Manufacturers, l’associazione dei costruttori cinesi, nel 2023 i due modelli sono state le vetture più vendute dalla Casa, forti di 750 mila unità.

     

    Interventi già in corso. La Casa cinese sta richiamando nelle proprie officine tutte le vetture coinvolte per risolvere il problema con l’installazione di una nuovo componente. Al momento non è ancora chiaro se il problema riguarda anche gli esemplari esportati all’estero, ed eventualmente in quale percentuale. Per la BYD si tratta del secondo richiamo nel giro di due anni: nel 2022 una piccola quantità di Tang plug-in aveva segnalato un difetto nella batteria di trazione.

  2. NON COMPRERI MAI QUESTE AUTO :    SONO A BORDO QUINDI LI HAI GIÀ PAGATTI - La connessione a Internet delle auto moderne (grazie a una scheda sim, come quella dei telefonini) ha aumentato il numero di servizi disponibili, fornisce informazioni in tempo reale (per esempio sul traffico) e permette di aggiornare l’elettronica di bordo senza passare in officina. Bello? Sì, ma non sempre: le case, infatti, possono “gestire” alcuni accessori a distanza, attivandoli solo a pagamento. L’auto può avere i fari a matrice di led (ad abbaglianti accesi riconoscono la presenza di altri veicoli e creano un cono d’ombra per non accecare), ma che lavorano come luci “normali” a meno di pagare un abbonamento. Stesso discorso per le sospensioni a controllo elettronico e per il cruise control adattativo: potresti avere già a bordo tutti gli elementi (e quindi, in pratica, averli pagati), ma col software bloccato dalla casa.

    E IN CASO D'INCIDENTE TI COSTA DI PIÙ - Se poi fai un incidente, potresti trovarti a pagare cifre altissime e ingiustificate: un faro a matrice di led (anche se non attivato) è molto più caro di uno “passivo”. E anche i sensori del cruise adattativo sono cari da riparare… Le case offrono queste funzioni per un certo periodo o per sempre. Qui trovate alcuni esempi, col prezzo indicativo. Infatti, soltanto dopo aver inserito il numero di telaio della propria auto (nell’app o nel negozio virtuale) si può sapere cosa si può avere e cosa no, e quanto costa.

    AUDI: POCHI, SOFISTICATI “OPTIONAL”


    L’offerta si concentra su tecnologie raffinate e dall’hardware costoso (come i fari “intelligenti” o il sistema di parcheggio automatico).

    Fa eccezione lo Smartphone Interface: Android Auto e Apple CarPlay senza filo. Un mese, per la Q5, costa € 18; per sempre, € 470 (€ 20 e € 550 rispettivamente per le A6, A7 Sportback e Q7). In auto di questo tipo, l’accessorio dovrebbe essere di serie.
    L’assistente al parcheggio, che aiuta nella manovra azionando in automatico lo sterzo, nel caso della eTron e Q8 eTron costa € 9,99 al mese e 500 per sempre.
    I fari matrix led (che attivano la luce abbagliante senza accecare chi si incrocia o si segue) per la suv Q8 e-tron costano € 70 per un mese; sbloccarli per sempre, € 2.240.

    BMW: NEL NEGOZIO ONLINE C’È DAVVERO DI TUTTO


    Le funzioni sono solo per le vetture con connessione a internet Connected Drive. Qui mostriamo i prezzi del negozio online, ma bisogna verificare costi e disponibilità per la propria auto.

    Active Cruise Control con funzione Stop&Go: regola in automatico la velocità e la distanza dal veicolo che precede, costa € 899 (per sempre).
    Aggiornamento mappe: il rinnovo è annuale: € 89. Assistente abbaglianti (attivazione automatica): un mese, € 9; un anno, € 99; tre anni, € 149; per sempre, € 199.
    BMW drive recorder: riconosce gli incidenti e salva automaticamente le immagini precedenti al sinistro. Un mese, € 15; un anno, € 59; tre anni, € 129; per sempre, € 299.
    Driving assistant plus, la guida assistita di Livello 2 (mantiene in automatico velocità, corsia e distanza dal veicolo che precede). Un mese costa, € 49; un anno, € 429; tre anni, € 649; per sempre, € 929.
    Real Time Traffic Information: informa in tempo reale sul traffico. Un anno: € 69.
    Traffic camera information: gli autovelox fissi e i rilevatori di semaforo rosso vengono segnalati sul display centrale. Rinnovo annuale a € 39.
    Gli ammortizzatori a controllo elettronico potrebbero essere già in auto, ma non è detto che funzionino. Per attivarli: € 29 per un mese; € 209 per un anno; € 429 per sempre.

    DS: L’APP PER ELETTRICHE? € 40 ALL’ANNO


    Il Connect Plus è di serie per i primi tre anni e comprende, fra le altre, tre funzioni per le elettriche e le plug-in che restano sempre attive: programmazione della ricarica, controllo dell’autonomia e attivazione del “clima” via app. Dopo i primi tre anni, il resto diventa a pagamento.
    L’Intelligenza artificiale ChatGPT costa € 1,5 al mese o € 15 all’anno;
    Le informazioni in tempo reale su traffico, autovelox e parcheggi, € 9,9 al mese o € 109 all’anno;
    L’app E-Routes per la pianificazione del viaggio con suggerimento delle soste per la ricarica, € 4 al mese o € 40 all’anno.

    FORD: NELLE ELETTRICHE È QUASI TUTTO COMPRESO


    Disponibilità e prezzi per il proprio veicolo si ottengono solo dopo aver inserito il numero di telaio nel negozio virtuale o nella app.

    Connettività premium: musica online e comandi vocali Alexa. Per le Mustang Mach-E prodotte dal 2021 e le Focus dal 2022, 90 giorni di prova gratuita e poi 4,99 €/mese.
    Ford Secure: in caso di furto dell’auto, questo servizio la localizza (per le Mustang Mach-E prodotte dal 2021 e le Focus dal 2022); un anno di prova gratuita, poi 5,99 €/mese.
    Navigazione connessa: informazioni su traffico, prezzi e disponibilità di colonnine, distributori e parcheggi. Dopo un anno di prova gratuita, € 5,99 al mese; di serie per le elettriche.

    MERCEDES: PACCHETTI SU MISURA


    Per semplificare la scelta, la casa di Stoccarda propone il Connect Package: costa € 14,90 al mese (ma i primi 30 giorni sono gratuiti), oppure € 149,00 all’anno. Include, fra l’altro, Internet radio, notifica di furto, rilevamento dei danni da parcheggio, previsioni del tempo e giochi, nonché l’attivazione del “clima” e l’apertura di finestrini e tetto in vetro dall’app.

    Dalla primavera, le A, B, GLA ed EQA sono proposte anche in versione Digital Edition: una serie speciale che costa 1.464 euro in più rispetto all’auto “base”e che comprende 41 funzioni normalmente attivabili online (a pagamento), comprese quelle del Connect Package indicate qui sopra. A queste si aggiungono accessori di valore, come il pacchetto di assistenza alla guida (cruise control adattativo, monitoraggio dell’angolo cieco e altri aiuti elettronici); il collegamento senza filo ad Android Auto o Apple CarPlay; il sistema di parcheggio assistito con telecamere a 360° (l’auto sterza in automatico e può entrare e uscire dal parcheggio senza guidatore a bordo); il pacchetto Guard 360° (localizzazione della vettura e supporto in caso di furto dell’auto). Nelle Digital Edition è di serie anche la verniciatura metallizzata.

    VOLKSWAGEN: UNA SOLA "CADUTA DI STILE"


    Le possibilità di scelta sono limitate, perché quasi tutto è di serie: è una scelta della Volkswagen Italia per semplificare la vita dei clienti. In Germania, infatti, nel negozio virtuale ci sono molti più accessori a pagamento.

    Da noi si pagano solo il navigatore (685 euro per Polo, T-Cross, T-Roc, Taigo e 679 euro per Passat e Tiguan) e i controlli vocali (€ 275 per tutte, per sempre).
    E comunque, dal momento che Android Auto e Apple CarPlay sono di serie ed entrambi sono dotati di navigazione e comandi vocali intelligenti, si può fare a meno di quelli della Volkswagen.
    Il tasto per scaldare i sedili, € 97
    La Passat e la Tiguan si possono avere con il Travel Assist (aggancia la corsia e il veicolo davanti e può fare il sorpasso in automatico, € 395 euro per sempre) e i sedili riscaldabili, € 96,9 per sempre. Nel caso dei sedili, non si paga nemmeno un software, ma solo il tasto (virtuale) per attivarli

 

  1. DOPO ANNI HANNO CAPITO LA SPIA CINESE :   QUESTIONE DI SICUREZZA - Mentre la Cina chiede all’Italia di adottare Huwaei come fornitore di servizi di telecomunicazioni in cambio di un investimento per la fabbrica della Dongfeng (qui per saperne di più), l’Europa potrebbe presto seguire l’esempio degli Stati Uniti, che pochi giorni fa hanno annunciato l’intenzione di mettere al bando i software cinesi e russi dalle auto destinate al loro mercato (qui la news). Anche Bruxelles starebbe infatti pensando a introdurre blocchi verso tecnologie provenienti da paesi considerati “nemici”. Condividendo le preoccupazioni di Washington, la danese Margrethe Vestager, che nella commissione europea è a capo delle questioni legate alla digitalizzazione, ha annunciato che “è legittimo esaminare se quel tipo di tecnologia possa essere o meno utilizzata in modo improprio quando si tratta di questioni di sicurezza”. Le auto connesse, ha detto Vestager, possono registrare e comunicare dati sensibili: per questi alla UE “stanno esaminando la questione, anche con i nostri esperti di sicurezza economica”.

    NON TUTTI SONO D’ACCORDO - Nelle prossime settimane i funzionari europei per la sicurezza informatica presenteranno una bozza con le misure proposte sulla connettività dei veicoli, che potrebbe trasformarsi in un documento non vincolante, cioè dipendente in larga misura dalla volontà da parte dei singoli governi di trasformarli in restrizioni effettive. Sulla questione c’è però dibattito, perché le aziende europee hanno avvertito che le misure adottate negli USA potrebbero avere effetti negativi al settore automobilistico del Vecchio Continente, obbligando le case a trovare nuovi fornitori. Inoltre i costruttori hanno paura di irritare Pechino, in particolare i marchi tedeschi che sul mercato cinese fondano una buona parte dei loro ricavi.

    PROTEZIONE DEI DATI - Intanto un’altra norma europea sulla sicurezza informativa ha già avuto un impatto in Europa: infatti a luglio è entrata in vigore una normativa secondo la quale i produttori europei devono implementare un sistema di gestione della sicurezza informativa per proteggere i dati degli utenti. Secondo l’analista automobilistico Matthias Schmidt, subito si sono viste le conseguenze del provvedimento, che ha intaccato presto le vendite di auto cinesi: per esempio, afferma Schmidt, la MG (di proprietà della cinese SAIC) a luglio non ha immatricolato alcun veicolo. La stessa norma ha avuto ripercussioni anche sui costruttori europei: il ritiro dal mercato della Porsche Macan con il motore a combustione sarebbe legato proprio all’impossibilità di soddisfare i nuovi requisiti.
  2. Scuola
    a pezzi
    Elisa Forte
    Sessantanove crolli in 12 mesi: nelle scuole italiane questo numero non era stato mai raggiunto negli ultimi 7 anni. Il record di crolli (quasi 6 al mese) è un dato dello scorso anno scolastico. Oltre ai danni e all'interruzione delle lezioni, sono rimasti feriti (per fortuna senza gravi conseguenze) 9 studenti, 3 docenti, 2 collaboratori scolastici, un'educatrice e 4 operai. A dare ascolto al racconto dei numeri, nella scuola le cose da migliorare paiono davvero essere molte di più rispetto a quelle che funzionano. L'ultimo dettagliato Rapporto ImparareSicuri di Cittadinanzattiva non ha solo messo a nudo le crepe dell'edilizia scolastica. Dati, raffronti, grafici e schede compongono una mappa del cattivo stato di salute degli istituti. La diagnostica degli edifici scolastici, in Italia sono 40.133, restituisce un quadro sconcertante se si analizzano l'agibilità (il 59,16% non ha il certificato), l'antincendio (la prevenzione è carente nel 57,68% degli istituti) e il collaudo statico (manca nel 41,5% dei casi). E sono ancora troppo poche (solo l'11,4%) le scuole progettate secondo le norme antisismiche.
    Poi, «se c'è di mezzo l'edilizia di scorporo, la situazione peggiora. Se gli edifici sono stati costruiti con materiali scadenti, non solo la manutenzione diventa costosa, ma, a volte, cercare le cause di alcuni problemi comporta tempi lunghi», spiega il preside Giovanni Cogliandro. Basta vedere quel che è successo all'Istituto che dirige, il Comprensivo Mozart di Roma, in Viale Castelporziano, poco distante dalla tenuta del Presidente della Repubblica. In alcune classi pioveva. «Per risalire alle origini delle infiltrazioni – racconta Cogliandro – il Comune, finora sempre pronto a intervenire, ha dovuto fare decine di interventi. Alla fine è stato scoperto che la guaina dell'intera scuola era stata montata al contrario». «Colpa dell'edilizia di scorporo – precisa –. Se i controlli latitano si costruisce al risparmio e i guai sono nostri. Così noi presidi per proteggerci da eventuali danni intasiamo le pec delle istituzioni con continue segnalazioni. Siamo costretti a comportarci come si fa nella medicina difensiva».
    C'è ancora tanto da fare anche per abbattere le barriere architettoniche. «In questo nuovo anno scolastico sono 331.124 gli alunni con disabilità (4,68% dei 7.073.587 del totale studenti), in aumento rispetto al precedente in cui erano 311.201. Solo il 40% delle scuole risulta accessibile per chi ha disabilità motorie. Situazione ancora più grave per gli alunni con disabilità sensoriali: le segnalazioni visive ci sono nel 17% delle scuole mentre i percorsi tattili sono presenti solo nell'1,2%», commenta Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva.
    I crolli record dell'ultimo anno sono stati 28 al Nord, 13 al Centro e 28 al Sud. A La Spezia nella scuola media Fontana è rimasta ferita una tredicenne per il crollo di intonaco nel bagno. Si stava lavando le mani, quando un metro quadro di materiale si è staccato: ha riportato escoriazioni alla fronte e al braccio. Un mese prima, tragedia sfiorata a Chiavari: si è aperta una voragine di 12 metri quadrati nel corridoio della scuola Della Torre. Fortunatamente nessuno si è fatto male. Mancavano pochi giorni alla chiusura dell'anno scolastico, era il 3 giugno scorso e a Venezia è crollato il controsoffitto affrescato del '700 in un'aula del liceo Benedetto Tommaseo. E un violento temporale ha fatto cedere il controsoffitto alla Media di Cerro del Lambro in Lombardia.
    A volte, fuori dalla scuola, se la manutenzione del verde non è una priorità, si rischia di finire sotto un albero. A Rivalta, in Piemonte, è venuto giù un cedro. Un grosso albero di pino si è piegato davanti all'ingresso di una scuola ad Anzio. Mentre un altro pino in Sardegna ha oltrepassato la recinzione della scuola e ha abbattuto un palo dell'Enel. A Roma, il preside Cogliandro gioisce perché «finalmente ha le facciate con l'intonaco nuovo» ma lotta contro i parassiti degli eucalipti nel cortile. E nel Viale della scuola stanno tramontando anche i pini marittimi, lascito dei Savoia. «Sono altissimi e a volte cascano». La cura verde, dentro e fuori la scuola, resta una chimera. «I bambini stanno perdendo ore di studio, fanno dalle 8.30 alle 12.30, vanno a mensa e due ore dopo escono. Da quasi un mese viene negato un diritto inalienabile». Francesca Rizzi è la responsabile del comitato genitori della scuola primaria Gino Capponi di Milano. Suo figlio frequenta la quinta elementare in via Pestalozzi 13 e ancora non potrà fare lezione fino alle 16.30.
    La prima campanella è suonata da quasi quattro settimane ma il tempo pieno stenta a partire in diverse scuole primarie milanesi, per il ritardo con cui si stanno assegnando le cattedre. I genitori si sono organizzati per pagare educatori che tengono i bambini a scuola fino alle 16.30. Le 24 classi usciranno tutte alle 14.30 anche per questa settimana» denuncia Francesca Rizzi. Le famiglie stanno pagando 50 euro a settimana per avere il servizio integrativo di WeMove, in attesa del tempo pieno che non partirà almeno fino al 4 ottobre.
    Alla Leonardo da Vinci fino a pochi giorni fa mancavano 5 cattedre. «Per 13 giorni siamo dovuti ricorrere alla Cooperativa Bracco» racconta Daniela Faggion, presidente dell'Associazione Amici della Leonardo. Su 650 alunni, 300 famiglie hanno pagato 2,50 euro al giorno. Non tutti hanno potuto aderire a causa della mancanza di spazi. Sette aule sono inagibili per lavori che non riescono a partire ma che hanno ridotto gli spazi.
    «Abbiamo già iniziato le chiamate, due docenti arriveranno lunedì - spiega il preside Antonio Re -. I tempi sono lunghi, quasi un mese, tra il primo e il secondo turno di chiamata. In questo tempo non abbiamo più potuto chiamare perché spettava all'Ufficio scolastico».
    Alla base delle assegnazioni ci sono i bollettini pubblicati dagli uffici scolastici regionali, il primo a fine agosto, il secondo a fine settembre. «Con il secondo bollettino, i posti non coperti sono stati restituiti alle scuole che ora devono fare la ricerca del candidato - spiega Massimiliano Sambruna, segretario Cisl Scuola Milano Lombardia -. Non è funzionale non lasciare l'autonomia alle scuole di poter usare le proprie graduatorie di istituto dopo il primo bollettino. La singola scuola così si prenderebbe in carico la rinuncia e nominerebbe dalle proprie graduatorie di istituto». Il secondo bollettino è stato pubblicato il 26 settembre e le nomine dovrebbero arrivare questa settimana. A Milano, con 325 istituzioni scolastiche, di cui 180 istituti comprensivi per il 95% a tempo pieno, c'è anche un tasso di rinuncia della nomina del 40%. «Basterebbe dire nell'ordinanza ministeriale che dopo il primo bollettino spetta alle scuole e già si ridurrebbero i tempi» conclude il segretario.
  3. Nel giacimento di Bayan Obo, vicino alla Mongolia, si sviluppano oltre 15 materie prime critiche per superconduttori, laser, magneti e fibre ottiche
    Alla Cina lo scettro delle terre rare Ha la metà della produzione mondiale
    Lorenzo Lamperti
    «Il Medio Oriente ha il petrolio, noi abbiamo le terre rare». È il 1987, Deng Xiaoping è in viaggio nella Mongolia interna, estremo nord della Cina. Il piccolo timoniere visita Bayan Obo, letteralmente «città del cervo». Già allora, quei terreni erano dominio esclusivo di minerali critici oggi alla base dello sviluppo di dispositivi tecnologici utili alla transizione energetica. Deng intuisce che coltivare quelle terre rare, in un'era in cui la Cina «nasconde la sua forza», può garantire un vantaggio strategico.
    Oggi, Bayan Obo ospita il più grande giacimento di terre rare del mondo ed è responsabile di circa il 50% della produzione globale. Numeri mostruosi. Neodimio, lantanio, terbio e altri 14 elementi diventati cruciali per la realizzazione di superconduttori, magneti, laser, fibre ottiche. E soprattutto di veicoli elettrici, pilastro delle «nuove forze produttive», il mantra dello sviluppo voluto da Xi Jinping. D'altronde, attualmente Pechino produce circa il 60% dei metalli delle terre rare del mondo e circa il 90% delle terre rare raffinate presenti sul mercato. Un tempo non era così. Tra il 1965 e il 1995, era la californiana Mountain Pass ad avere la leadership, prima che la concorrenza dei fornitori cinesi coi loro prezzi al ribasso la costringesse persino a chiudere per qualche anno.
    La Cina non è l'unico Paese a possedere te